
- 336 pagine
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Informazioni su questo libro
La storia della Brigata di cavalleria leggera di Sua Maestà Britannica e dei suoi cavalleggeri mandati ottusamente a morire e a coprirsi di gloria nella Valle della Morte durante la guerra di Crimea (1854-55), fra inglesi, francesi, italiani (i bersaglieri di La Marmora), turchi e russi. Ancor oggi l'impresa di Balaclava, la carica dei 600 contro le imprendibili batterie di cannoni russe, al termine della quale rimasero sul terreno 247 uomini tra morti e feriti, è ricordata da alcuni come un atto di fulgido eroismo, da altri come un inutile massacro.
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Informazioni
CAPITOLO VIII

La cavalleria da sempre si è considerata socialmente superiore al resto dell’esercito inglese. È sempre stata l’arma più dispendiosa, la più aristocratica, la più magnifica. Esentata dai doveri più ingrati della guerra, dalle marce, dai lenti accerchiamenti, dalle ritirate conquistate dolorosamente palmo a palmo, aveva conservato l’orgoglio primitivo dell’uomo che va a cavallo mentre tutti gli altri procedono faticosamente nella polvere.
La superiorità della cavalleria fu una dottrina data a lungo per scontata dagli alti gradi dell’esercito inglese e fino a tempi recenti un gran numero di generali dell’esercito, a volte la maggioranza, veniva dalla cavalleria. E tuttavia la cavalleria britannica era stata raramente vittoriosa: il duca di Wellington notò che le cavallerie degli altri paesi europei avevano vinto delle battaglie, mentre la sua l’aveva invariabilmente messo nei pasticci. Gronow annota l’opinione di Excelmann, il famoso comandante di cavalleria francese:
“I vostri cavalli sono i più belli del mondo e i vostri uomini montano meglio di qualsiasi soldato continentale; con materiale simile la cavalleria inglese avrebbe dovuto fare ben di più di quello che ha fatto finora sui campi di battaglia. Il grande difetto sta negli ufficiali... l’ufficiale di cavalleria inglese sembra esser preda della certezza di poter balzare al volo su qualsiasi cosa gli si pari davanti, come se far la guerra fosse lo stesso che andare alla caccia alla volpe”.
Il fulgore degli ufficiali di cavalleria inglesi non fu mai più grande di quando iniziò la guerra di Crimea nella primavera del 1854. Quegli aristocratici cavalieri erano, secondo le espressioni correnti, “degli elegantoni terribili”, dei “giocatori”, affettavano di regola una noia sottile, facevano un gran sbadigliare, parlavano in gergo pronunciando la “r” come fosse stata una “u” e dicevano “davveuo” e “geneuale”, intercalando frequentemente con rumorose esclamazioni prive di significato, come “Oh, oh”. Gli ampi basettoni, la voce languida, la vita sottile stretta dalle stringhe del busto, il grosso sigaro sempre in bocca, erano elementi irresistibili, ammirati pazzamente e pazzamente invidiati. Montavano animali magnifici e i cavalli erano la loro grande passione: cavalcavano come veri diavoli e la fiducia che avevano nelle loro capacità di sconfiggere facilmente qualsiasi nemico era assoluta. Gli ufficiali di cavalleria andavano dicendo nei salotti di Londra che la fanteria nella campagna di Crimea era del tutto superflua e che sarebbe stata solo una palla al piede, quindi era meglio lasciarla a casa.
L’ingrata verità era che erano completamente ignari dell’arte della guerra e non avevano esperienza, né preparazione, né reali capacità. In tutto il corpo di spedizione britannico che salpò nella primavera del 1854 i requisiti richiesti per i posti di comando erano solo il rango, il prestigio sociale, il privilegio.
“Buon Dio!” scriveva Lord Wolseley. “In che mani erano l’unico esercito che l’Inghilterra avesse, il suo onore e la sua reputazione! I generali, come pure gli ufficiali dello Stato Maggiore, erano in gran parte incompetenti e del tutto inutili; molti erano veri e propri fannulloni alla moda che conoscevano la guerra tanto quanto il calcolo differenziale. Quasi nessuno degli ufficiali era stato militarmente addestrato e quelli dello Stato Maggiore, che si erano assicurati la nomina attraverso conoscenze di famiglia e intrighi politici, erano del tutto inadeguati ai loro compiti... Io non avrei affidato loro nemmeno un picchetto di graduati sul campo. Se fossero stati soldati semplici penso che a nessun colonnello sarebbe mai venuto in mente di promuoverli caporali”.
Questo stato di cose era nato per una ragione precisa: l’esercito britannico pagava allora il prezzo del supremo genio militare del duca di Wellington. Il duca era stato un aristocratico, un Tory reazionario, un gran sostenitore del sistema dell’acquisto dei gradi e dei privilegi dovuti al rango. Per esempio, si era sempre attenuto alla regola che avrebbe poi attirato sulla testa di Lord Raglan i fulmini parlamentari: quando si trattava di concedere decorazioni o menzioni raccomandava soltanto ufficiali dello Stato Maggiore imparentati con l’aristocrazia, scavalcando gli ufficiali dei reggimenti, che erano di solito di classe meno elevata, anche se erano loro che si erano battuti. Ma il fatto fondamentale era che il duca era un genio militare, forse il più grande della storia, insuperato come organizzatore e per di più con una forza di carattere e un carisma ancora maggiori delle sue qualità di stratega. Sotto la guida del duca il sistema aveva funzionato, ma lui era morto nel 1852 e l’esercito britannico doveva ora sperimentare cosa significasse combattere conservando il sistema senza il duca.
