Il fantastico hidalgo don Chisciotte della Mancia
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Il fantastico hidalgo don Chisciotte della Mancia

  1. 596 pagine
  2. Italian
  3. ePUB (disponibile sull'app)
  4. Disponibile su iOS e Android
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Il fantastico hidalgo don Chisciotte della Mancia

Informazioni su questo libro

La libertà, Sancio, è uno dei più preziosi doni che i cieli abbiano mai dato agli uomini; né i tesori che racchiude la terra né che copre il mare sono da paragonare a essa; per la libertà, come per l'onore, si può e si deve mettere a repentaglio la vita; la schiavitù invece è il peggiore dei mali che agli uomini possano toccare. Un grande libro piantato nella coscienza occidentale. Questa ampia antologia rende leggibile il Don Chisciotte al lettore contemporaneo, a quattrocento anni dalla sua prima pubblicazione. Ma chi è il fantastico, simpatico e stralunato cavaliere che da secoli occupa l'immaginazione dei lettori e l'intelligenza dei critici? Su di lui hanno detto tutto e il contrario. Il lettore ne resterà ancora incantato. È più che mai ancora vivo, e forse più che mai urgente, il suo affascinante segreto di cavaliere dell'ideale che vedeva il mondo come nessun altro.

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Informazioni

Editore
BUR
Anno
2013
Print ISBN
9788817007009
eBook ISBN
9788858659335

PARTE SECONDA

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PROLOGO AL LETTORE*

Vivaddio, con che bramosia, o lettore vuoi nobile vuoi plebeo, tu devi essere in attesa di questo prologo, credendo di trovarvi e rappresaglie e sgridate e improperi contro l’autore del secondo Don Chisciotte; di quello, cioè, che dicono generato a Tordesillas e nato a Tarragona! Ebbene, il fatto sta che non ti vo’ dare questo piacere; perché, sebbene le ingiurie suscitino anche negli animi più umili la collera, nel mio questa regola deve soffrire eccezione. Tu vorresti che io gli dessi dell’asino, del mentecatto, dello sfrontato, ma invece non mi passa neppure per l’idea: nel suo peccato s’abbia la sua punizione, buon pro gli faccia e se la veda un po’ lui. Quello tuttavia di cui non ho potuto fare a meno di dolermi è che mi abbia fatto carico di essere vecchio e monco, come se fosse stato in poter mio il fermare il tempo perché non passasse per me, e come se la monchezza mi fosse stata causata in qualche bettola e non già nella più nobile congiuntura che mai abbiano veduto le età passate, le presenti e che mai possano sperare di vedere le future. Se le mie ferite non rifulgono agli occhi di chi le guarda, hanno però pregio, per lo meno, nella stima di coloro che ben sanno dove esse furono ricevute; perché il soldato fa più bella figura magari morto nel combattimento che sano e salvo nella fuga. Del che io sono tanto convinto che se in questo momento qualcuno mi proponesse e mi rendesse agevole una cosa impossibile, io preferirei essermi trovato in quella mirabile gesta anziché ora essere, senza averci preso parte, sano e intatto.1 Le ferite che il soldato mostra nella faccia o nel petto sono stelle che guidano gli altri al cielo dell’onore e a sommamente ambire la lode meritata. Si deve poi far notare che non si scrive già con i capelli canuti, ma per virtù d’intelletto che con gli anni suole divenir migliore. Mi è pure dispiaciuto che mi chiami invidioso e che, come a un ignorante, mi spieghi che cosa sia l’invidia; perché, realmente e veramente, delle due che ve n’ha io non conosco se non la santa, la nobile e retta. Or essendo così la cosa, come è infatti, io non ho da perseguitare nessun sacerdote, massime se, per giunta, si trovi a essere Familiare del Santo Uffizio.2 Che se costui ha detto ciò riferendosi alla persona in favore della quale sembra che l’abbia detto, si è sbagliato completamente, perché del gran talento di questa persona io ho un culto, e di questa persona io ammiro le opere nonché la virtuosa zelante attività. Tuttavia sono davvero grato a questo signor autore d’aver detto che le mie novelle sono, sì, più satiriche che istruttive3 ma pur buone: il che non potrebbe essere se non ci fosse un po’ di tutto.
Mi pare, o lettor mio, che tu voglia dirmi che io sono di molto scarso intelletto e che mi tengo molto strettamente nei limiti della mia modestia, perché so che non s’ha da aggiungere angustia a chi già è angustiato e che quella che deve avere cotesto mio signore è grande senza dubbio, dal momento che non ardisce mostrarsi in campo aperto e alla chiara luce del sole, ma celo il suo nome e simulo quello del suo paese natale, come se avesse commesso qualche reato di lesa maestà. Se per caso tu giunga a farne la conoscenza, digli da parte mia che non mi ritengo offeso, sapendo bene quel che sono le tentazioni del demonio e che una fra le maggiori è quella di mettere per il capo a taluno d’esser capace di comporre e stampare un libro col quale possa guadagnare altrettanta fama quanti denari e altrettanti denari quanta fama. A conferma di che, voglio che col tuo bel garbo e festività gli racconti questa novellina.
