Premiata Ditta Sorelle Ficcadenti
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Premiata Ditta Sorelle Ficcadenti

  1. 340 pagine
  2. Italian
  3. ePUB (disponibile sull'app)
  4. Disponibile su iOS e Android
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Premiata Ditta Sorelle Ficcadenti

Informazioni su questo libro

CONTIENE L'EPISODIO SPECIALE: 'EZIOLOGIA DI UN'ARTRITE TATTICA' DISPONIBILE ESCLUSIVAMENTE IN EBOOK. Bellano 1915. In una sera di fine novembre una fedele parrocchiana, la Stampina, si presenta in canonica: ha urgente bisogno di parlare con il prevosto, che in paese risolve anche le questioni di cuore. Suo figlio Geremia, docile ragazzone che in trentadue anni non ha mai dato un problema, sembra aver perso la testa. Ha conosciuto una donna, dice, e se non potrà sposarla si butterà nel lago. L'oggetto del suo desiderio è Giovenca Ficcadenti, di cui niente si sa eccetto che è bellissima - troppo bella per uno come lui - e che insieme alla sorella Zemia sta per inaugurare una merceria. Il che basta, nella piccola comunità, a suscitare un putiferio di chiacchiere e sospetti. Perché la loro ditta può dirsi "premiata"? Da chi? E quali traffici nascondono i viaggi che la Giovenca compie ogni giovedì? Soprattutto, come si può impedire al Geremia di finire vittima di qualche inganno? Indagare sulle sorelle sarà compito del prevosto, per restituire alla Stampina un figlio "normale". Facile dirlo. Non così facile muoversi con discrezione laddove sembrano esserci mille occhi e antenne… Cos'è un paese se non un caleidoscopio di storie, un'orchestra di uomini e donne che raccontando la vita la reinventano senza sosta, arricchendola di nuovi particolari? Con micidiale ironia, Vitali dà voce a questo coro - una sinfonia di furbizie e segreti, invidie e pettegolezzi - che mostra una faccia sempre diversa della verità, e un attimo dopo la nasconde ad arte. Un romanzo che è come le chiacchiere di paese: quando inizia non si può più fermare. UN ROMANZO STRAORDINARIO RICCO DI PERSONAGGI (OLTRE 250) DI UNO DEI PIÙ AMATI AUTORI ITALIANI.

