Signore,
sono tredici anni che mi vedete ogni giorno, eppure non mi avete mai visto. La mia presenza è diventata per voi un’abi-tudine alla quale non volete rinunciare. Dite di stimarmi, siete convinto di conoscermi e di amarmi. Io vi guardo, e poiché mi sono imposto di non piangere, sorrido.
Dovete essere molto sicuro di voi per essere tanto sicuro di me.
Sappiate che ci sono molti modi per travestire la verità, almeno quanti ce ne sono per viverla. Dietro la maschera di una sincerità che non rinnego, io vi ho sempre mentito, e mentivo anche stamattina, quando vi ho promesso che domani sarei tornato. Stavo per tradirmi quando sulla porta vi siete girato e avete detto: «Se voi mi abbandonaste, non so cosa ne sarebbe di me». Avrei voluto chiedervi perdono, ma non potevo. Ho taciuto per far sì che foste voi a lasciarmi per primo. Così doveva essere, l’avevo giurato a me stesso. Ora non ho altra scelta che andare fino in fondo.
Dovrete imparare a fare a meno di me, Charles. Sì, parto. Andrò lontano, e starò lontano a lungo. Poiché non posso portarvi con me, devo sperare che un giorno mi raggiungerete. Il mondo e la ragione cercheranno di dissuadervi dal farlo, ma io sono fiducioso. I semi che ho piantato in voi finiranno per germogliare, e non basterà l’assenza a spezzare il filo d’affetto che ci lega. Ora mi maledirete, ma un giorno tornerete da me. Il tempo, la nostalgia, il dispiacere si possono domare, e le parole che sto per scrivere vi guideranno.
Seguite la mia voce.
Sarà un lungo viaggio, e non sarà indolore, non lo è stato nemmeno per me. Non lasciate mai la mia mano, gridate solo se nessuno vi sente, bruciate questi fogli solo dopo aver letto l’ultimo. Per ciò che ho subito e fatto non provo vergogna né rimorso. Svelarvi la mia verità dà finalmente un senso al destino al quale il re di Francia mi ha condannato.
Fatevi portare una provvista di legna, congedate il servo, mettetevi comodo. Questa notte dormirete poco, e anche le prossime notti. Stanno per entrare nella vostra vita ombre che finora non vi hanno mai sfiorato, ombre di cui ora potete a malapena immaginare l’esistenza. Eppure dovrete accettarle, e alla fine di questa lettera esse faranno parte di voi.
Avete allungato le gambe sullo sgabello verde?
Bene.
Ora avvicinate la candela e aprite gli occhi.
La prima creatura che dovete guardare non è un essere umano, ma un furetto. Sì, un furetto. Quello del quale vi parlo è grassottello, più rossiccio che grigio, e in questo momento squittisce e guaisce di terrore in una nuvola di fumo che di minuto in minuto si fa più fitta.
Lo vedete?
Sulla testa ha una macchia chiara a forma di croce. Aggrappato al davanzale di una finestra, raspa disperatamente con le unghie le commessure della vetrata, sotto di lui il rivestimento di legno brucia e sputa fuliggine, fuori la notte è nera e il vento ulula, dentro il fuoco sibila e strepita, e il furetto stremato sta per lasciare la presa… Una mano apre il battente, lo afferra alla pancia, lo salva dalle vampe avvivate dalla corrente d’aria e lo ficca in fondo a una tasca che il furetto conosce. Una voce gli dice: «Va tutto bene, Gesù, va tutto bene». La sacca che il suo padrone porta sulla spalla per poco non lo schiaccia, però Gesù è al sicuro, lontano dal fuoco. L’animale si tranquillizza e si addormenta.
L’uomo che ha salvato il furetto si chiama Batiste. Non può salutarvi, perché purtroppo non vi è stato ancora presentato, ma vi assicuro che se potesse lo farebbe con uno slancio sorprendente. Batiste ama sorprendere, non fa mai quello che ci si aspetta da lui.
Seguitelo.