C’era in Siviglia un pazzo al quale prese la più buffa stravaganza e fissazione che mai prendesse a pazzo del mondo. E fu questa: egli fece un tubo di canna appuntito alla cima e dopo avere acchiappato qualche cane nella strada o in altro luogo qualsiasi, con l’un piede gli teneva ferma una zampa e con la mano gli teneva alzata l’altra; poi, come meglio poteva, gli aggiustava il tubo in una certa parte e, soffiandoglici, lo faceva diventar tondo come una palla; quindi, dopo averlo ridotto così, gli batteva due palmatine nella pancia e lo lasciava andare, dicendo ai circostanti, che erano sempre in gran numero:
– Crederanno ora lor signori che ci voglia poco a gonfiare un cane? – E vossignoria penserà ora che ci voglia poco a fare un libro?
Che se questa novellina non gli abbia a garbare, tu, lettor caro, gli narrerai quest’altra, la quale pure ha per argomento un matto e un cane.
C’era a Cordova un altro matto che aveva per uso di portare sulla testa un pezzo di lastra di marmo ovvero una bugna non troppo leggera e come s’imbatteva in qualche cane sbadato, gli si faceva vicino e gli lasciava andare addosso quel peso, giù a piombo. S’infuriava il cane, e latrando e sgagnolando se la dava per chiassi e chiassuoli. Avvenne, pertanto, che fra i cani, su cui aveva scaricato il peso, l’uno fu quello di un berrettaio; un cane al quale il padrone era molto affezionato. Gli piombò la pietra addosso, sulla testa; levò alte grida il povero animale tutto pesto, vide la cosa e ne fu addolorato il padrone che, afferrata una canna da misurare stoffe, si avventò sul matto non lasciandogli osso sano. E a ogni stangata che gli dava, diceva:
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– Furfante cane! Al mio bracco? Non hai visto che era bracco il mio cane?
E ripetendogli più e più volte la parola «bracco» lo rimandò che ne aveva fatto una paniccia. Il matto imparò così a proprie spese, si ritirò a casa né si fece vedere per più d’un mese; ma passato questo tempo tornò alla sua gherminella e con un carico anche più grosso. S’avvicinava al luogo dov’era il cane, lo guardava prima fisso fisso, poi, senza volere neanche arrischiarsi a scaricar la pietra, diceva:
– Quest’è bracco: bada!
In breve, quanti cani inciampava, fossero pur stati alani o botoletti, per lui eran tutti bracchi; così che non lasciò mai più andare la bugna.4 Lo stesso potrebbe forse accadere a questo storico il quale non si attenterà più a rovesciar in libri il suo spiombante ingegno che, cattivi come sono, son più duri delle rocce.
Digli anche che della minaccia che mi fa, di togliermi col suo libro ogni guadagno, non me ne do punto pensiero; perché, prendendo a imprestito un passo dal ben noto Intermezzo «La Perendenga» gli rispondo: che mi viva a lungo il Ventiquattro5 mio signore e statevi bene! Viva il gran Conte di Lemos, la cui carità cristiana e generosità mi sorregge contro tutti i colpi della mia poca ventura, duri per me a lungo la somma carità di Sua Eminenza di Toledo, don Bernando de Sandoval y Royas6 e non ci siano magari più stamperie nel mondo e si stampino pure contro di me più libri di quante non abbiano lettere le strofe di Mingo Revulgo.7 Questi due principi, senza che li stimoli alcuna mia adulazione né altra specie di lode, per sola bontà loro han preso sopra di sé il farmi grazia e proteggermi; del che io mi reputo più fortunato e più ricco che se la fortuna mi avesse elevato alla maggiore sua altezza per la via ordinaria. La buona reputazione può ben averla il povero, ma non chi è dato al vizio; la povertà può bene offuscare la nobiltà, ma non già ottenebrarla del tutto; e siccome la virtù spande di sé alcuna luce, sia pure attraverso gli spiragli della strettezza piena di disagi, ell’è stimata dagli alti e nobili spiriti e, per conseguenza, protetta. Tu non gli dire altro né io voglio dire altro a te, tranne che avvertirti di considerare che questa seconda parte del Don Chisciotte ch’io ti offro è tagliata dal medesimo artefice e dallo stesso panno della prima e che in essa ti presento don Chisciotte continuato e, alla fine, morto e seppellito, sì che nessuno mai osi produrgli nuovi testimoni, bastando i passati; come pure basta che un uomo dabbene abbia fatto conoscere queste sue sagaci pazzie, senza volercisi rimettere di nuovo, perché l’abbondanza delle cose, anche se buone, fa che non siano pregiate, mentre la scarsezza, magari delle cattive, conferisce loro certo valore. Mi dimenticavo dirti di aspettarti presto il Persile di cui sono in fine e la seconda parte della Galatea.8
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CAPITOLO I

