FRAMMENTI DA QUADERNI E FOGLI SPARSI*
dp n="250" folio="250" ? dp n="251" folio="251" ? Tra i miei compagni di scuola* ero uno stupido, ma non il più stupido. E se, ciò nonostante, non di rado quest’ultima opinione veniva sostenuta da alcuni dei miei insegnanti di fronte ai miei genitori e a me, era solo nell’illusione di molta gente che crede di far chissà che cosa ad arrischiare simili drastici giudizi.
Che però io fossi stupido, lo si credeva in genere e sul serio, se ne avevano prove convincenti che potevano facilmente essere esibite, per esempio se si doveva informare sul mio conto un estraneo che dapprincipio aveva riportato di me un’impressione non malvagia e non lo nascondeva agli altri.
Per questo fatto mi toccava arrabbiarmi spesso ed anche piangere. Ed erano questi, a quel tempo, gli unici momenti in cui mi sentivo insicuro negli impicci presenti e sfiduciato di fronte a quelli futuri, insicuro, teoricamente sfiduciato, perché se si trattava di metter mano a un lavoro, ero subito sicuro e fiducioso, un po’, dunque, come l’attore che esce di corsa dalle quinte, ancora lontano dal centro del palcoscenico resta fermo un attimo, le mani – che so – posate sulla fronte, mentre la passione che di lì a poco sarà indispensabile è diventata in lui così forte che non la può nascondere per quanto, stringendo gli occhi, si morda le labbra. L’insicurezza attuale, a metà scomparsa, accresce la passione insorgente, e la passione rinforza l’insicurezza. Ininterrottamente si riforma una nuova insicurezza, che racchiude entrambe e noi stessi.
È per questo che mi dava fastidio far la conoscenza di nuove persone. Ero già inquieto quando qualcuno mi osservava dall’alto in basso, come da una casetta si guarda col cannocchiale al di là del lago o addirittura le montagne e semplicemente l’aria. Si udivano allora affermazioni ridicole, menzogne statistiche, errori geografici, eresie tanto inaccettabili quanto assurde, oppure competenti punti di vista politici, notevoli opinioni su avvenimenti attuali, trovate di cui complimentarsi che sorprendevano l’oratore e gli ascoltatori quasi in egual misura, e di tutto si rinnovava la dimostrazione con un lampo degli occhi, un afferrar lo spigolo del tavolo o un saltar su dalla sedia. Appena cominciavano a far così cessavano anche di scrutarti in continuazione e con severità , poiché il loro busto si chinava spontaneamente in avanti o all’indietro rispetto alla posizione abituale. Alcuni dimenticavano perfino gli abiti (piegavano le ginocchia ad angolo acuto per reggersi solo sulla punta dei piedi, oppure si premevano la giacca con tutta la forza contro il petto, spiegazzandola), altri no, molti si tenevano saldi con le dita a un paio di lenti a pinza, a un ventaglio, a una matita, a un monocolo, a una sigaretta, e quasi tutti, anche se non avevano la pelle delicata, mostravano il viso accaldato. Il loro sguardo scivolava via da noi allo stesso modo in cui cade giù un braccio sollevato.
Fui ammesso nella mia condizione naturale, ero libero di aspettare e poi stare ad ascoltare, oppure di venir via e di andare a letto, cosa di cui mi rallegravo sempre, perché, essendo timido, spesso avevo sonno. Era come una grande pausa nelle danze, in cui solo pochi si decidono ad andar via, la maggior parte resta in piedi o seduta qua e là , mentre i suonatori, a cui nessuno pensa, si ristorano da qualche parte per continuare a suonare. Solo che non c’era altrettanta calma e, poiché nella sala c’erano diversi balli contemporaneamente, non tutti osservavano necessariamente la pausa.
Tutto questo faceva sì che continuassi a sentire la mia paura, quella paura di un uomo a cui avevo dato la mano con totale indifferenza, di cui non conoscevo il nome, a meno che uno dei suoi amici l’avesse magari chiamato col suo nome di battesimo, e di fronte al quale ero pur stato seduto per ore, assolutamente tranquillo, solo un po’ spossato, come lo sono i giovani, dagli sguardi peraltro non poi così frequenti, rivolti a me soltanto da quella persona adulta.