Domande frequenti

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Informazioni

Editore
RIZZOLI
Anno
2014
Print ISBN
9788817072014
eBook ISBN
9788858660058

1

Come, dove e quando l’avesse vista, lo sapeva il Signore.
Sta di fatto che, da quel momento, Geremia Pradelli non era più stato lui.
Ormai c’era un Geremia di prima e un Geremia di adesso.
Quello di prima aveva trentadue anni, un viso lievemente asimmetrico, spalle da muratore (sebbene dopo essere stato aiuto fornaio alle dipendenze dei fratelli Scaccola fosse entrato alle dipendenze del locale cotonificio), fronte alta sulla quale spiccava, a destra, un bozzo frontale, frutto di un colpo di scopa menatogli vent’anni prima dal padre, capelli neri, fitti e irti.
Era figlio di Stampina Credegna e di Amerisio Pradelli. Dal padre aveva preso le larghe spalle e l’asimmetria del viso. Dalla madre invece i capelli e soprattutto il carattere. Che era docile, di buon comando, tetragono alla fatica. Timoroso di Dio e dei suoi comandamenti che avevano nella Stampina una rigorosa ed esemplare interprete.
Benedetta donna, diceva di lei don Primo Pastore, prevosto di Bellano, e prediletta dal Signore!
Nel 1913 la Stampina s’era beccata il morbus hungaricus, come il dottor Pathé incapace di rinunciare al vezzo di un aulico parlare chiamava il tifo petecchiale, e l’aveva trasmesso al resto della famiglia. A suo giudizio, più che la Carbotrofina, il Maxicalcium e il Pantasol prescritti dal medico, era stata la fede a salvare lei e i suoi dalla disperazione e dalla morte. Aveva infatti pensato che se il suo momento, o quello di uno dei suoi familiari, era arrivato, lei, come loro, avrebbe dovuto serenamente accettare il destino.
Però quale fosse il suo destino non poteva saperlo, a meno di non volersi presuntuosamente paragonare al Creatore. Quindi, scettica più che mai verso gli intrugli tra l’altro costosi del Pathé, s’era rivolta alla Madonna del santuario di Lezzeno sopra Bellano, pregando affinché aiutasse tutti e tre a superare la malattia. Se la sorte di qualcuno di loro fosse invece ormai segnata, la Stampina aveva offerto suo marito che, a sessant’anni, non aveva una giuntura che non fosse artrosica e in casa era utile quanto un soprammobile.
Poi aveva suggellato la preghiera con un voto solenne di cui aveva informato marito e figlio. Sul contenuto aveva mantenuto il segreto.
«A guarigione avvenuta, se guarigione ci sarà, ne verrete a conoscenza.»
Il primo a guarire era stato l’Amerisio. Tanta generosità dall’alto dei cieli aveva convinto la Stampina che presto la stessa benedizione sarebbe toccata anche a lei e al figlio, visto che l’uomo, senza l’aiuto di loro due, sarebbe morto d’inedia. Così infatti era stato, dopodiché la donna aveva svelato in cosa consistesse il voto: compattare una squadra di cinque, sei donne che, al suo comando, avrebbero settimanalmente provveduto alla pulizia della chiesa, intervenendo anche nelle occasioni in cui, a causa di pioggia o neve, il pavimento della prepositurale diventava lercio.
Il signor prevosto aveva accettato con vivo piacere quel servizio di cui la sua chiesa aveva così tanto bisogno, ma il voto della Stampina aveva previsto anche una parte da assegnare al figlio Geremia. Da quel momento in avanti, lui e non altri si sarebbe occupato del giardino della canonica al posto del sagrestano titolare, Aristide Schinetti, il quale, a detta del dottor Pathé, soffriva di “artrite tattica” con effetti collaterali devastanti su piante e fiori. Il Geremia aveva accettato di buon grado, e anche con un certo orgoglio, il compito di potare piante e rose, rasare il prato, seminare fiori, rinnovarli quando morivano e riparare muretti. Sarebbe stato un sagrestano perfetto, aveva più volte pensato il signor prevosto, considerando quanto fosse preciso, forte e anche nubile, condizione, quest’ultima, che aveva sempre ritenuto non esclusiva ma comunque di buon augurio per chi si avviava alla professione di scaccino.
E il Geremia, alla bella età di trentadue anni, era decisamente avviato su quella strada.
Guardando lavorare madre e figlio, il prevosto tirava dei bei sospiri e li lasciava tornare a casa solo dopo averli benedetti e assicurando loro che il Signore, quel dì che veniva per tutti, li avrebbe degnamente ricompensati.
Oltre all’impegno con le verzure della canonica, il Geremia aveva il suo bel lavoro, operaio al cotonificio con prevalenti mansioni atte a sfruttare la sua forza fisica: aiutava in magazzino, caricava e scaricava i vagoni dei treni che portavano all’interno dell’opificio la materia prima e ne ripartivano carichi con i filati pronti per essere definitivamente lavorati. Non aveva vizi. Ne avesse avuti gli sarebbe mancato il tempo per praticarli. Finito il turno filava diritto a casa per dare una mano alla madre, soprattutto per gestire quel padre anchilosato che, quand’era in giornata, muoveva da sé millimetrici passi, sennò bisognava caricarselo sulle braccia per portarlo a letto, al cesso, a tavola per mangiare, imboccato dalla Stampina.
Non erano pochi, in paese e in fabbrica, a mormorare che al Geremia mancava qualche giovedì. Era infatti difficile credere che un uomo regolare di zucca e borsa potesse andar contento solo di casa, chiesa e bottega.
Fosse anche stato così, il giovanotto non aveva mai dato segno che proprio quel giorno della settimana, così importante nel suo destino, fosse latitante.
Mai un litigio, un battibecco, un atto di ribellione.
Questo prima.
Dopo, invece, dopo aver visto chissà dove, come e quando quella, il Geremia era diventato un’altra persona. Dentro la zucca gli erano spuntate idee nuove e fantasiose.
La Stampina, passato un mese di patimenti, di preghiere, di invocazioni, di penitenze e di nuovi, eccentrici voti, decise che da sé non sarebbe riuscita a niente. Le ci voleva un alleato, qualcuno che le desse manforte, saggi consigli e, nel caso, agisse in vece sua per rimettere il Geremia in carreggiata. E l’unico cui poteva pensare era il signor prevosto. Una sera di fine novembre 1915 passò all’azione. Con una luna in cielo che sembrava l’asola di una tonaca, il silenzio quello di un cimitero, cimitero lo stesso paese, le cui rare finestre ancora illuminate sembravano il riflesso di una veglia funebre e ogni cosa, case, alberi, fin l’acqua del lago parevano stretti nell’irrimediabile gelo della morte, si incamminò alla volta della canonica.

