
- 140 pagine
- Italian
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eBook - ePub
Informazioni su questo libro
Controvento: ovvero il coraggio, la speranza e l'amore per la vita. Ambrogio Fogar è stato per trent'anni l'uomo delle imprese impossibili, delle traversate oceaniche e dell'avventurosa spedizione al Polo Nord, poi durante il raid Parigi-Mosca-Pechino, tutto cambia: paralizzato, è costretto a una vita di immobilità , bloccato in un letto. "Io resisto perché spero un giorno di riprendere a camminare", ha scritto Fogar in questo libro, realizzato insieme al giornalista Giangiacomo Schiavi.
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Informazioni
Print ISBN
9788817013857eBook ISBN
9788858658123I
IERI E OGGI
dp n="24" folio="24" ? dp n="25" folio="25" ?REINVENTARSI UNA VITA
Caro Fogar,
lei è un esempio, per ogni persona che soffre, a non mollare mai, perché ci deve sempre essere la speranza in un futuro anche imminente in cui la medicina possa giungere a un progresso tale da poter fornire cure che leniscano le sue sofferenze e le consentano una qualità di vita migliore. In Italia come nel mondo si spendono milioni di euro per una quantità indescrivibile di cose dannose per l’uomo e inutili, e pochissimo viene fatto per ridurre al minimo la sofferenza, o meglio ancora per condurre ricerche serie. Tutto ciò mi rende molto triste.
Massimo
Ho reinventato una vita senza voce e senza corpo, attaccato a una piccola speranza, al sogno di poter muovere un dito, una mano, toccarmi quel che resta dei baffi o grattarmi ancora il naso e sono qui a chiedere di vivere quell’attimo ai dottori e alla scienza: voglio essere una cavia, voglio mettermi ancora una volta alla prova.
Ho rinunciato per sempre a sentirmi uguale a prima, ma sono stanco di aspettare un’occasione che non viene mai. La ricerca scientifica avanza lentamente, rendere di nuovo attivo il midollo spinale tranciato è una meta lontana. Un medico mi ha detto: «Risolvere questo problema è come saldare un filo di rame con la marmellata».
Non so come sarà il vostro domani, io non ho futuro. Per questo corro contro il tempo e ho tanta fretta di arrivare. Sono un volontario della sperimentazione, un candidato alla terapia delle staminali. Da quasi tredici anni vivo tutto il male della morte nella perfetta coscienza della vita. Spero di interrompere la paralisi per completare un percorso.
Nel deserto potevo anche morire. E molti, forse, penseranno che era la cosa migliore. Senza quella dannatissima pietra nascosta dalla sabbia e dai secoli avrei gambe e muscoli per correre ancora. Potrei navigare, scalare una montagna, attraversare una foresta. Ma senza l’elicottero del soccorso vicino, senza la casualità del suo passaggio in quel drammatico istante, non sarei qui a raccontare com’è andata. Sono condannato a essere immobile. Ma il cervello funziona. Sono tetraplegico, uno di quelli che nel destino hanno pescato una vita spezzata. Una vita che è come un bicchiere, mezzo pieno o mezzo vuoto. Dipende dove si vuole guardare.
Ho imparato a non mollare in tempi lontani, quando l’energia mi aiutava a resistere in situazioni disperate. Ma questa sopravvivenza è un’impresa. La spina dorsale con i contatti interrotti non risponde a nessuna sollecitazione. È difficile rassegnarsi, passare di colpo dal movimento alla paralisi. Bisogna dominare la rabbia di non essere più come prima, non farsi travolgere dal peso dei ricordi. Accettare la fatica di una vita che impone regole diverse. Pensare che c’è ancora una finestra aperta sulla speranza. Con la speranza puoi dire: io vivrò.
Per il sorriso di mia figlia Francesca e la felicità della mia piccola Rachele, per chi mi vuole bene e per chi non mi ha dimenticato ho imparato a schivare il pensiero tremendo di lasciarmi andare, di vegetare nel niente. Con l’aiuto di tutti voglio considerarmi ancora parte del gioco dell’umanità .
Alla scienza non posso chiedere di stringere i tempi, posso soltanto dare una disponibilità a usare il mio corpo per un tentativo che mi aiuta a sperare. In fondo è stato così anche per i trapianti di cuore.
C’è sempre bisogno di credere alla riuscita di un’impresa. Io ci metto la fiducia, la voglia di guardare al di là di quello che in questi anni sono riuscito a vedere. Ho cercato tutto quello che era possibile cercare, ho trovato una generosità che non mi aspettavo, ho conosciuto persone straordinarie, ho vissuto momenti di crisi, sbandamenti, ho perso affetti e ritrovato passioni, ho litigato e fatto la pace anche con chi non mi sarei aspettato, ho conosciuto il mondo meraviglioso dei volontari, la generosità disinteressata dei giovani che si sono offerti di leggermi il giornale o voltare le pagine di un libro che non posso più sfogliare, ho meditato su errori e leggerezze, ma con i miei grandi amici sono riuscito ancora a sorridere, a soffrire per un derby, a pregare per il Papa che ogni domenica mi ha fatto compagnia dalla tv. Non è stata monotona questa vita, è stata dura, difficile, faticosa per chi mi è stato vicino. Ero abituato a fare tutto da solo, sulla solitudine scelta e non imposta ho costruito tutta la mia storia di uomo, mi bastava un niente per prendere il volo; e poi, dopo l’incidente, ho dovuto imparare a chiedere aiuto.
