
- 208 pagine
- Italian
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eBook - ePub
La Marchesa di O...
Informazioni su questo libro
La ricerca del seduttore e la volontà di riconciliarsi con esso nella legge da parte della protagonista in forza di una castità di coscienza e di un candore quasi paradossale si esprimono nel tentativo di rinsaldare l'aspetto diabolico e angelico dell'eros in seno alla grande problematica sociale dell'emancipazione femminile.
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Informazioni
Print ISBN
9788817126649eBook ISBN
9788858655214MICHAEL KOHLHAAS
VERSO LA METÀ del sedicesimo secolo viveva sulle rive della Havel un mercante di cavalli di nome Michele Kohlhaas, figlio di un maestro di scuola, uno degli uomini più giusti e insieme più terribili del suo tempo, uomo fuor dell’ordinario, che fino alla trentina avrebbe potuto esser citato come modello del buon cittadino. Possedeva, in un paese che porta ancora il suo nome, una fattoria la quale, grazie alla sua attività, bastava ad assicurargli un’esistenza tranquilla; educava nel timore di Dio, nell’amore al lavoro e nel rispetto alla parola data i figli che la moglie gli aveva donato; e non c’era nessuno tra i suoi vicini che non avesse avuto prove della sua generosità o del suo senso della giustizia. In breve: il mondo avrebbe dovuto benedire la sua memoria, se una delle sue virtù non gli avesse fatto perdere la testa; il senso della giustizia lo rese infatti brigante e assassino.
Accadde che un giorno egli si recasse in paese straniero con un branco di cavalli giovani, ben pasciuti tutti e lucidi, e andava calcolando come avrebbe potuto impiegare il guadagno che sperava ricavarne sul mercato: una parte l’avrebbe accantonata, da buon amministratore, ma una parte se la sarebbe goduta subito. Quando giunse all’Elba e a un maestoso castello che sorgeva in territorio sassone, s’imbatté in una barriera che non aveva mai trovato, prima d’allora, su quella via. Si fermò un istante in silenzio sotto l’acquazzone, e poi chiamò al custode che apparì subito fuori dalla finestra con una grinta di cattivo umore: il mercante gli chiese di aprirgli. — Che cos’è questa novità? — domandò allorché il gabelliere, dopo un bel po’, se ne uscì fuori.
— Privilegi dominicali, — rispose quello mentre apriva, — accordati al barone Venceslao von Tronka.
— Ah! — disse Kohlhaas, — si chiama Venceslao il signore? — e levò gli occhi verso il castello che dominava i campi con la sua corona di merli lucenti. — Il vecchio è morto?
— Di un colpo, — rispose il custode mentre sollevava la sbarra.
— Hum! Peccato! — esclamò Kohlhaas. — Era un bravo signore, che amava i suoi simili, che, per quanto stava in lui, proteggeva traffici e commercio e che aveva fatto pavimentare la strada dopo che una volta, laggiù all’ingresso del villaggio, una mia cavalla s’era rotto una gamba. Allora, cosa devo? — chiese. E tirò fuori a fatica di sotto il mantello che il vento gli strappava di dosso i soldi per il guardiano. — Eh, sì! era vecchio, — soggiunse, mentre l’altro mormorava tra i denti: «Via, via!», bestemmiando contro il maltempo. — Se l’albero fosse ancora in piedi, sarebbe meglio assai per voi e per me! — E così detto, porse il denaro e riprese a cavalcare.
Ma non aveva ancora passato la barriera, che una nuova voce gli suonava alle spalle dall’alto della torre: — Fermo! — ed egli scorse il castaldo che, sbattendo una finestra, correva giù. «Cosa c’è di nuovo ancora?», chiese Kohlhaas tra sé e sé, e si fermò coi cavalli ad attendere. Il castaldo arrivò abbottonandosi sul corpaccione un secondo panciotto e, brontolando contro il maltempo, domandò subito il lasciapassare.
