Novelle
eBook - ePub

Novelle

  1. 662 pagine
  2. Italian
  3. ePUB (disponibile sull'app)
  4. Disponibile su iOS e Android
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Informazioni su questo libro

Le novelle contenute in questa raccolta costituiscono un'esemplare iniziazione alla prosa di Storm, un valido punto di partenza per chi voglia accostarsi oggi alla conoscenza estetica e psicologica della Germania del secondo Ottocento.

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Informazioni

Editore
BUR
Anno
2013
Print ISBN
9788817124713
eBook ISBN
9788858656938

IL CAVALIERE DAL CAVALLO BIANCO

Quel che ho in animo di raccontare, sono venuto a saperlo più di cinquant’anni fa in casa della mia bisnonna, la vecchia moglie del senatore Feddersen1, mentre ero sprofondato nella lettura di una rivista con la copertina in cartoncino azzurro: non ricordo bene se si trattava della Rivista di Lipsia o dei Fiori di lettura2 di Amburgo. Anche oggi, nel ripensarci, provo l’emozione di allora, quando la mano leggera della vegliarda più che ottantenne sfiorava ogni tanto i capelli del pronipote, per carezzarglieli. Da lungo la bisnonna e quei tempi sono sepolti. Invano, d’allora in poi, ho cercato di rintracciare quelle pagine: per questo non oserei metter la mano sul fuoco circa la verità dei fatti, né prendermela se qualcuno me la impugnasse. Posso tuttavia assicurare che, fin da quel tempo, non ho dimenticato nulla di quelle vicende, anche se non mi è mai capitato l’occasione di riviverle.