Subito, sì, ma da lontano e senza farvi notare, perché un uomo che cammina in piena notte a passo spedito e con una sacca così grossa sulla spalla preferisce evitare gli incontri. Batiste ha calcolato che attraversando la Bièvre per il ponte della Croix-Clamart e la Senna per il Pont-Neuf, gli ci vorranno due ore per superare gli acquitrini e raggiungere, dal faubourg Saint-Marceau, la place de Grève. Il mercato di Saint-Esprit apre all’alba, e se vuole concludere l’affare senza essere visto dalle cenciaiole deve sbrigarsi. Le cenciaiole sono una razza pericolosa. A forza di svestire e rivestire gli sconosciuti fermati per la strada, quelle donne la sanno lunga sulla natura umana, e Batiste desidera passare inosservato. Quelle lo conoscono, più di una volta si sono rivolte a lui per ripulire gli abiti o per tagliarli a pezzi. Alcune gli hanno persino proposto vitto e alloggio in casa loro, ma nelle donne il timor di Dio è più forte di certe debolezze, e se sapessero ciò che Batiste ha appena fatto andrebbero difilato a denunciarlo. Il quartiere dell’Hôtel de Ville è deserto, ma Batiste, per prudenza, cammina rasente ai muri. Rue Tirechape, lunga e stretta, costeggia la fiancata dell’ospitale Saint-Esprit e conta trentotto case di varia altezza, con le porte basse e dei rigonfiamenti sulle facciate che sembrano verruche. Batiste si infila sotto l’insegna di un vinaio che fa da passaggio al vicolo dei Bourdonnais. L’uomo che cerca è rannicchiato sul fondo di una botte spaccata a metà, e sotto il mucchio di stracci che lo nasconde russa, ansima e sibila come sibilava l’incendio divampato nella chiesa. Ma è sufficiente che Batiste si chini su di lui, ed eccolo spalancare due occhietti sveglissimi.
«Che il Cielo ti protegga, figliolo, hai la faccia di uno che ha appena dissotterrato un tesoro.»
Batiste posa la pesante sacca sul bordo della botte.
«Vuoi vedere?»
«Roba rubata non porta vantaggio…»
Batiste si stringe nelle spalle.
«Ora anche uno spretato si mette a farmi la morale?»
L’uomo si alza, si stira, cerca di aggiustarsi addosso la vecchia tonaca, stappa la fiaschetta che tiene appesa al collo e beve una lunga sorsata. Il corpo smilzo, non più grosso della coscia di una matrona, la testa rasata sotto un berretto di lana scura, la bocca sinuosa e quasi priva di labbra lo rendono simile a un’anguilla. Batiste slega la cordicella della sacca e tira fuori una pianeta sacerdotale con il collo e le maniche bordate di passamaneria d’argento. L’uomo tasta il tessuto con dita bianche e delicate; all’indice porta un anello vescovile. Da sopra la spalla di Batiste, scruta il vicolo che un’alba lattescente comincia a rischiarare.
«Da dove viene?»
«Un anticipo sull’eredità.»
L’uomo sorride. Ha ancora tutti i denti, il che, per uno che ha più di trent’anni, appare prodigioso. Tuffa nella sacca la mano femminea e ne estrae una cappa di raso con una grande croce ricamata in filo d’oro, un’altra di velluto di seta rossa, un velo da calice con l’agnello pasquale in filo d’argento, due stole in tessuto d’oro, due manipoli, una borsa a cannoncini e tre stendardi, uno di velluto viola con la Vergine in trono sormontata da una pergamena arrotolata, un altro raffigurante san Marcello con ai piedi la sua abbazia, un terzo che illustra il martirio di san Bartolomeo, patrono dei macellai, e quello di san Crispino, patrono dei ciabattini. Storce la bocca.
«Non è facile piazzare questa roba.»
Batiste ripiega i paramenti.
«In provincia l’orgoglio e l’avarizia prosperano, più ancora che a Parigi. Oltre le mura, nessun abate vorrà sapere da dove viene. Basterà fargli balenare la prospettiva di avere una collegiata bella come quella delle chiese della capitale… a un prezzo di favore.»
L’uomo anguilla si gratta le costole, poi il collo. Maledette pulci, maledetta scabbia. Gli stracci che indossa sono così sudici che starebbero in piedi da soli, ma il viso è pulito e il portamento e la voce sono quelli di un uomo educato, non certo di un vagabondo.
«I tempi sono cambiati, mio giovane amico. Regno nuovo, polizia nuova. Con merce del genere, rischio i lavori forzati.»