Mi sono allenato a non cedere, a coltivare la fiducia anche quando sembrava persa. Oggi ho scoperto di avere tanti amici che combattono la mia stessa battaglia. Gente che soffre, vecchi senza nessuno, malati di tutte le età . Vi faccio una richiesta: quando incontrate per strada qualcuno sulla carrozzella, non girate lo sguardo o, addirittura, non cambiate direzione. Fategli un sorriso, a voi non costa nulla, lui avrà la sensazione di non essere solo.
Sono stato messo fuorigioco in un secondo. Potevo costruire un distacco come fanno certi santoni orientali, che predicano la separazione del corpo dalla mente. Ho scelto di restare nel presente, immaginando un altro viaggio.
LA MOSCA AL NASO
Caro Ambrogio,
certo che devi vivere! Le gambe erano solo il mezzo, ma quelle le hanno in tanti... è la mente che ti portava alla ricerca del limite, quando l’«estremo» non era una moda mediatica, l’ennesima dimostrazione di virilità , ma la ricerca di soddisfazione per uno spirito diverso, guerriero, ribelle rispetto ai confini usuali; è la mente che ti porterà ancora per mondi che alla maggioranza di noi resteranno ignoti.
Il viaggio continuerà !
Alessio e Valentino
Per tutta la vita ho inseguito un sogno e per un sogno sono andato sempre più lontano. Oltre quel limite che trasforma il viaggio in avventura. A ogni traguardo volavo con il corpo e l’anima. Poi mi sentivo più forte, pronto a ricominciare. Mi è difficile pensare che questo sia un viaggio. Non c’è l’incoscienza del ragazzo esploratore, la passione o l’ardimento per un’impresa da raccontare. Sento il gelo della paralisi accanirsi contro di me. Però non posso urlare come nella tempesta, aggrapparmi a una roccia o inventare una rotta disperata. Devo lottare con la testa, navigare nell’incubo con la forza della ragione. Debbo accettarmi e vivere controcorrente. Anche immobile, la vita può continuare. Posso dire che i miei occhi, come quelli dei replicanti di Blade Runner, hanno visto cose incredibili. Non ho mai smesso di sperare, non potevo rinnegare me stesso. Se non riesco ad abbracciare la vita con queste mani di legno, la azzanno con i denti. L’unica forza che muove il mio cervello e sembra trascinare il mio corpo immobile è quella della vita. Chi è malato, come me, ce l’ha nascosta da qualche parte, questa forza. Lo ripeto sempre: può trovarla subito oppure soffocarla, fingendo di non avvertirla. Si ammutolirà , schiaffeggerà se stesso fino a umiliarsi, ma se la nostra anima intravede anche solo uno spiraglio di luce, quella forza troverà la sua strada per esplodere.
Immaginatemi con la mia barca nell’oceano a ridere contro il vento che scompiglia i capelli. Il mare non ha orizzonte. Oltre quella linea infinita che si vede dalla prua può esserci un’isola dove poter vivere in piena libertà . Spero di non essere condannato a navigare sempre nella paralisi, ma di arrivare un giorno in un posto meraviglioso che tutti noi abbiamo nella fantasia. Ne ho visti tanti di posti che mandavano il cuore in subbuglio, ma non mi sono mai fermato. Volevo capire lo spessore della mia forza di volontà e delle mie debolezze. Ho sempre avuto la certezza che tornando a casa ci sarebbe stato qualcuno felice di ritrovarmi, nonostante il mio desiderio di ripartire.
In mare si naviga con quella strana sensazione che la tua barca non debba mai mettere radici. Una barca è sempre pronta a riprendere il viaggio. Non importa verso dove. Oltre l’isola più bella ce n’è un’altra, e poi un’altra ancora. La vita, al contrario, ti obbliga a fermarti. A piantare un chiodo nella roccia e a non muoverti più. Nella vita spesso sei scelto. In mare scegli sempre e solo tu. Anche quando stai andando incontro a un pericolo. Non puoi fermarti, devi solo essere bravo a schivarlo.
Fin da piccolo il mare mi dava un brivido lungo la schiena. Forse era il sogno, la voglia di sfidare l’ignoto come i grandi navigatori che attraversavano l’oceano con i velieri piegati dal vento. Divoravo ogni romanzo con la speranza di vivere la stessa avventura: ce l’avrei fatta, mi dicevo, da solo, con le mie forze. Perché avventura è mettersi alla prova, esplorare i limiti estremi della volontà e del cuore. L’avventura è corpo e spirito, braccia e gambe, ma anche luoghi impervi, sconosciuti, simbolici. Capo Horn, per esempio. La convergenza tra Atlantico e Pacifico, dove i gorghi delle correnti si alzano sferzati dal vento è il luogo dove puoi imparare a governare la paura. Davanti a quel promontorio di roccia nera e invisibile, nella notte, ci sei tu e il destino che ti guarda in faccia. Se passi, capisci dove può arrivare il tuo limite.