— Il lasciapassare? — ribatté Kohlhaas, e un po’ sconcertato confessò che, per quanto gli constava, non credeva di averne; che ad ogni modo bastava che il signore gli spiegasse di che razza di cosa si trattasse, perché poteva anche darsi che ne fosse provvisto, per caso. Il castaldo, guardandolo di traverso, replicò che senza un permesso scritto del sovrano nessun mercante di cavalli poteva varcare i confini insieme con le sue bestie. Il mercante assicurò di averli passati ben diciassette volte, in vita sua, senza bisogno di quel documento; che conosceva tutte le prescrizioni sovrane riguardanti il proprio mestiere; che poteva trattarsi solo di un errore, e pregava che esso fosse rettificato, senza costringer lui a perdere lì senza motivo il suo tempo: aveva già da viaggiare abbastanza a lungo. Il castaldo rispose che egli non sarebbe passato, la diciottesima volta, poiché nuove disposizioni erano state emanate di recente, e che delle due, o il mercante si provvedeva subito di lasciapassare, o che se ne tornasse laggiù di dove era venuto.
Il mercante, che a quell’imposizione illegale cominciava a ribollire, dopo un attimo di riflessione scese da cavallo, lo affidò a un servo e chiese di discuter la cosa personalmente col barone von Tronka. Si avviò quindi verso il castello seguito dal castaldo, brontolando non so che di schifosissimi mangiasoldi e di vantaggiosi salassi fatti subire alla gente, finché, squadrandosi l’un l’altro dall’alto in basso, i due fecero ingresso nella sala.
Il barone se ne stava seduto a tavola brindando con certi suoi allegri compagni; e proprio mentre tutti quanti ridevano a crepapelle per una divertente storiella, Kohlhaas gli si avvicinò, per presentar la sua lagnanza. Il barone gli chiese che mai volesse, e i cavalieri, vedendo un forestiero, tacquero. Ma egli aveva appena cominciato a esporre la cosa, accennando ai cavalli, che tutti quanti esclamarono: — Cavalli? dove sono? — e corsero alla finestra per vederli. E, scorto che ebbero il bel gruppo di bestie, su proposta del padrone di casa scesero subito in cortile.
Non pioveva più. Castaldo, fattore e servi facevano loro corona, e tutti esaminavano gli animali. Uno lodava la bella linea del sauro bruciato con la stella bianca, un altro preferiva il bajo, un terzo accarezzava quello pomellato di nero, e tutti eran d’accordo nell’affermare che sembravan cervi e che cavalli simili in paese non ce n’erano.
Kohlhaas tutto fiero rispose che i cavalli non eran certo migliori dei cavalieri che li avrebbero montati e offerse di venderli loro. Il barone, al quale quel bel sauro ben inquartato piaceva assai, gli chiese quanto ne chiedesse; e il fattore propose anche l’acquisto di una coppia di morelli che, in mancanza di altri animali, avrebbero potuto essergli utili per i lavori dei campi. Ma quando il mercante ebbe detto i prezzi, i cavalieri li giudicarono troppo alti, e il barone aggiunse che con simili pretese avrebbe fatto meglio ad andare a cercar quali clienti re Artù e i cavalieri della Tavola rotonda. Kohlhaas, al quale non era sfuggito come castaldo e fattore sussurrassero tra loro lanciando eloquenti occhiate ai cavalli, turbato da un oscuro presentimento, fece tutto quanto poté per concludere l’affare. Rivolto al barone, disse: — Signore, sei mesi fa ho comperato i due morelli per venticinque scudi d’oro; me ne dia trenta e sono suoi.
Due cavalieri che stavano accanto al barone ammisero apertamente che i cavalli valevano il prezzo, ma il signore gli rispose che avrebbe volentieri tirato fuori i quattrini per il sauro, ma non per i morelli; e fece l’atto di andarsene. Kohlhaas disse allora che sperava di poter concludere con lui un affare la volta successiva che gli sarebbe capitato di passare da quelle parti, prese congedo dal signore e mise mano alle briglie per riprendere il viaggio.