2

Con quel freddo anche i gatti erano andati in letargo e s’era scatenata un’epidemia di geloni. Alla perpetua Rebecca ne erano spuntati due, uno per orecchio: difformi, bitorzoluti, pruriginosi. Faceva di tutto per non grattarseli e continuava a farlo sino a che sanguinavano.
Quella sera, tra una grattatina e l’altra, stava cercando di portare a termine l’ennesimo lavoro a uncinetto della sua vita. Tempo sprecato, non aveva il dono. Ingarbugliava i punti, sbagliava i conti e alla fine, quando si trovava tra le mani uno sgorbio, lo buttava nella stufa.
Guai però, mai arrendersi.
Anche perché tra le frequentatrici della canonica godeva fama di abilissima ricamatrice, avendo sempre spacciato per arte propria i centrotavola, le tovagline, i sottobicchieri che il signor prevosto nel corso degli anni aveva ricevuto in regalo. Al punto che alcune le avevano chiesto di ricevere qualche lezione privata.
«Vedarèm» era sempre stata la sua risposta.
Erano ormai le dieci di sera, Rebecca aveva ceduto all’abbiocco, il centrino cui aveva lavorato era appoggiato sul tavolo di cucina, pronto per la stufa, quando il campanello della canonica squillò.
Sulle prime, ridestandosi di scatto, la perpetua non credette alle proprie orecchie. Fu propensa a pensare di aver sognato la sveglia del mattino. Prese dal tavolo lo sgorbio, aprì il portello della stufa e ve lo buttò.
«Va’ a l’inferno» mormorò, guardando incantata e terrorizzata al contempo le fiamme che distruggevano il suo lavoro.
Il campanello suonò per la seconda volta. I geloni diventarono di fuoco, il prurito intensissimo. Non riusciva a distogliere gli occhi da quelle vampe ravvivate dal suo maldestro centrino e che, come sempre quando le guardava, rinfrescavano in lei il ricordo delle parole di un esaltato predicatore errante, finito poi in manicomio, che non aveva fatto altro che parlare dell’inferno al quale, secondo lui, eravamo tutti destinati.
“Un giorno un’anima dannata verrà a prendervi e vi condurrà a lei” gridava sputacchiando, “niente vi salverà poiché nessuno è puro di cuore, la nostra stessa carne è peccato e il momento della discesa tra quelle eterne fiamme giungerà quando meno ve l’aspettate.”
Aveva venticinque anni quando le apocalittiche parole del predicatore le si erano piantate in testa, e in certi momenti le ritornavano come se le avesse appena udite: quando sentiva parlare di un incendio, per esempio, o quando ne vedeva uno nei boschi sulla montagna della riva opposta del lago, davanti a un camino scoppiettante oppure come adesso, mentre guardava le lingue di fuoco nella stufa.
Ma ora, a cinquantacinque anni, pur dimostrandone almeno dieci di più, percepiva tutta la loro verità.
Chi con quel bestia de frècc e a quell’ora poteva andarsene in giro se non un’animaccia dell’inferno?
Stava per scontare i suoi peccati, tra i quali le numerose bugie circa la sua abilità all’uncinetto.
O forse il diavolaccio era lì per il signor prevosto?
Fu un pensiero talmente rapido e sacrilego che la perpetua diede una poderosa grattatina al gelone dell’orecchio di destra che quasi lo divelse dalla carne.
Una lacrima le scese dagli occhi. Il campanello squillò una terza volta. Rebecca si avviò.
Addio, mondo crudele!

