Novelle orientali
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Novelle orientali

  1. 120 pagine
  2. Italian
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  4. Disponibile su iOS e Android
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Novelle orientali

Informazioni su questo libro

Dall'India ai Balcani, dal Giappone alla Grecia: l'Oriente di Marguerite Yourcenar affonda la sua poesia e le sue tradizioni in racconti struggenti, tragici, mitologici e fantastici che narrano i sentimenti umani nelle loro sfumature più tenui e contraddittorie. La sua scrittura ricchissima ed elegante regala un'aura di favola a leggende slave, apologhi taoisti, miti indù, che improvvisamente tornano a essere freschi e moderni, senza tempo. Tra ballate balcaniche medievali, folklore russo e storie di miti antichi scopriamo le avventure del vecchio pittore Wang-Fô, l'ultima tenera storia d'amore del principe Genji, la solitudine piena di rimpianti della vedova Afrodissa. Un viaggio affascinante ed esotico in cui è il destino a prendersi gioco degli uomini e a guidare i loro passi.

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Informazioni

Editore
BUR
Anno
2013
Print ISBN
9788817106139

L’ultimo amore del principe Genji

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Quando Genji il Rifulgente, il più grande seduttore che mai abbia stupito l’Asia, ebbe raggiunto il suo cinquantesimo anno, si accorse che bisognava cominciare a morire. La sua seconda moglie, Murasaki, la principessa Violetta, che egli aveva tanto amata attraverso tante infedeltà contraddittorie, l’aveva preceduto in uno di quei Paradisi dove vanno i morti che hanno acquisito qualche merito nel corso di questa vita mutevole e difficile, e Genji si tormentava di non poterne ricordare esattamente il sorriso, o meglio la smorfietta che lei faceva prima di piangere. La sua terza sposa, la Principessa-del-Palazzo-dell’Ovest, l’aveva ingannato con un giovane parente, come lui stesso, al tempo della sua giovinezza, aveva ingannato suo padre, con un’imperatrice adolescente. La stessa commedia ricominciava sul teatro del mondo, ma questa volta lui sapeva che non gli sarebbe toccata che la parte del vecchio, e a questo preferiva la parte del fantasma. E così distribuì i suoi beni, congedò i suoi servitori e si accinse ad andare a finire i suoi giorni in un eremitaggio che aveva avuto cura di far costruire sul fianco della montagna. Attraversò un’ultima volta la città, seguito soltanto da due o tre compagni devoti che in lui non si rassegnavano a prendere congedo dalla loro giovinezza. Nonostante l’ora mattutina, alcune donne puntavano il viso contro i sottili listelli delle persiane. Bisbigliavano ad alta voce che Genji era ancora bellissimo, e questo provava una volta di più al principe che era proprio tempo di andarsene.
Misero tre giorni a raggiungere l’eremitaggio situato in lande assai selvatiche. La casetta sorgeva ai piedi di un acero centenario; poiché era autunno, le foglie di questo bell’albero ne ricoprivano il tetto di paglia con uno strato d’oro. In quella solitudine la vita si rivelò più semplice e più rude ancora di quanto non fosse stata nel corso del lungo esilio, in una remota provincia giapponese, subìto da Genji al tempo della sua tempestosa giovinezza, e quell’uomo raffinato poté finalmente gustare, fino a saziarsene, il lusso supremo che consiste nel fare a meno di tutto. Presto si annunciarono i primi freddi, le pendici della montagna si ricoprirono di neve come le larghe pieghe di quei vestiti ovattati che si portano in inverno, e la nebbia soffocò il sole. Dall’alba al crepuscolo, al baluginìo di un avaro braciere, Genji leggeva le Scritture, e trovava in quei versetti austeri un sapere ormai impossibile per lui nei più patetici versi d’amore. Ma ben presto si accorse che la sua vista scemava, come se tutte le lacrime che aveva versate sulle sue fragili amanti gli avessero bruciato gli occhi, e dovette rendersi conto che per lui le tenebre sarebbero cominciate prima della morte. Di tanto in tanto un corriere intirizzito arrivava dalla capitale, zoppicando sui piedi gonfi di stanchezza e di geloni, e gli presentava rispettosamente certi messaggi di parenti o di amici che desideravano fargli ancora una visita in questo mondo, prima degli incontri infiniti e incerti dell’altra vita. Ma Genji temeva di ispirare ai suoi ospiti soltanto compassione o rispetto, due sentimenti di cui aveva orrore, e ai quali preferiva l’oblìo. Scuoteva tristemente il capo, e quel principe rinomato un tempo per il suo talento di poeta e di calligrafo rimandava il messaggero con in mano un foglio bianco. A poco a poco le comunicazioni con la capitale rallentarono; il ciclo delle feste stagionali continuava a ruotare lontano dal principe che una volta le dirigeva con un colpo di ventaglio, e Genji, abbandonato senza ritegno alle tristezze della solitudine, aggravava sempre più il suo male agli occhi perché non si vergognava più di piangere.