Ma il castaldo, in quella, si fece avanti, ammonendo che stesse bene attento, perché senza lasciapassare non avrebbe potuto andar oltre. Kohlhaas si volse allora al barone, e gli chiese se realmente esistesse una simile disposizione, che minacciava di rovinar completamente il suo commercio. E il barone, con un’espressione alquanto imbarazzata, rispose, allontanandosi: — Sì, Kohlhaas, devi procurarti il lasciapassare. Parlane col castaldo e vattene per la tua strada.
Kohlhaas protestò che non era certo sua intenzione violare le ordinanze che potevano essere state emanate sull’esportazione dei cavalli e promise che, passando da Dresda, non avrebbe mancato di chiedere il lasciapassare alla cancelleria privata; per quella volta, però, visto che egli aveva fino a quel momento ignorato la disposizione, lo si lasciasse proseguire.
— Bene! — fece il barone, poiché aveva ripreso a piovere e l’acqua gli batteva sul corpo ossuto, — lasciate che questo poveraccio vada per la sua strada. Venite! — continuò volgendosi ai cavalieri; e girò le spalle avviandosi verso il castello.
Ma il castaldo, rivolto al padrone, fece osservare che il mercante doveva lasciare almeno un pegno a garanzia che avrebbe chiesto il lasciapassare. Il barone si fermò di nuovo sulla porta del castello, e Kohlhaas chiese quale deposito in denaro o in oggetti dovesse fare per i due morelli. Al che il fattore brontolando nella barba rispose che la miglior cosa era di lasciare addirittura i morelli.
— Ma già, — intervenne il castaldo, — è il meglio di tutto. Una volta ottenuto il lasciapassare, potrà mandare a riprenderseli quando vorrà.
Kohlhaas, stupito per una proposta così impudente, fece presente al barone, il quale, infreddolito, andava scostandosi di dosso la giubba bagnata, che lui i morelli doveva venderli. Ma poiché proprio in quell’istante una ventata dirigeva nel portale una raffica d’acqua e di grandine, il barone volle farla finita, e gridando: — Se non vuol lasciare i cavalli, sbattetelo un’altra volta fuori della barriera, — scomparve.
dp n="30" folio="14" ? Il mercante, che ben s’avvide come fosse giocoforza piegarsi davanti alla violenza, si decise, poiché altro non gli rimaneva da fare, di adattarsi alla richiesta: slegò i morelli e li condusse verso la scuderia che il castaldo gli indicò. Comandò a uno dei suoi servi di rimanere lì, gli diede il denaro necessario e gli raccomandò di custodir bene gli animali fino al suo ritorno, e riprese il cammino con gli altri cavalli verso Lipsia, alla cui fiera voleva partecipare, chiedendosi se realmente era stata emanata una simile disposizione, proprio in Sassonia ove l’allevamento di cavalli cominciava a prosperare.
Giunto a Dresda, dove possedeva in un sobborgo della città una casa e una scuderia, necessarie per il suo commercio che da Il irradiava sui mercati minori del paese, si recò subito alla cancelleria privata, dove seppe dai consiglieri, alcuni dei quali conosceva da tempo, ciò di cui fin dall’inizio era convinto e cioè che quella storia del lasciapassare altro non era che una fandonia. Kohlhaas, al quale il consigliere, sebbene controvoglia, rilasciò dietro sua richiesta una dichiarazione comprovante l’infondatezza della pretesa, rideva tra sé dello scherzo fattogli dall’ossuto barone, non vedendo, tuttavia, qual motivo glielo avesse suggerito. Venduti qualche settimana dopo a ottime condizioni gli altri cavalli che aveva portato con sé, se ne tornò a Tronkenburg senza altra preoccupazione fuor di quella circa le generali difficoltà del momento.