Che cosa c’è di più bello di un tuffo nella libertà del mare, il fruscio dell’acqua sullo scafo, la prua che si apre un sentiero fra le onde? C’è sempre la groppa di qualche delfino a farti compagnia. Non ci sono semafori, telefonini, televisione. La barca è come un violino che ti culla, fiuta il vento come un segugio e ti offre il piacere di essere tu, solo tu, l’unico spettatore di una scenografia incantata.
Mi manca il mare, l’acqua agitata dell’oceano, l’alba livida che si alza dopo una notte di burrasca, la luce irreale del plancton fra i flutti. In mare mi sono guardato dentro e mi sono scoperto, prima che la tirannia degli sponsor trasformasse l’avventura in spettacolo.
Voglio essere ancora protagonista della mia vita, scavalcare con la fantasia il muro di pietra del corpo paralizzato. Posso guardarmi dentro anche qui, con il cielo dipinto sul soffitto, e usare ogni forza per non far morire la speranza. Soffro per gli abbracci che non posso dare ma sento emozioni mai provate. Succhio da chi mi vuole bene l’energia che mi manca: ho bisogno di sentirmi ancora un uomo che può aiutare altri uomini ad accettare il proprio destino. Dopo quella notte maledetta nel deserto del Turkmenistan riesco perfino a sorridere e a scacciare la disperazione. Sono diventato come un neonato che non ha nessuna autonomia, ma che ha la conoscenza della vita. Se mi chiedono «come stai?» rispondo così: sto come uno che ha la mosca al naso e non riesce a mandarla via.
CONTROVENTO E CONTROCORRENTE
Caro Ambrogio,
tu mi stavi antipatico. Troppo teatrale, troppa voglia di protagonismo. Così ti vedevo. Ma adesso no, non più. Ora sei lì che lotti contro una cosa enorme, troppo grande. Non so cosa dirti, non so nemmeno se fai bene a resistere e non arrenderti. Non so cosa farei al tuo posto.
Alessandro
Non voglio lacrime di compassione per la mia immobilità . Se così mi vedevi, amico mio, ti posso raccontare che io ho improvvisato ogni mia avventura controvento e controcorrente. Contro ogni previsione. Non ho programmato la mia vita. Non mi hanno sponsorizzato per fare il giro del mondo in solitario. Ho pagato io. Poi l’avventura è diventata la mia vita. Mi sono sentito realizzato. Ho vissuto momenti esaltanti che auguro a tutti di provare.
dp n="36" folio="36" ? Non è stata una pazzia. A viso aperto sono andato a cercarmi un’occasione. Tutti vogliamo provarci. Non sempre lo facciamo, per pigrizia, mancanza di tempo, paura di rinunciare a qualcosa.
Volevo arrivare al Polo Nord con le mie forze, attraversare il deserto di ghiaccio in solitudine per realizzare il grande sogno della mia adolescenza. Avrei dovuto essere più chiaro. Scrivere subito: la mia impresa è fallita, proseguo per gli impegni presi con gli sponsor. La verità è che non ci si rassegna alla sconfitta. Chiunque avrebbe ridato una chance a Peary, Amundsen, agli esploratori artici. Ma non a me, all’assicuratore milanese che voleva misurare le forze di un uomo comune in un’impresa che di comune non aveva nulla.
La banchisa non aveva la mia fretta, l’urgenza di passare, dire ciao, arrivederci a mai più. La banchisa ti lancia degli avvertimenti: quando sei sotto la tenda e senti quegli scoppi. Rumori infernali, a cui non ti abitui mai. Sentivo l’oceano che borbottava sotto di me. Non è come in barca, dove ti senti più sicuro, grazie a uno scafo collaudato in tempeste severe. Sulla barca puoi anche lasciarti prendere dal sonno. Sul pack no, non è possibile. Ti accucci sotto una tendina di goretex, con un forellino per sciogliere la neve, avvolto in un sacco a pelo sempre umido, mentre il freddo non smette mai di stritolarti.
Non puoi sottrarti al gelo. Puoi solo difenderti. E lo schioccare del ghiaccio che si frantuma è una sveglia che suona ogni minuto. Non dormi nel Grande Nord. Ti prepari a ripartire. Ma quando cammini su un’isola di ghiaccio puoi fare chilometri e chilometri e ritrovarti più indietro del punto di partenza. Il giorno prima avevo fatto ventiquattro chilometri. Al campo base ne risultavano tre. Stavo camminando su un’isola alla deriva. Il ghiaccio si stava spaccando.
Mi sono sopravvalutato. Ne soffro ancora o...
Indice dei contenuti
- Copertina
- Frontespizio
- Dedica
- Quando ho conosciuto Ambrogio
- I - IERI E OGGI
- II - LA LEZIONE
- III - GLI AMICI
- IV - FEDE E DESTINO
- V - DAL MARE AL DESERTO
- RINGRAZIAMENTI