DELLA CONVERSAZIONE CHE IL BARBIERE E IL CURATO EBBERO CON DON CHISCIOTTE RIGUARDO ALLA SUA MALATTIA

Nella seconda parte di questa storia e terza uscita di don Chisciotte racconta Cide Hamete Benengeli che il curato e il barbiere stettero quasi un mese senza vederlo per non rinnovargli e richiamargli il ricordo delle cose passate. Non per questo però tralasciarono di andare a trovare la nepote e la governante, esortandole a badare di custodirlo bene con dargli a mangiare cose nutrienti e adatte per il cuore e per il cerebro, da dove, come s’inferiva chiaramente, dipendeva tutto il suo malanno. Esse dissero che questo appunto facevano e avrebbero fatto con ogni affettuosa cura possibile, perché notavano che il loro Signore, di tanto in tanto, cominciava a dar segni di essere pienamente in cervello. Della qual cosa molto si rallegrarono il curato e il barbiere, sembrando loro di aver fatto proprio bene a riportarlo incantato sul carro da buoi come si è raccontato nella prima parte di questa grande e altrettanto esatta storia, nell’ultimo capitolo.9 Determinarono quindi di andarlo a visitare e di constatare il suo miglioramento, quantunque ritenessero quasi impossibile che questo ci fosse davvero, rimanendo d’accordo però di non toccarlo sopra nessun punto circa la cavalleria errante, per non mettersi al rischio di avere a scucire quelli della ferita che erano stati dati così di fresco.
Andarono, infine, a fargli una visita e lo trovarono seduto sul letto, con indosso un camiciotto di baietta verde e in capo un berretto toledano di lana rossa, tanto magro e rinsecchito che pareva null’altro che un corpo mummificato. Li ricevette egli molto cordialmente e, richiesto della sua salute, parlò di sé e di come si sentiva, molto assennatamente e con eleganza di espressione. Nel corso della conversazione poi vennero a trattare di quel che si dice ragione di Stato e modi di governare, correggendo quest’abuso e riprovando quell’altro, riformando un costume e dando il bando a un altro, divenendo ciascuno di loro tre un nuovo legislatore, un moderno Licurgo, un Solone nuovo di zecca. Essi riformarono lo Stato per modo da parer proprio che l’avessero messo in una fucina e ne avessero tratto uno ben diverso da quello che vi avevano posto. Or don Chisciotte parlò con tanta saggezza su tutti gli argomenti toccati che i due suoi esaminatori credettero di sicuro che fosse del tutto guarito e pienamente in cervello.
Si trovarono presenti alla conversazione la nepote e la governante che non si stancavano di ringraziare Dio al vedere il loro signore così assolutamente in sé. Il curato tuttavia, rimutandosi dal primo proposito che era di non toccarlo in cose cavalleresche, volle provare a fondo se la guarigione di don Chisciotte fosse apparente o reale: così, d’uno in altro argomento, venne a dire di certe notizie giunte dalla capitale; fra le quali, ritenersi per certo che il Turco calava con una potente flotta, che non si sapeva quale fosse il suo disegno né dove volesse scaricarsi sì gran nembo.10 Con questo timore, che quasi ogni anno ci chiama alle armi, tutta la cristianità stava sull’attenti, e Sua Maestà aveva fatto munire le coste di Napoli, della Sicilia e dell’isola di Malta. A ciò rispose don Chisciotte:
– Sua Maestà ha operato da prudentissimo guerriero col munire i suoi Stati in tempo, perché non alla sprovvista abbia a coglierlo il nemico; ma se si accettasse un mio consiglio, io gli consiglierei di usare un provvedimento al quale, ora come ora, Sua Maestà dev’essere molto lontano dal pensare.
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Come il curato udì ciò, disse fra sé: «Che Dio ti tenga per le sue sante mani, povero don Chisciotte, perché mi pare che dall’alta cima della tua pazzia tu precipiti nel profondo abisso della tua scempiaggine!». Ma il barbiere, che già aveva avuto lo stesso pensiero del curato, domandò a don Chisciotte qual era il suo consiglio circa il provvedimento che diceva sarebbe bene accettare; perché poteva anche darsi che fosse tale da doversi aggiungere nell’elenco di tanti inopportuni suggerimenti che si sogliono dare ai principi.
– Il mio, mastro Tosa, – disse don Chisciotte – non è già inopportuno, ma opportunissimo.
– Non dico per questo – soggiunse il barbiere, – ma perché l’esperienza ha dimostrato che tutti o la più parte dei progetti che vengono dati a Sua Maestà o sono inattuabili, o stravaganti, o dannosi al re od al regno.11
– Il mio pertanto – rispose don Chisciotte – né è inattuabile né stravagante, bensì il più facile, il più giudizioso, il più sagace e spicciativo che possa mai venire in mente a progettista alcuno.
– Troppo indugia vossignoria, signor don Chisciotte – disse il curato.
– Io non vorrei – osservò don Chisciotte – che a dirlo ora io qui, domattina fosse arrivato agli orecchi dei signori del Consiglio e un altro prendesse per sé i ringraziamenti e il premio della fatica mia.
– Per me – disse il barbiere – do la mia parola e qui e davanti a Dio di non dire a chicchessia,12 a nessuno al mondo, quel che vossignoria abbia mai a dire: giuramento questo, che ho imparato dalla storia del prete che, cantando il Prefazio, fece sapere al re chi era il ladro che gli aveva rubato le cento doppie e la mula vagabonda.13
— Non m’intendo di storielle io – disse don Chisciotte; – ma so che cotesto giuramento vale, perché so che il signor barbiere è uomo dabbene.
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– E se anche non fosse – disse il curato – io gli fo credito e mi rendo mallevadore per lui, che, cioè, in questa faccenda egli non parlerà più che non par...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. collana fondata da don Luigi Giussani diretta da don Julián Carrón
  4. PREFAZIONE
  5. INTRODUZIONE
  6. RINGRAZIAMENTI
  7. CRONOLOGIA DELLA VITA E DELLE OPERE
  8. NOTA PER IL LETTORE
  9. PARTE PRIMA
  10. PARTE SECONDA - PROLOGO AL LETTORE
  11. COMMENTI
  12. PAGINE PER UNA LETTURA CRITICA