Il castaldo, al quale egli mostrò la dichiarazione, non ristette a discutere, e alla domanda del mercante se potesse ritirare i cavalli, rispose che andasse pure a prenderseli.
Già nell’attraversar la corte Kohlhaas aveva avuto la spiacevole sorpresa di apprendere che il servo era stato bastonato e scacciato pochi giorni dopo la sua partenza, e ciò, a quanto dicevano, per il suo cattivo comportamento. Chiese al ragazzo che gli aveva raccontato la cosa che mai l’altro avesse fatto e chi nel frattempo si fosse preso cura dei cavalli: ma quegli rispose che non ne sapeva nulla, e aprì al mercante, che già un triste presentimento sentiva nascersi in cuore, la porta della scuderia in cui si trovavano i cavalli.
Quale non fu la sua meraviglia allorché vide, al posto dei suoi due cavalli grassi e lucidi, due rozze magre e ossute, che avrebbero potuto servir da attaccapanni, pelame e criniere non curati e annodati senza cura, vera immagine della miseria del regno animale!
Kohlhaas, che i cavalli avevano salutato con un nitrito, muovendosi appena, chiese fuor di sé cosa fosse successo alle due bestie; e il ragazzo che l’accompagnava rispose che esse non avevano sofferto nulla, che sempre era stata data loro una normale razione di foraggio, ma che si erano dovuti adoperare qualche po’ per la mietitura, perché scarseggiavano le bestie da tiro.
Kohlhaas imprecò contro chi si era permesso di compiere il vile e premeditato sopruso, ma, conscio della propria impotenza, nascose il suo corruccio e (poiché altro non gli rimaneva da fare) stava già per abbandonare quel nido di briganti insieme con i cavalli, quando comparve il castaldo richiamato dall’eco della discussione e chiese cosa mai succedeva.
— Cosa c’è? — ribatté Kohlhaas. — Chi ha dato il permesso al barone von Tronka e ai suoi uomini di usare dei cavalli ch’io avevo lasciato da lui per i lavori dei campi? — e chiese se quello fosse un modo umano di procedere. Dato, poi, un colpo alle bestie sfinite, per stimolarle, gli mostrò come quelle neppur si muovessero. Il castaldo, dopo essere stato qualche istante a vedere, tutto crucciato, proruppe: — Guarda un po’ che villanzone! Come se questo farabutto non dovesse ringraziare il Cielo che i cavalli sono almeno in vita! Pezzo di cretino! — E chi avrebbe dovuto prendersene cura, chiese poi, dato che il servo era fuggito? Non era forse giusto che i cavalli pagassero col lavoro dei campi almeno il foraggio che mangiavano? E concluse ribadendo che non voleva storie, e che se era necessario avrebbe chiamato i cani; per mezzo loro avrebbe saputo ben rimettere ordine nella fattoria.
Al mercante il cuore batteva contro la giubba. Provava l’irresistibile bisogno di scaraventar nella melma quell’ignobile individuo e di schiacciargli col piede quel muso da ubriacone. Ma il suo senso della giustizia, affinata come una bilancia da orafo, era ancora titubante: non era ancor certo, nel suo interiore, se i suoi avversari fossero in colpa;. e mentre, ingoiando le insolenze che aveva pronte sulla punta della lingua, si avvicinava ai cavalli e ravviava loro le criniere, riandando in silenzio gli avvenimenti, con voce più calma chiese per quale motivo fosse stato scacciato dal castello il suo servo. Il castaldo rispose: — Perché quel mascalzone si è dimostrato insolente, rifiutandosi di acconsentire a un cambiamento di scuderia resosi necessario, ed ha preteso che i cavalli di due gentiluomini venuti in visita passassero la notte sulla strada per lasciar posto alle sue bestie.