Due o tre delle sue antiche amanti gli avevano proposto di venire a condividere il suo isolamento pieno di ricordi. Le lettere più tenere provenivano dalla Signora-del-villaggio-dei-fiori-che-cadono: era un’antica concubina di nascita non illustre e di mediocre bellezza; aveva fedelmente servito come dama d’onore presso le altre spose di Genji, e per diciott’anni aveva amato il principe senza stancarsi mai di soffrire. Lui le faceva ogni tanto qualche visita notturna, e questi incontri, benché rari come le stelle in una notte piovosa, erano bastati a illuminare la povera vita della Signora-del-villaggio-dei-fiori-che-cadono. Non facendosi illusioni né sulla propria bellezza, né sul proprio spirito, né sulla propria nascita, la Signora, la sola fra tante amanti, conservava per Genji una dolce riconoscenza poiché non trovava del tutto naturale che egli l’avesse amata.
Restando senza risposta le sue lettere, affittò una modesta carrozza e si fece portare alla capanna del principe solitario. Spinse timidamente la porta di rami intrecciati; si inginocchiò, con un’umile risatina che la scusasse di essere lì. In quel tempo Genji riconosceva ancora il viso dei suoi visitatori se si avvicinavano molto. Una rabbia amara lo colse davanti a quella donna che risvegliava in lui i più stillanti ricordi dei giorni morti, non tanto per via della sua presenza quanto perché le sue maniche erano ancora impregnate del profumo che usavano le sue mogli defunte. Lei lo supplicava tristemente di tenerla almeno come serva. Spietato per la prima volta, Genji la cacciò, ma lei aveva conservato qualche amico fra i vecchi che si occupavano del servizio del principe, e talvolta costoro le facevano avere notizie. Crudele a sua volta come non lo era mai stata in vita sua, lei sorvegliava di lontano il procedere della cecità di Genji, come una donna impaziente di raggiungere il suo amante aspetta che la sera sia del tutto scesa.
Quando lo seppe quasi del tutto cieco, si spogliò dei suoi vestiti di città e indossò una casacca corta e rozza secondo l’uso delle giovani contadine; si intrecciò i capelli alla maniera delle ragazze dei campi; e si mise sulle spalle un fagotto di stoffe e di terraglie del genere che si vende nelle fiere paesane. Conciata così, si fece condurre nel luogo dove l’esule volontario abitava in compagnia dei cerbiatti e dei pavoni della foresta; fece a piedi l’ultima parte della strada perché il fango e la stanchezza l’aiutassero a rappresentare bene la sua parte. Le piogge tenere della primavera cadevano dal cielo sulla terra molle, e sommergevano gli ultimi lucori del crepuscolo: era l’ora in cui Genji, ravvolto nel suo stretto abito da monaco, passeggiava lentamente lungo il sentiero da cui i suoi vecchi servitori avevano accuratamente scostato ogni sassolino per impedirgli di inciampare. Il suo viso vacuo, spassionato, offuscato dalla cecità e dalle avvisaglie della vecchiaia, sembrava uno specchio brunito che avesse un tempo riflesso la bellezza, e la Signora-del-villaggio-dei-fiori-che-cadono non ebbe bisogno di fingere per mettersi a piangere.