3

Il portone della canonica veniva chiuso dalla perpetua in persona quando il signor prevosto decideva di coricarsi.
Rebecca uscì nel corridoio, convinta di vedere, oltre i vetri smerigliati della porta d’ingresso, il fiammeggiare di un essere infernale. Intuì invece soltanto un’ombra e comprese: le avevano mandato solo un morto per farle strada verso la dannazione eterna. Tremando e, anche se ormai era inutile, giurando tra sé che non avrebbe mai più mentito sull’uncinetto, aprì la porta e si trovò faccia a faccia con un cappottone largo, da uomo, un foulard nero ben calato sulla fronte, una sciarpaccia che nascondeva la bocca del visitatore: l’unica cosa umana, un naso a becco, pallido come la luna, che le ricordò la falce della gran seminatrice. Fu lì per chiudere la porta quando, da sotto quell’ammasso di stracci, venne una voce.
«Vorrei parlare con il signor prevosto.»
Un morto che parlava?
Il predicatore della sua gioventù aveva chiaramente detto che ai dannati sarebbe stata strappata per prima cosa la lingua, strumento tra i più abituali per commettere peccati, affinché nessun lamento potesse uscire dalla loro bocca.
«Chi siete?» osò chiedere.
Il visitatore abbassò la sciarpa e sollevò il foulard.
«Stampina!» si meravigliò la perpetua.
«E chi credevate che fossi, il diavolo?» ribatté quella.
«Cusé? Non dite idiozie» controbatté Rebecca. «Ma cosa ci fate qui?»
«Ve l’ho appena detto.»
«Adès?»
«Adesso.»
«C’è qualcuno che sta morendo?» chiese la perpetua.
«Io» rispose la Stampina, «di freddo, se mi tenete sulla porta ancora un minuto.»
La perpetua sfiorò appena il gelone di destra che, grazie alla temperatura glaciale che veniva dall’esterno, s’era acquietato e non prudeva più.
«Va bene» decise, «ma stì chì, in corridòo. Io vado a vedere se il signor prevosto può ricevervi.»
«D’accordo, ma ditegli che si tratta di cosa urgente.»
«Cioè?»
«Cosa urgente» ribadì la Stampina.
«Così urgente che non si può aspettare domani?» insisté la perpetua.
«Così urgente che non si può aspettare domani» le fece eco la Stampina.
Il signor prevosto aveva gli occhi ormai grevi di sonno. Non aveva un orario fisso per andare a dormire. Lo faceva quando i piedi, freddi per l’intera giornata sia d’estate che d’inverno, cominciavano a intiepidirsi grazie a uno scaldino farcito di braci che era cura della Rebecca preparare ogni sera. Pian piano quel calore saliva lungo il corpo del sacerdote sino a quando raggiungeva le palpebre che infine cedevano languidamente. Quello era il momento di coricarsi.
In quell’istante Rebecca, con passo felpato e chiedendo permesso, entrò nel suo studio. Il sacerdote, che non amava farsi cogliere in quei momenti di intimità, sgranò gli occhi, fissando la perpetua. Per un istante nessuno dei due aprì la bocca.
Rebecca aspettava che il prevosto le chiedesse cosa c’era. Visto però che il sacerdote non si decideva a parlare, lo fece lei.
Nemmeno alla notizia il prevosto reagì. Stava lentamente tornando nel mondo della veglia. La perpetua ne approfittò.
«Posso sempre dirle che non state molto bene» suggerì, senza rendersi conto che stava venendo meno alla promessa fatta non più di dieci minuti prima di eliminare dalla sua vita qualsivoglia bugia.
Fu allora che il prevosto, sentendo il freddo riconquistare la punta dei piedi, parlò.
«Alla Stampina…» sospirò.
Alla Stampina non si poteva dire no.