Kohlhaas avrebbe pagato volentieri una somma pari al valore dei cavalli per aver sottomano il servo e poter confrontare le sue affermazioni con quelle uscenti dalle spesse labbra del castaldo. Se ne stava ancor lì in piedi a ravviare le criniere dei cavalli, meditando cosa convenisse fare in una situazione come quella in cui si trovava, quando tutt’a un tratto la scena mutò. Il barone Venceslao von Tronka, di ritorno da una battuta alla lepre con una schiera di cavalieri, di servi e di cani, fece ingresso nel cortile. Alla sua domanda circa quanto stesse accadendo, prese subito la parola il castaldo e, mentre da un lato i cani, alla vista di uno sconosciuto, si mettevano a fare un baccano del diavolo e dall’altra i cavalieri urlavano per farli star zitti, presentò il fatto sotto i colori più odiosi, affermando che il mercante accampava mille diritti perché si era un po’ fatto lavorare i suoi cavalli; e con un sorriso di commiserazione aggiunse che quegli addirittura si rifiutava di riconoscere i cavalli come propri. Al che Kohlhaas gridò: — Sì, non sono questi i miei cavalli, signore! Non sono quei cavalli che valevano trenta scudi d’oro! Io voglio riavere i miei cavalli sani e ben nutriti!
Il barone von Tronka, impallidendo leggermente, scese di sella e disse: — Se non vuoi riprenderli, li lasci pure qui. Vieni, Günther! — E soggiunse: — Vieni, Hans! — scuotendosi con la mano la polvere dai calzoni. E poi, quand’era già sotto il portale con i cavalieri: — Portate il vino! — gridò, ed entrò in casa.
Kohlhaas dichiarò che avrebbe preferito chiamare il macellaio e far abbattere i cavalli, che portarli nella sua scuderia a Kohlhaasenbrück in quello stato; e lasciandoli nella corte così com’erano, saltò, senza più curarsene, sul suo baio, gridando che avrebbe ben saputo lui come ottenere giustizia.
Stava già correndo a spron battuto sulla via di Dresda, quando gli vennero in mente il servo e le accuse che al castello avevano mosso al suo indirizzo. Mise il cavallo al passo, e ancor prima che quello avesse percorso mille metri, ritornò indietro, dirigendosi alla volta di Kohlhaasenbrück, sembrandogli questo il partito più giusto e prudente. Perché un senso di equità, e la coscienza delle basi su cui poggia la convivenza sociale, gli suggerivano, nel caso in cui il servo, come affermava il castaldo, fosse realmente colpevole, di rassegnarsi alla perdita dei cavalli come a una giusta conseguenza. Ma, all’incontro, una sensazione non meno giusta, una sensazione che andava mettendo in lui radici sempre più profonde via via che procedeva, e udendosi in ogni posto raccontare delle ingiustizie che ogni giorno venivano commesse a Tronkenburg a danno dei viandanti, gli diceva che, se l’intera storia fosse soltanto, come tutto la faceva apparire, una macchinazione, egli aveva di fronte al mondo il dovere di chiedere con tutte le sue forze che giustizia fosse fatta per le ingiurie patite, in vista anche della futura sicurezza dei suoi concittadini.
Giunto a Kohlhaasenbrück e baciata Elisabetta, la moglie fedele, e i bambini che gli abbracciarono le ginocchia saltandogli intorno alle gambe, si informò subito di Herse, il servo, e se non avessero sentito dire nulla di lui. Elisabetta rispose: — Sì, caro Michele, quel povero Herse! Pensa che circa quindici giorni fa questo sciagurato arrivò qui malconcio che quasi quasi non gli riusciva di tirare il respiro. Lo mettemmo a letto, dove sputò continuamente sangue; e alle nostre domande ci ha raccontato una storia che nessuno di noi è riuscito a capire, secondo la quale tu lo avresti lasciato al castello di Tronka con due cavalli che non avevano avuto il permesso di transitare e che di lì sarebbe stato costretto con la forza a venirsene via senza che gli riuscisse di portare con sé le due bestie.
— Ah, sì? — fece Kohlhaas, mentre si toglieva il mantello. — E si è rimesso?