Questo rumore di singhiozzi femminili fece sussultare Genji. Si orientò lentamente dal lato di dove provenivano quelle lacrime.
— Chi sei, donna? disse con inquietudine.
— Sono Ukifune, la figlia del fattore So-Hei, disse la Signora non dimenticando di adottare l’accento del villaggio. Sono andata in città con mia madre per comperare stoffe e marmitte perché mi sposano alla prossima luna. Ma ecco che mi sono smarrita nei sentieri della montagna, e piango perché ho paura dei cinghiali, dei demoni, del desiderio degli uomini e dei fantasmi dei morti.
— Tu sei tutta bagnata, fanciulla, disse il principe posandole una mano sulla spalla.
Infatti era fradicia fino alle ossa. Il contatto di quella mano così nota la fece vibrare dalla punta dei capelli all’alluce del piede nudo, ma forse Genji credette che tremasse per il freddo.
— Vieni nella mia capanna, riprese il principe con voce invitante. Potrai scaldarti al mio fuoco, anche se ci sono più ceneri che carbone.
La Signora lo seguì, preoccupandosi di imitare l’andatura goffa di una contadina. Si accovacciarono davanti al fuoco morente. Genji tendeva le mani verso il calore, ma la Signora dissimulava le dita, troppo delicate per una ragazza dei campi.
— Sono cieco, sospirò Genji un momento dopo. Non farti scrupoli e togliti i vestiti bagnati, ragazza. Scaldati nuda davanti al mio fuoco.
La Signora si tolse docilmente l’abito da contadina. Il fuoco coloriva il suo corpo esile che sembrava intagliato nella più pallida delle ambre. All’improvviso Genji mormorò:
— Ti ho ingannata, fanciulla, perché non sono ancora del tutto cieco. Ti intuisco attraverso una nebbia che forse non è che l’alone della tua bellezza. Lascia che posi la mano sul tuo braccio che trema ancora.
È così che la Signora-del-villaggio-dei-fiori-che-cadono ridivenne l’amante del principe Genji che per più di diciott’anni aveva umilmente amato. Non dimenticò di imitare le lacrime e le timidezze di una fanciulla al suo primo amore. Il suo corpo era rimasto mirabilmente giovane, e la vista del principe era troppo debole per permettergli di distinguere qualche capello grigio.
Quando le loro carezze furono finite, la Signora si inginocchiò davanti al principe e gli disse:
— Ti ho ingannato, Principe. Sono Ukifune, sì, la figlia del fattore So-Hei, ma non mi sono affatto smarrita nella montagna. La gloria del principe Genji è giunta fino al villaggio, ed è di mia spontanea volontà che sono venuta, per scoprire l’amore fra le tue braccia.
Genji si alzò barcollando, come un pino che vacilli sotto l’urto dell’inverno e del vento. Gridò con voce sibilante:
— Disgrazia a te che sei venuta a riportarmi il ricordo del mio peggiore nemico, il bel principe dagli occhi vivi che con la sua immagine mi tiene sveglio ogni notte... Vattene...
E la Signora-del-villaggio-dei-fiori-che-cadono si allontanò, rimpiangendo l’errore che aveva appena commesso.