4

Durante l’attesa in corridoio il naso della Stampina, da diafano che era, aveva assunto un colore rosso acceso. Prima di entrare nello studio del prevosto, e sotto gli occhi della perpetua, la visitatrice se lo asciugò sulla manica del cappottone.
«Stampina!» disse il sacerdote a mo’ di saluto, gli occhi fissi su quel naso che non solo sembrava sul punto di incendiarsi ma pareva anche essere raddoppiato come dimensione.
La donna tirò su. Il prevosto la invitò a mettersi comoda, togliersi il cappottone e soprattu...

Indice dei contenuti

  1. Cover
  2. Frontespizio
  3. Copyright
  4. Personaggi principali
  5. 1
  6. 2
  7. 3
  8. 4
  9. 5
  10. 6
  11. 7
  12. 8
  13. 9
  14. 10
  15. 11
  16. 12
  17. 13
  18. 14
  19. 15
  20. 16
  21. 17
  22. 18
  23. 19
  24. 20
  25. 21
  26. 22
  27. 23
  28. 24
  29. 25
  30. 26
  31. 27
  32. 28
  33. 29
  34. 30
  35. 31
  36. 32
  37. 33
  38. 34
  39. 35
  40. 36
  41. 37
  42. 38
  43. 39
  44. 40
  45. 41
  46. 42
  47. 43
  48. 44
  49. 45
  50. 46
  51. 47
  52. 48
  53. 49
  54. 50
  55. 51
  56. 52
  57. 53
  58. 54
  59. 55
  60. 56
  61. 57
  62. 58
  63. 59
  64. 60
  65. 61
  66. 62
  67. 63
  68. 64
  69. 65
  70. 66
  71. 67
  72. 68
  73. 69
  74. 70
  75. 71
  76. 72
  77. 73
  78. 74
  79. 75
  80. 76
  81. 77
  82. 78
  83. 79
  84. 80
  85. 81
  86. 82
  87. 83
  88. 84
  89. 85
  90. 86
  91. 87
  92. 88
  93. 89
  94. 90
  95. 91
  96. 92
  97. 93
  98. 94
  99. 95
  100. 96
  101. 97
  102. 98
  103. 99
  104. 100
  105. 101
  106. 102
  107. 103
  108. 104
  109. 105
  110. 106
  111. 107
  112. 108
  113. 109
  114. 110
  115. 111
  116. 112
  117. 113
  118. 114
  119. 115
  120. 116
  121. 117
  122. 118
  123. 119
  124. 120
  125. 121
  126. 122
  127. 123
  128. 124
  129. 125
  130. 126
  131. 127
  132. 128
  133. 129
  134. 130
  135. 131
  136. 132
  137. 133
  138. 134
  139. 135
  140. 136
  141. 137
  142. 138
  143. 139
  144. 140
  145. 141
  146. 142
  147. 143
  148. Epilogo
  149. Eziologia di un'artrite tattica