Avevo – supponiamo – lasciato che i miei sguardi incontrassero qualche volta i suoi e, sfaccendato com’ero, poiché nessuno pretendeva niente da me, avevo tentato di guardar più lungamente i suoi buoni occhi azzurri, a meno che con ciò si abbandonasse letteralmente la compagnia. E se la cosa non era riuscita, anche così non era altro che una dimostrazione del tentativo stesso. Dunque, non ci ero riuscito; dimostrai quest’incapacità fin dall’inizio, e anche in seguito non ho saputo nasconderla neppure un momento, ma anche i piedi del pattinatore inesperto tendono ad andare ciascuno per suo conto, e tutti e due ad abbandonare il ghiaccio. Se uno altrimenti bravo... [lacuna] ed uno intelligente, che però non era né davanti, né a fianco, né dietro il mucchio, così da potersi notare subito e con facilità , era invece al centro in mezzo agli altri, per cui lo si poteva vedere solo mettendosi in un punto molto elevato, e anche allora lo si vedeva solo scomparire. In questo modo mi giudicava mio padre, che è stato un uomo molto stimato e che ha raccolto molto successo specialmente nel mondo politico del mio paese. Ho ascoltato questo giudizio per caso, un giorno in cui – avrò avuto diciassette anni – in camera, con la porta aperta, stavo leggendo un libro di storie degli indiani. Le parole, quel giorno, mi colpirono, io le tenni a mente; esse però non mi fecero la minima impressione. Come succede per lo più ai giovani, ai quali i giudizi generali che li riguardano non fanno alcun effetto. Sia infatti che essi se ne stiano ancora quieti in se stessi o che a se stessi vengano rimandati di continuo, la propria persona è per loro robusta e sonora come una banda militare. Per loro il giudizio generale ha premesse ignote, fini ignoti, per cui è impervio da ogni lato; è paragonabile al passeggiatore sull’isola al centro del laghetto senza barche né ponti: ode la musica, ma non viene udito.
Con questo non intendo però aver contestato la logica dei giovani...
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Ogni uomo è particolare* e, in virtù della sua particolarità , portato ad agire, deve però trovar gusto nella sua particolarità . Per quanto concerne la mia esperienza, sia a scuola che a casa si faceva di tutto per cancellare la particolarità . Si facilitava così l’azione dell’educazione, si facilitava, certo, anche la vita del bambino, al quale ad ogni modo toccava passare anticipatamente attraverso la sofferenza provocata dalla coercizione. Ad un ragazzo, per esempio, che la sera sia nel bel mezzo di una storia appassionante, non si riuscirà mai a far capire, ricorrendo a una dimostrazione limitata unicamente a lui, che deve interrompere la lettura e andare a letto. Se in un caso del genere a me si diceva che era già tardi, che mi rovinavo gli occhi, che la mattina dopo avrei avuto sonno e mi sarebbe costato fatica ad alzarmi, che per quella storia stupida e scadente non ne valeva la pena, io non avevo nulla da controbattere esplicitamente, ma solo perché tutto questo non arrivava nemmeno alla soglia delle cose degne di considerazione. Infatti tutto era infinito o sfumava a tal punto nell’indefinito, da potersi paragonare all’infinito: il tempo era infinito, dunque non poteva essere troppo tardi; la mia vista* era infinita, dunque non potevo rovinarmela; perfino la notte era infinita, dunque preoccuparsi perché bisognava alzarsi presto la mattina era inutile; e i libri non li distinguevo in base alla stupidità o all’intelligenza, ma alla loro capacità di avvincermi o no, e quello mi avvinceva. Tutto ciò non sapevo dirlo in questo modo, ma faceva egualmente sì che io, con le mie richieste di ottenere il permesso di continuare a leggere, molestassi tutti, oppure che mi decidessi a continuare a leggere anche senza permesso. Quella era la mia particolarità . La si soffocava girando la chiavetta del gas e lasciandomi senza luce; come spiegazione si diceva: tutti vanno a dormire, quindi devi andare a dormire anche tu. Questo era chiaro, ed ero costretto a crederci, per quanto fosse inconcepibile. Nessuno vorrebbe introdurre tante riforme come i bambini. Ma, prescindendo dal fatto che quella repressione fosse sotto certi aspetti ammissibile, restava nel mio caso, come quasi in tutti, una spina che nessun richiamo alla generalità era capace anche solo di smussare. Rimanevo infatti nella convinzione che precisamente quella sera a nessuno al mondo piacesse leggere quanto a me.**