Durante le settimane che seguirono, Genji restò solo. Soffriva. Si accorgeva, scoraggiato, di essere ancora avvolto nelle illusioni di questo mondo, e pochissimo preparato agli scorticamenti e alle epifanie dell’altra vita. La visita della figlia del fattore So-Hei aveva risvegliato in lui il gusto delle creature dai polsi stretti, dai lunghi seni conici, dal riso patetico e docile. Da quando stava diventando cieco, il senso del tatto restava il suo solo modo di aderire alla bellezza del mondo, e i paesaggi in cui era venuto a rifugiarsi non gli dispensavano più alcuna consolazione. Il fruscìo di un ruscello, infatti, è più monotono della voce di una donna, e i pendii delle colline o le striature delle nuvole sono fatti per chi può vedere, e planano troppo lontano da noi per lasciarsi accarezzare.
Due mesi più tardi la Signora-del-villaggio-dei-fiori-che-cadono fece un secondo tentativo. Questa volta si vestì e si profumò con cura, ma badò bene che il taglio delle stoffe avesse qualcosa di meschino e di timido nella sua stessa eleganza, e che quel profumo discreto, ma banale, suggerisse la mancanza di immaginazione di una giovane proveniente da un onorevole strato della provincia, e che non ha mai visto la corte.
Per l’occasione ingaggiò dei portatori e una portantina ragguardevole che tuttavia mancava delle ultime raffinatezze cittadine. Fece in modo di arrivare nei dintorni della capanna di Genji soltanto in piena notte. L’estate l’aveva preceduta nella montagna. Genji, seduto ai piedi dell’acero, ascoltava il canto dei grilli. La Signora si avvicinò a lui nascondendo a metà il viso dietro il ventaglio e mormorò tutta confusa:
— Sono Sciujo, la moglie di Sukazu, un nobile di settimo rango della provincia di Yamato. Sono partita per il pellegrinaggio al tempio di Ise, ma uno dei miei portatori si è storto un piede, e io non posso continuare la strada prima dell’aurora. Indicami una capanna dove io possa passare la notte senza temere calunnie, e far riposare i miei servi.
— Dove, se non nella casa di un vecchio cieco, può essere meglio al riparo delle calunnie una giovane donna? disse amaramente il principe. La mia capanna è troppo piccola per i tuoi servi, che dormiranno sotto quest’albero, ma a te io cederò l’unico materasso del mio eremo.
Si alzò e camminando a tastoni le indicò la strada. Nemmeno una volta aveva alzato gli occhi su di lei, e da questo segno ella riconobbe che era completamente cieco.
Quando si fu distesa sul materasso di foglie secche, Genji andò malinconicamente a sedersi sulla soglia della capanna. Era triste, e non sapeva nemmeno se quella giovane fosse bella.
La notte era calda e chiara. La luna stendeva un chiarore sul viso alzato del cieco, che sembrava scolpito in una candida giada. Dopo un po’ la signora lasciò il suo giaciglio forestiero e a sua volta venne a sedersi sulla soglia. Disse con un sospiro:
— La notte è bella, e io non ho sonno. Permettimi di cantare una delle canzoni di cui trabocca il mio cuore.
E senza aspettare risposta cantò una romanza che il principe aveva cara per averla tante volte sentita dalle labbra della sua moglie preferita, la principessa Violetta. Genji, turbato, si avvicinò insensibilmente alla sconosciuta:
— Di dove vieni, giovane donna che conosci le canzoni care alla mia giovinezza? Arpa in cui vibrano arie di un altro tempo, lasciami passare la mano sulle tue corde.
E le carezzò i capelli. Dopo un po’ le domandò:
— Ahimè, certo tuo marito sarà più bello e più giovane di me, giovane donna del paese di Yamato.
— Mio marito è meno bello e sembra meno giovane, rispose semplicemente la Signora-del-villaggio-dei-fiori-che-cadono.
E così, sotto un nuovo travestimento, la Signora divenne l’amante del principe Genji, al quale un tempo era appartenuta. Al mattino lo aiutò a preparare una pappa calda, e il principe Genji le disse:
— Sei abile e tenera, giovane donna, e credo che nemmeno il principe Genji, che è stato tanto felice in amore, abbia avuto un’amante più dolce di te.