«Fammi un’offerta, sennò mi rivolgo a qualcun altro.»
L’uomo si toglie il berretto e si carezza la testa orfana di capelli. Sorride di nuovo. Dev’esserci stato un tempo in cui riceveva complimenti per la sua dentatura, perché ancora og-gi la mostra volentieri.
«Qualcun altro non esiste. Altrimenti non saresti qui.»
«Sono qui perché so che nonostante tutto sei ancora in contatto con i conventi di Francia. E so anche che si sta facendo giorno. Quindi sbrigati, o perdi un affare.»
L’uomo allunga il collo e tira su con il naso.
«La sguattera del vinaio ha acceso il fuoco. Se il suo padrone ti vede, ai lavori forzati ci finisci tu. E sarebbe un peccato, perché con la lingua sciolta che ti ritrovi potresti anche avere un futuro… Cinque luigi.»
«Cinque luigi? Ma se ne fai venti vendendo solo i ricami!»
«Cinque luigi, cioè cinquanta lire. E mettiti in ginocchio, ché ti do la benedizione.»
Batiste risponde alzando il dito medio.
«Dieci, e niente benedizione. Perché lasci che un prete mi benedica, dovrò essere morto.»
L’anguilla scuote la testa con aria desolata.
«Se è quello che vuoi. Ma potrei gridare, e il guardiano bloccherebbe il vicolo. Saresti preso in trappola come un topo.»
Batiste rovescia nella botte l’intero contenuto della sacca e afferra l’uomo alla gola. Come poco prima, quando ha appiccato il fuoco alla sacrestia, non mostra collera, né odio, né paura. Fa quello che deve fare, e basta. Si china, e con lo stesso tono che usa per persuadere le donne a sollevare le sottane, sussurra: «No, sono io che potrei gridare. E sai cosa? “Al ladro! I paramenti della chiesa di Saint-Marcel sono qui, e il farabutto che tengo per il collo è un abate sodomita condannato a morte per aver mangiato i suoi novizi in salmì!” Sono bravo a gridare, Monsignore, e so essere convincente. Trenta luigi. Fa’ presto».
L’uomo anguilla emette dei suoni strozzati e giunge le mani per far capire che l’affare è concluso. Batiste lo lascia andare. Quello fruga tra le pieghe della fascia che gli cinge i fianchi e tira fuori una borsa logora e gonfia. Mentre conta le monete d’argento, sbircia Batiste con la coda dell’occhio. Né alto né basso, magro ma vigoroso, il ragazzo ha spalle larghe e gambe dritte, la fronte ampia, il naso corto, una massa di riccioli bruni che non hanno mai conosciuto pettine né pomate, la bocca morbida e uno sguardo strano di vecchio su una faccia che sa ancora d’infanzia.
«Quanti anni hai? È da un po’ che ti vedo correre dietro alle gonne delle straccivendole.»
«Sempre troppi per te.»
«Sai leggere?»
«Nessuno sa leggere.»
«Io potrei insegnarti a leggere, a scrivere, e anche un po’ di latino.»
«Quello che mi serve me lo insegno da solo.»
«In cambio potresti fare qualche lavoretto… per la Chiesa del regno.»
«Non sono un ladro.»
«Certo. Come io non sono un assassino.»
L’uomo anguilla punta l’indice verso il cielo.
«Dio è onnisciente, ma… certi dettagli gli sfuggono. Le nostre ragioni ci appartengono, dico bene?»
Batiste intasca le monete senza contarle. I luigi piovono sulla testa del furetto che si sveglia, e subito si arrampica sulla spalla del padrone. Nella penombra, le pupille dell’animale brillano come tizzoni minuscoli. L’uomo anguilla d’impulso si ritrae.
«Hai ancora quella bestiaccia?»
«Bada a come parli, Gesù mi somiglia. Se gli manchi di rispetto, morde.»
L’uomo anguilla si fa un rapido segno della croce.
«Ha gli occhi di un diavolo.»
Con calma, Batiste arrotola la sacca vuota e se l’annoda intorno alla vita.
«Perché lo è.»