Non era cosa che per il momento si potesse controbattere con un richiamo alla generalità , tanto più che mi rendevo conto di come non si credesse a quella mia irresistibile voglia di leggere. Solo poco a poco e molto tempo dopo, quando forse quella voglia si era ormai affievolita, si fece strada in me qualcosa di simile alla convinzione che la medesima voglia di leggere fosse comune a molti, e che costoro tuttavia si dominavano. A quel tempo però avvertivo solo il torto che mi veniva fatto, andavo a letto triste, e così cominciarono a svilupparsi i semi di quell’odio che avrebbe determinato sotto un certo aspetto la mia vita in famiglia e, a partire di lì, la mia intera vita. La proibizione di leggere è solo un esempio, ma indicativo; questa proibizione infatti agì in profondità . Non si prendeva atto della mia particolarità ; ma, poiché io la sentivo, non potevo fare a meno – in ciò molto sensibile e sempre in guardia –di riconoscere in quella condotta una condanna nei miei confronti. Ma se si condannava la particolarità esibita apertamente, quanto più riprovevoli dovevano essere le particolarità che tenevo nascoste, perché io stesso vi riconoscevo un piccolo torto. Avevo, per esempio, letto la sera, sebbene non avessi ancora imparato la lezione per il giorno dopo. Questo poteva anche essere, in quanto trascuratezza dei miei doveri,* qualcosa di molto grave, ma per me non era in gioco un giudizio assoluto, a me importava solo un giudizio comparativo.
Per un simile giudizio, allora, la mia negligenza non era certo più grave del leggere in se stesso, tanto più che le sue conseguenze erano molto ridotte dalla gran paura che avevo della scuola e delle autorità ; ciò che per la lettura ogni tanto trascuravo, lo recuperavo facilmente la mattina oppure a scuola grazie alla mia memoria a quel tempo ottima. La cosa principale, però, era che la condanna subita dalla mia particolarità di stare tanto tempo a leggere, adesso io continuavo ad applicarla con mezzi propri alla particolarità tenuta nascosta di trascurare i compiti, e così arrivavo al più deprimente dei risultati. Era come se, da una verga che non deve provocare dolore, uno fosse sfiorato solo per ammonimento, ne sciogliesse l’intreccio, conficcasse in sé le singole punte della verga e, seguendo un suo piano personale, cominciasse a pungere e a graffiare dentro di sé, mentre la mano estranea continua tranquillamente a impugnare il manico della verga. Sebbene, in casi simili, a quel tempo non mi infliggessi ancora punizioni gravi, è comunque sicuro che dalle mie particolarità io non ho mai tratto quell’autentico profitto che alla fine si manifesta in una duratura fiducia in se stessi. Al contrario, la conseguenza dell’aver esibito una particolarità era che odiassi l’oppressore o che riconoscessi inesistente la particolarità : due conseguenze che, ipocritamente, potevano anche collegarsi. Se poi tenevo nascosta una mia particolarità , la conseguenza era allora che odiavo me stesso o il mio destino, che mi consideravo cattivo o condannato. Il rapporto fra questi due gruppi di particolarità è molto cambiato, esteriormente, nel corso degli anni. Le particolarità esibite sono divenute sempre più numerose man mano che mi avvicinavo alla vita a me accessibile. Non me ne è però venuta affatto una liberazione; la massa di ciò che stava nascosto non è diminuita per questo; a un’osservazione più sottile è risultato che mai si sarebbe potuto confessare tutto, perfino delle confessioni apparentemente complete rese in tempi precedenti si notava in seguito, nell’intimo, ancora, la radice. Ma anche se così non fosse stato, nell’allentarsi dell’intera organizzazione psichica da