— Non ho mai sentito parlare del principe Genji, disse la Signora scuotendo la testa.
— Come! esclamò amaramente Genji. È stato dimenticato così presto?
E restò cupo per l’intiera giornata. La Signora capì allora di aver fatto un secondo passo falso, ma Genji non accennava a mandarla via, e sembrava felice di ascoltare il fruscìo del suo vestito di seta nell’erba.


Arrivò l’autunno e trasformò gli alberi della montagna in altrettante fate vestite di porpora e d’oro, ma destinate a morire con i primi freddi. La Signora descriveva a Genji quei bruni grigi, quei bruni dorati, quei bruni lilla, badando a non alludervi che per caso, e ogni volta evitava di ostentare l’aiuto che gli recava. Deliziava ogni giorno Genji inventando complicate collane di fiori, pietanze raffinate per troppa semplicità, nuove parole che si adattavano a vecchie arie struggenti e sofferte. Aveva già dispiegato gli stessi fascini nel suo padiglione di quinta concubina, dove Genji talvolta le faceva visita. Ma lui, distratto da altri amori, non se n’era accorto.
Alla fine dell’autunno le febbri salirono dalle paludi. Gli insetti pullulavano nell’aria ammorbata, e ogni respiro pareva una sorsata presa a una sorgente avvelenata. Genji si ammalò e si distese sul suo letto di foglie morte, convinto ormai di non rialzarsi più. Davanti alla Signora si vergognava della propria debolezza e delle cure umilianti a cui lo costringeva la malattia, ma quell’uomo che per tutta la sua vita aveva cercato ciò che c’è insieme di più unico e di più straziante in ogni esperienza, non poteva che apprezzare quanto una simile intimità nuova e miseranda poteva aggiungere fra due esseri alle intime dolcezze dell’amore.
Un mattino in cui la Signora gli massaggiava le gambe, Genji si sollevò sul gomito, e cercando a tastoni le mani della Signora, mormorò:
— Giovane donna che curi chi sta per morire, io ti ho ingannata. Io sono il principe Genji.
— Quando sono venuta da te, non ero che una provinciale ignorante; disse la Signora, e non sapevo chi fosse il principe Genji. Ora so che è stato il più bello e il più desiderato degli uomini, ma tu non hai bisogno di essere il principe Genji per essere amato.
Genji la ringraziò con un sorriso. Da quando i suoi occhi tacevano, sembrava che lo sguardo gli vagasse sulle labbra.
— Sto per morire, disse con fatica. Non mi lamento di un destino che condivido con i fiori, con gli insetti, con gli astri. In un universo dove tutto passa come un sogno, non ci perdoneremmo di durare sempre. Non mi addolora che le cose, gli esseri e i cuori siano perituri, dal momento che una parte della loro bellezza è fatta di questa sciagura. Ciò che mi affligge è che siano unici. Un tempo, la certezza di ottenere in ogni istante della mia vita una rivelazione non destinata a rinnovarsi, rappresentava il fiore dei miei segreti piaceri. Ora io muoio pieno di vergogna, come un privilegiato che abbia assistito da solo a una festa sublime data una volta sola. Cari oggetti, voi non avete più per testimone se non un cieco che muore... Saranno in fiore altre donne, sorridenti come quelle che io ho amato, ma il loro sorriso sarà diverso, e il neo che mi ispirava tanti slanci si sarà spostato per lo spessore di un atomo sulla loro guancia d’ambra. Altri cuori si spezzeranno sotto il peso di un amore insopportabile, ma le loro ...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Dedica
  4. Come Wang-Fô fu salvato
  5. Il sorriso di Marko
  6. Il latte della morte
  7. L’ultimo amore del principe Genji
  8. L’uomo che ha amato le Nereidi
  9. Nostra Signora delle Rondini
  10. La vedova Afrodissia
  11. Kali decapitata
  12. La fine di Marko Kraliévitch
  13. La tristezza di Cornelius Berg
  14. Post-scriptum