Avete paura del diavolo, Signore? Ho sentito spesso il vostro padre spirituale raccontarvi le malefatte di Lucifero e le innumerevoli sembianze che l’angelo caduto assume per tentare gli uomini. Ma checché ne dica la Chiesa che pretende di governare, oltre alle nostre azioni, anche il nostro giudizio, a me sembra che il male non abiti all’inferno, e nemmeno tra i protestanti o tra le cosce delle donne, bensì in ognuno di noi. Il suo volto è il nostro lato d’ombra, quello che nascondiamo agli altri e a noi stessi. Contrariamente a ciò che vi hanno insegnato, Dio, che lo si preghi o no, non rende l’uomo interamente buono o interamente cattivo. L’uomo è buono e anche cattivo. Da quando vivo sulle vostre terre ho avuto modo di osservare moltissimi bambini, e posso assicurarvi che non tutti nascono con un’uguale permeabilità al Buono, al Bello, al Bene. Quanto alle indoli dolci e pure, quelle che paiono fatte per l’altrui felicità, non c’è bisogno di Satana per pervertirle, è sufficiente la frequentazione degli uomini. Il cuore umano è una sentina di nequizie, Signore, il secolo in cui viviamo cela la sozzura sotto i merletti e il marcio dell’anima sotto la cipria, gli inchini e i falsi pentimenti. So di preti dediti al crimine, di contadini che picchiano a morte la moglie, di signorotti che svendono le figlie o torturano i bambini, di principi che si divertono a sparare sui cristiani come fossero conigli, di re che invece di dare l’esempio della virtù mentono e tradiscono.
Come li ho conosciuti, e chi sono io per parlare così?
Sono una vittima. Sono un testimone.
Pensate che stia esagerando?
Fatevi portare in rue de Montpensier, sotto i portici del Palais-Royal, è lì che abita il vescovo divoratore di novizi. A forza di traffici, il maledetto ha lasciato la sua botte e ora, al mezzanino del numero 16, ha una bottega che non espone merci ma che fa ottimi affari. Lo riconoscerete dai denti e dall’anello. Parlategli di Batiste Le Jongleur, ditegli che è lui che vi manda. Se il brav’uomo non impallidisce, se non cerca con gli occhi una porta da cui scappare, allora avrete ragione di dubitare di me.
Ma torniamo a Gesù. Quel furetto non è un animale come gli altri. Il suo padrone l’ha abituato a nutrirsi di latte e sangue, lui succhia il latte dalle mammelle delle donne e va matto per le sanguisughe. Ogni volta che la madre di Batiste torna dall’acquitrino con la cesta che sgocciola un liquido nerastro, lui le annusa le caviglie e guaisce finché non ottiene una limaccia. Madeleine Le Jongleur è una delle migliori fornitrici di sanguisughe del faubourg Saint-Marceau. Per tutta la bella stagione, specie se la primavera è precoce e l’estate si allunga, Madeleine guadagna abbastanza per nutrire la sua famiglia con pane di segale e d’orzo, farinata, fave, lardo grasso o aringhe secche, e in più mettere da parte qualche moneta per la dote di Blanche, l’ultima nata, che ha nove anni e che lei sogna di far entrare in convento. Ma non in una casa di vergogna e lacrime come quella dei Gobelins, dove per decreto reale vengono rinchiuse le orfanelle, le mendicanti, le ragazze madri e le ruffiane, no, Blanche deve vivere in un monastero per fanciulle oneste. Madeleine Le Jongleur non sogna altro. Quando, sulla riva, si toglie le ciabatte e scioglie le fasce che impediscono alle mosche di saziarsi nelle piaghe dei suoi polpacci, quando entra nell’acqua verde stando bene attenta a non scivolare sulle erbe taglienti, quando sguazza in mezzo al fango e alle canne recitando il rosario per misurare il tempo, lei pensa al convento. Una grande casa di pietra con il chiostro, fontane, giardini e una cappella dove la piccola pregherà per riscattare i peccati della famiglia intera. Prima di tutto i peccati suoi, di Madeleine, che non ha più il coraggio di confessarsi perché ci sarebbe troppo da raccontare. Poi i peccati degli uomini che hanno fatto di lei la donna che è diventata, a cominciare dai tre padri dei suoi figli, compreso il padre di Blanche del quale non ha mai conosciuto il nome e ha dimenticato la faccia. Infine...