Nel terzo decennio del nostro secolo, un pomeriggio di ottobre - così cominciava il racconto - cavalcavo sotto una violenta bufera lungo un argine della Frisia del Nord. Da più d’un’ora avevo alla mia sinistra la palude, dalla quale tutto il bestiame era stato già allontanato, e alla mia destra, in una raccapricciante vicinanza, il basso fondo del mare del Nord messo a nudo dalla marea. Dall’argine si potevano vedere gl’isolotti e le isole maggiori, ma io non vedevo altro che le onde d’un grigiore giallastro avventarsi sul costone dell’argine incessantemente, con un brontolio minaccioso da fare spavento. Ogni tanto qualche spruzzo di spuma frammista di fango schizzava addosso a me e al cavallo. Dietro di noi, nella penombra vuota, il cielo e la terra non si distinguevano più: anche la mezza luna, che in quell’ora ergevasi alta nel cielo, era quasi sempre coperta da nere nubi, vaganti senza pace. Era un freddo infernale; le mie mani, intirizzite, potevano a malapena reggere le briglie. Non mi dava noia neppure il rauco grido dei gabbiani che, gracidando e schiamazzando, si precipitavano sulla terra ferma incalzati dal vento. Ormai s’era fatto buio pesto, tanto che non potevo più distinguere gli zoccoli del cavallo. Non avevo incontrato anima viva: udivo solo il grido degli uccelli, quando con le larghe ali sfioravano me e il mio fedele cavallo, o il fragoroso tumulto del vento e delle acque. Non nego di aver bramato più volte di trovarmi in un luogo sicuro, lontano da quell’inferno.
La tempesta durava ormai da tre giorni, e io mi ero trattenuto, più di quanto fosse lecito, presso un parente a me carissimo, nella fattoria da lui posseduta in uno dei distretti rurali più a Nord della zona. Ma quel giorno non volli trattenermi oltre: avevo da fare nella città che ancora distava da me un paio d’ore di cammino verso sud e, malgrado tutta l’abilità raffinata di mio cugino e della sua cara moglie, malgrado le mele «perinette» e quelle del gran Riccardo che ancora non avevo assaggiato, subito dopo pranzo mi ero messo in cammino.
— Stai bene attento quando arrivi al mare, — mi aveva gridato mio cugino dalla porta mentre mi allontanavo, — se te la vedi brutta, torna indietro! La camera è sempre a tua disposizione.
E davvero, quando la nuvolaglia mi si addensava addosso nera come la pece e le raffiche del vento che urlava minacciavano di scaraventare giù dall’argine me e il mio cavallo, ci fu un momento che mi balenò in mente il pensiero di tornare indietro e rifugiarmi nel nido caldo del mio buon cugino. Ma poi, ripensando che la casa di lui era ormai più lontana del luogo dov’ero diretto, mi tirai sulle orecchie il bavero del mantello e tirai avanti.
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D’un tratto, sull’argine, vidi farmisi davanti un qualche cosa. Non udivo nulla, ma quando la luna emergeva dalle nubi e illuminava la diga con la sua luce scialba, mi parve di notare una sagoma oscura in lontananza. Quando mi si fu accostata, mi parve vedere un uomo su di un cavallo bianco e magro, con le gambe stranamente lunghe. Un mantello scuro gli svolazzava dalle spalle e, quando mi passò davanti, vidi due occhi infuocati guardarmi da un viso mortalmente pallido.
Chi era? Che voleva? D’un tratto mi venne in mente di non aver udito alcun rumore di zoccoli, né lo sbuffare del cavallo: eppure cavallo e cavaliere mi erano passati proprio rasenti!
Seguitai il cammino immerso nei miei pensieri, ma non ebbi il tempo di pensare a lungo: il cavaliere, tornato indietro, mi passò accanto di nuovo. Ebbi la sensazione che il mantello volante mi sfiorasse, ma come l’altra volta non udii il minimo rumore. Lo vidi poi lontano, sempre più lontano: infine mi parve che l’ombra, d’un tratto, scendesse giù dall’argine verso la terra ferma.
Seguitai a cavalcare con un certo tremito addosso. Quando giunsi in quel punto notai da basso sulla terra ferma, proprio rasente all’argine, l’acqua d’una grande troscia (con questo nome la gente del luogo chiama quelle pozze formate dall’acqua marina che la tempesta scaglia in terra ferma, e che, il più delle volte, non assorbite, si trasformano in veri e propri stagni piccoli di superficie ma abbastanza profondi).
Quell’acqua, malgrado fosse protetta dall’argine, era stranamente agitata. A turbarla così non poteva essere stato il cavaliere, del quale non vidi più nessuna traccia. Ma, in quello stesso momento, mi dette nell’occhio un’altra cosa che salutai davvero con gioia: dinanzi a me, in basso, sulla terraferma, notai un certo numero di luci sparse; venivano da quelle tipiche lunghe case di Frisia che, isolate, sorgono su collinette artificiali più o meno alte. Ma proprio davanti a me, a mezza altezza del costone dell’argine che dà verso l’interno, vidi un grande edificio del genere. Il lato volto a mezzogiorno, a destra del portone d’ingresso, aveva illuminate tutte le finestre, dietro le quali scorsi degli uomini e, malgrado la tempesta, mi parve di sentire le loro voci. Il mio cavallo imboccò da sé il sentiero che scende dall’argine e mi portò proprio accanto al portone. Vidi subito che era un’osteria perché, davanti alle finestre, c’erano i cosiddetti «caprioli», cioè delle travi poggiate su due pilastri, alle quali erano fissati degli anelli di ferro per legarci il bestiame o i cavalli durante la sosta.
Legai il mio cavallo ad un anello e, visto il servo che subito mi venne incontro nel vestibolo, glielo affidai perché ne avesse cura.
— C’è qualche riunione? — gli chiesi non appena sentii distintamente venir dalla stanza un chiacchierio e un cozzar di bicchieri.
— Qualcosa di simile, — mi rispose in basso tedesco, il quale dialetto, come seppi dopo, era in uso ormai da un secolo insieme con il frisone; — c’è il sovrintendente alle dighe, ci sono i plenipotenziari e parecchi dei proprietari delle terre a ridosso dell’argine. Debbono discutere perché, come vede, c’è l’acqua alta...
Quando entrai, vidi una dozzina di uomini seduti ad un tavolo, che si stendeva, in tutta la sua lunghezza, sotto le finestre; su di esso stava una zuppiera da ponce. Un uomo di particolare robustezza pareva comandare al di sopra di tutti.
Li salutai e chiesi il permesso di sedermi accanto a loro, il che subito mi fu concesso.