— Così così, ma sputa ancora sangue, — rispose la donna. — Avrei voluto mandar subito un altro servo a Tronkenburg perché accudisse ai cavalli fino al tuo ritorno. Ben sapendo, infatti, che Herse ha sempre detto il vero e ci è sempre stato fedele più di qualsiasi altro, non mi passò neppure per il capo di mettere in dubbio le sue affermazioni, sorrette inoltre da tante prove, e di pensare che i cavalli avessero fatto un’altra fine. Ma Herse mi scongiurò di non voler avventurare nessuno in quella tana di briganti e di rinunciare piuttosto ai cavalli se non volevo aver il rimorso di sacrificare un uomo.
— È ancora a letto? — chiese Kohlhaas levandosi dal collo la sciarpa.
— No, da qualche giorno gira già per la fattoria. Ma vedrai tu stesso come stanno le cose e come questo sia di nuovo uno di quei delitti che da un po’ di tempo vengono commessi a Tronkenburg contro gli stranieri.
— Bisognerà che esamini bene la cosa! — rispose Kohlhaas. — Fammelo venir qui, Elisabetta, se è alzato. — Con queste parole si sedette in una poltrona, e la moglie, rasserenata dal suo atteggiamento tranquillo, uscì e andò a chiamare il servo.
— Che hai fatto a Tronkenburg? — gli domandò Kohlhaas quando egli entrò con Elisabetta nella stanza. — Non sono contento di te.
Il servo, il cui pallore a queste parole si era coperto di chiazze rosse, tacque per un momento, poi rispose: — Ha ragione, padrone, perché sentendo piangere un bambino gettai nell’Elba una miccia, che a Dio piacendo avevo con me per dar fuoco a quel covo di briganti dal quale ero stato scacciato, e mi dissi: «Provveda il fulmine di Dio a incenerirlo, non tocca a me».
Kohlhaas, colpito, rispose: — Ma per quale colpa ti hanno scacciato? — Al che Herse: — È stato un tiro birbone, padrone! — e si asciugava il sudore che gli colava dalla fronte. — Ma quel che è avvenuto è avvenuto. Non volevo che ammazzassero i cavalli dalla fatica, e feci presente che essi erano ancora troppo giovani e non avvezzi al tiro.
Kohlhaas, cercando di nascondere la propria agitazione, replicò che le cose non stavano proprio a quel modo, perché la primavera precedente i cavalli erano già stati attaccati. — Là, al castello, dove eri una specie di ospite, e lo eri già stato più di una volta, avresti dovuto mostrarti più compiacente, visto che quelli avevan tanta necessità di portare presto il raccolto in granaio.
— E di fatti così feci, padrone, — rispose Herse. — Dato che mi facevano la faccia storta, pensai che ai morelli la cosa non avrebbe fatto nessun male. E al pomeriggio del terzo giorno li attaccai e trasportai tre carichi.
Kohlhaas, al quale il cuore sembrava voler uscire dal petto, fissando gli occhi al suolo replicò: — Questo non me l’hanno detto!
Herse gli diede la parola che le cose erano andate proprio così: — La mia scortesia consistette nel rifiutarmi che i cavalli venissero messi sotto il giogo anche nel pomeriggio, quando neppure avevano finito di mangiare, e nell’aver replicato, alla proposta del castaldo e del fattore, di dar loro l’erba che trovavo e di intascarmi il denaro che lei mi aveva lasciato per il foraggio, che li avrei messi a posto io; e aver loro voltato le spalle.
— Non sarai certo sta...
Indice dei contenuti
- Copertina
- Frontespizio
- INTRODUZIONE
- TESTIMONIANZE E GIUDIZI CRITICI
- CRONOLOGIA DELLA VITA E DELLE OPERE
- BIBLIOGRAFIA
- MICHAEL KOHLHAAS
- LA MARCHESA DI O***
- TERREMOTO NEL CILE