me subita senza interruzioni decisive, bastava una particolarità nascosta per sconvolgermi in modo tale, a dispetto di tutto l’adattamento altrimenti raggiunto, da non poter trovare altrove alcun appiglio. Ma c’è di peggio. Perfino se non mi fossi tenuto per me alcun segreto e avessi invece gettato tutto fuori di me a una distanza tale da restarmene assolutamente puro, un momento dopo sarebbe di nuovo traboccato l’antico disordine, perché avrei pensato che il segreto non fosse stato riconosciuto e valutato appieno, e di conseguenza esso mi sarebbe stato reso e nuovamente imposto ad opera della collettività . Questo non era un inganno, ma semplicemente una particolare forma assunta dalla consapevolezza che, per lo meno tra i viventi, nessuno può sbarazzarsi di se stesso. Se, per esempio, uno confessa a un amico di essere avaro, di fronte all’amico, dunque a un giudice autorevole, per il momento si è apparentemente liberato dell’avarizia. Per quel momento è anche indifferente come l’amico prenda tale confessione, se cioè egli neghi che vi sia avarizia, se dia consigli su come liberarsi dell’avarizia o se addirittura difenda l’avarizia. Forse non sarebbe decisivo neppure che l’amico, in seguito alla confessione, possa troncare l’amicizia. Decisivo è piuttosto il fatto che, come peccatori magari non pentiti ma onesti, si confidi il proprio segreto alla collettività e si speri in tal modo di aver riconquistato la buona e – ciò che più conta – libera fanciullezza. Solo una breve follia e molta successiva amarezza sono invece quanto ci siamo conquistati. Giace infatti sopra il tavolo, tra l’avaro e l’amico, il denaro che l’avaro non può fare a meno di tirare a sé e verso cui stende sempre più rapido la mano. A metà strada la confessione agisce, certo, sempre meno, però è ancora liberatoria; oltre la metà , invece, essa cessa di esserlo, si limita a gettar luce sulla mano che avanza. Confessioni efficaci sono possibili solo prima o dopo l’azione; l’azione fa piazza pulita intorno a sé; per la mano che ammucchia il denaro non c’è riscatto tramite la parola o il pentimento: o è l’azione, cioè la mano, a dover essere annientata, oppure bisogna che noi nell’avarizia [...]
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Il male che a semicerchio ti circonda come il sopracciglio l’occhio, riducilo con il tuo raggio fino all’inattività . Che esso vegli su di te, mentre dormi, senza poter avanzare neppure di pochissimo.
1) Il pensiero giudicante emerse tormentoso attraverso le sofferenze, accrescendo il tormento e senza servire a nulla. Come se nella casa che stava finendo di bruciare ci si ponesse per la prima volta il problema strutturale della sua architettura.
2) Morire sapevo, sopportare sofferenze no; coi tentativi di sottrarmi ad esse le accrescevo notevolmente; a morire potevo adattarmi, a soffrire no, mi mancava il movimento dell’anima, come quando tutto è stato messo nelle valigie, tormentosamente si stringono ancora una volta le cinghie già strette, e la partenza non ha luogo. La cosa più terribile, le sofferenze non mortali.
Il pozzo profondo. Ci vogliono anni perché il secchio venga su, e in un istante piomba giù, più in fretta di quanto tu riesca a sporgerti; credi ancora di reggerlo tra le mani e già senti il tonfo giù nel fondo, anzi, non lo senti neppure.
Il settimo giorno lui si riposa; allora noi riempiamo la terra...
Ci sono molti, qui, che aspettano. Una moltitudine sterminata che si perde nel buio. Cosa vuole? Sono evidentemente richieste precise, quelle che avanza. Ascolterò le richieste e poi risponderò. Sul balcone però non uscirò; non potrei, anche se lo volessi. In inverno la porta del balcone viene sbarrata e la chiave non è a portata di mano. Ma non mi avvicinerò neppure alla finestra. Non voglio vedere nessuno, non voglio farmi confondere dalla vista di alcunché; alla scrivania, lì è il mio posto, la testa fra le mani, quella è la mia posizione.
C’è una porta in casa mia a cui finora non avevo fatto attenzione. Si trova in camera da letto, nel muro che confina con...