— Loro la guardia la fanno di qui! — dissi voltandomi verso l’uomo robusto. — Fuori c’è un tempo da lupi, e l’argine ha i suoi pericoli!
— Indubbiamente, — rispose; — ma noi che ci troviamo qui dal lato orientale crediamo che in questo momento pericolo non ci sia. Dall’altra banda, purtroppo, le cose stanno ben diversamente perché la maggior parte delle dighe è ancora di vecchio tipo; la nostra diga principale, invece, è stata completamente rifatta nel secolo scorso... A star fuori c’era preso un freddo del diavolo, — aggiunse, — e anche a Lei, penso, sarà successo lo stesso. Però possiamo stare qui dentro un paio d’ore in tutta tranquillità perché fuori c’è chi può subito farci sapere se c’è qualcosa di nuovo.
E prima che io avessi il tempo di fare la mia ordinazione all’oste, un bicchiere fumante mi era già stato messo davanti. Seppi ben presto che il mio cortese vicino era il sovrintendente alle dighe; cominciammo a parlare insieme, e quando presi a raccontargli lo strano incontro che avevo fatto poco prima, notai che mi ascoltava tutto orecchi e che, all’intorno, tutti avevano smesso di parlare.
— Il cavaliere dal cavallo bianco! — esclamò uno del gruppo, e tutti ebbero uno scatto, quasi di paura.
Il sovrintendente frattanto s’era alzato.
— Non credo che sia il caso d’aver paura, — disse sovrastando di tutta la persona gli altri; — non è solo per noi! Nell’anno diciassette l’avvertimento è stato anche per quelli di là. Speriamo che si siano premuniti per tutto!
Anch’io rabbrividii, se pure con ritardo.
— Scusate, — domandai, — ma cos’è questo cavaliere dal cavallo bianco?
Dietro la stufa, in un angolo, stava seduto un ometto magro, un po’ curvo, con un giubbetto nero alquanto liso; pareva che avesse una spalla un po’ più alta dell’altra. Alla discussione degli altri non aveva affatto partecipato; ma i suoi occhi, che spuntavano di tra le ciglia ancora scure a confronto dei capelli radi e bianchi, dimostravano chiaramente che non s’era messo lì per dormire.
Il sovrintendente tese una mano verso di lui.
— Il nostro signor maestro è quello che Le può raccontare la storia meglio di tutti noi, — disse a voce alta; — naturalmente però soltanto a modo suo e non certo con la precisione con cui potrebbe narrargliela la mia vecchia massaia Antje Vollmers!
— Voi avete voglia di scherzare, sovrintendente! — si udì rispondere di dietro alla stufa dalla voce malaticcia del maestro; — volete proprio mettermi alle costole il vostro stupido drago?
— Sì, caro maestro! — ribatté l’altro; — quel drago, di storie del genere, è fornito più d’un archivio!
— E va bene! — sospirò l’ometto; — su questo non siamo d’accordo, — concluse con un risolino di superiorità.
— Come Lei vede, — mi sussurrò all’orecchio il sovrintendente, — è un tipo che vuole stare sulle sue: da giovane ha studiato teologia e solo per un fidanzamento andato male, si è stabilito nel villaggio nativo e fa il maestro.
Frattanto l’interessato era venuto fuori dal suo angolo dietro la stufa e s’era seduto accanto a me al tavolo lungo.
— Raccontate, maestro, raccontate! — gridarono un paio di giovani della compagnia.
— Va bene, — disse il vecchio rivolgendosi a me; — io ho tutte le buone intenzioni, ma, in questa storia c’è tanta superstizione mescolata, che ci vuole molta arte a raccontarla senza cascarci dentro...
— Vi prego di non tralasciare niente, — gli dissi, — state pur sicuro che, a distinguere il grano dalla lolla, sono capace!
Il vecchio mi guardò con un risolino d’intesa e cominciò il suo racconto.
— Verso la metà del secolo scorso o, per essere più precisi, parecchio tempo prima e parecchio tempo dopo di essa, c’era da queste parti un sovrintendente alla diga, che di argini, di chiuse e di canali s’intendeva molto di più di quanto non siano soliti intendersene contadini e proprietari di fattorie. Questa cultura se l’era fatta tutta da sé, e fin da quand’era in fasce. Lei l’avrà sentito dire, signore: i frisoni i conti li sanno fare bene; e non Le sarà certamente ignoto il nome del nostro Gianni Mommsen di Fahretost1, che, pur essendo un contadino, sapeva fare bussole e cronometri non meno che organi e telescopi. Ora il babbo di quello che più tardi diventò sovrintendente era fatto di quella pasta, anche se solo in piccolo. Aveva un paio di appezzamenti, dove coltivava colza e fagioli e faceva pascolare anche una vacca; di primavera e d’autunno andava ogni tanto a far misurazioni del terreno, e d’inverno, quando fuori soffiava il maestrale e gli scuoteva le imposte delle finestre, si chiudeva nella sua stanza a far disegni. Il ragazzo gli sedeva quasi sempre vicino e, sbirciando il padre al di sopra dell’abbecedario o della Bibbia, lo guardava misurare e calcolare e si affondava le mani tra i capelli biondi. Una sera domandò al padre perché quello che aveva scritto doveva essere proprio in quel modo e non altrimenti, e gli espose la propria opinione a proposito. Il padre che, tra parentesi, non sapeva cosa rispondergli, scrollò il capo e gli disse:
«“Io non so che dirti: è così e basta, e tu ti sbagli. Se poi vuoi saperne di più, domani, in quella cassa che è in soffitta, cercati un libro scritto da un tizio che si chiamava Euclide1; forse lì dentro troverai la risposta!”.
Il ragazzo, la mattina dopo, corse in soffitta e in poco tempo trovò il libro, perché in casa di libri non ce n’erano davvero troppi; ma il padre, quando glielo mise davanti sul tavolo, rise. Era un Euclide scritto in olandese, e l’olandese, anche se in fondo è un mezzo tedesco, non lo sapevano né l’uno né l’altro.
«“Già”, disse il vecchio, “quel libro è ancora del mio povero babbo; lui lo capiva. Ma non è scritto in tedesco?”.
«Il ragazzo, che era di poche parole, guardò il padre con tutta calma e si limitò a dire:
«“In tedesco non è scritto; ma posso tenerlo lo stesso?”.
«Quando il vecchio gli ebbe detto di sì, gli mostrò un ...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. INTRODUZIONE
  4. CRONOLOGIA DELLA VITA E DELLE OPERE
  5. TESTIMONIANZE E GIUDIZI CRITICI
  6. NOTA BIBLIOGRAFICA
  7. ILLUSTRAZIONI
  8. IMMENSEE
  9. NEL CASTELLO
  10. PSICHE
  11. VIOLA TRICOLOR
  12. L'ASILO SILVESTRE
  13. AQUIS SUBMERSUS
  14. IL CURATORE CARSTEN
  15. IL SILENZIO
  16. UNA CONFESSIONE
  17. IL CAVALIERE DAL CAVALLO BIANCO