Il paese sembrava credere che il duca fosse ancora lì a proteggerlo. Gli alti ufficiali al comando dell’esercito erano stati allevati all’ombra del duca: Lord Hardinge, Comandante in Capo in patria e Lord Raglan, Comandante in Capo del corpo di spedizione, erano tra i suoi amici più intimi e per questa ragione il loro operato fu accettato dal popolo con cieca, infantile fiducia. Il mantello di Wellington li proteggeva e non potevano commettere errori. Purtroppo, però, i discepoli del duca si dimostrarono clamorosamente diversi da lui in questioni che avrebbero richiesto la massima attenzione, come la cura dei particolari, il controllo minuzioso delle navi per il trasporto delle truppe e dei sistemi di rifornimento, insomma nella capacità di risolvere gli infiniti problemi che sempre assillano il comandante di un esercito. Eroi di battaglie combattute tanti anni prima, protagonisti di un’epoca ormai morta, i generali inglesi affrontarono le infinite complicazioni del comando supremo data la loro età con una fiacchezza comprensibile. Le difficoltà parvero loro troppo grandi, i rifornimenti furono ignorati, i servizi segreti pure, i trasporti furono lasciati al caso, cosicché, come tanto spesso accadde nella storia dell’esercito britannico, tutto il peso della guerra ricadde sulle note, straordinarie capacità delle truppe. La loro qualità avrebbe compensato le altre carenze. I soldati erano magnifici, gli ufficiali coraggiosi fino ad essere temerari e “avrebbero calpestato i russi come erba”. “I nostri uomini”, scriveva un tenente dell’8° Ussari, “sono fantastici ed è un privilegio combattere con loro: se anche l’esercito nemico fosse il doppio o il triplo del nostro, noi l’annienteremmo”.
Fu in questo stato d’animo assetato di gloria militare, pieno di fiducia e di eccitazione, che l’esercito britannico s’imbarcò per andare alla guerra, proprio come se stesse andando alla caccia alla volpe,
L’imbarco parve la partenza per un picnic: gli ufficiali prendevano con sé la moglie, alcuni la madre e c’erano parecchie spose di fresco. Lady Errol, moglie di Lord Errol, capitano della Brigata Fucilieri, si fece accompagnare dalla cameriera francese e salì sulla nave indossando un vestito con lo strascico e una corta giacchetta a coda di rondine con file di bottoni sfavillanti. Durante la campagna aveva ottenuto il permesso di dividere la tenda col marito, ma si scoprì che c’era un solo letto. Dopo inetti anni uno dei suoi nipoti le chiese se il letto era comodo e lei rispose: “Non l’ho mai saputo, mio caro, perché il letto lo tenne Sua Signoria ed io dormii per terra”. Il capitano Duberly dell’8° Ussari era accompagnato dalla sua vivace e coraggiosa moglie, una splendida amazzone che volle portare con sé il cavallo preferito. “Era tutto una tale avventura”, scrisse. Su per i fianchi delle navi trasporto venivano issati casse di vino, cesti di frutta di serra, bouquets di fiori e la speranza generale era che ai russi fosse dato di avere almeno un piccolo assaggio del livello dell’esercito inglese; purtroppo, però, si riteneva probabile una rapida conclusione delle ostilità. Tutti dicevano che il soldato russo non era un gran combattente, che doveva essere spinto a viva forza sul campo dagli ufficiali sotto la minaccia delle armi, che era armato come un pezzente e anche che in molti casi i fucili russi erano finti.
Chiunque avesse guardato le cose in modo obiettivo, tuttavia, avrebbe visto subito che i preparativi, specie nel caso della cavalleria, erano inadeguati. Il trasporto dei cavalli, per esempio, presentava gravi difficoltà perché questi, non essendo abituati al mare, si innervosiscono e soffrono molto per le limitazioni imposte loro dalla traversata: la soluzione più ovvia sarebbe stata quella di far viaggiare la cavalleria su navi a vapore che però, non essendo ancora molto diffuse, era difficile raccogliere in numero sufficiente. Si decise quindi di servirsi di navi a vela, quattro o cinque per ogni reggimento, ma, mentre i vapori avrebbero raggiunto l’oriente in dieci o dodici giorni, i velieri ce ne mettevano sessanta o settanta e sarebbe stato quindi più vantaggioso trattenere la cavalleria in Inghilterra fino a che non si fosse raccolto un numero sufficiente di navi a vapore. Inoltre le scuderie improvvisate sui velieri erano anguste, soffocanti e sudice, tanto che la signora Duberly quando scese nella stiva a vedere il suo cavallo scoppiò a piangere. Non si era provveduto a fissare gli animali, c’erano solo corde per la testa e quando nel golfo di Biscaglia soffiarono venti fortissimi i cavalli dovettero affrontare un vero e proprio martirio. Il 12 maggio il tenente Seager scriveva dal veliero Henry Wilson:
“Ogni soldato stava in piedi vicino al suo cavallo e certi avevano una tale nausea che non riuscivano quasi a star ritti e quel che si vide sotto coperta per tutta la durata del viaggio fu così spaventoso che spero di non vederlo mai più in vita mia. Mentre il vascello rollava da un fianco all’altro, i cavalli, completamente terrorizzati, venivano scaraventati in avanti contro le mangiatoie e il fragore degli zoccoli sul piancito, con i nitriti misti alle urla degli uomini che tentavano di calmarli, era qualcosa di tremendo. I cavalli crollavano uno dopo l’altro e appena ne veniva rimesso in piedi uno con grande difficoltà e pericolo, ne crollavano altri. Alcuni erano in posizione molto critica, col corpo disteso sotto gli zoccoli degli altri che scalciavano e cozzavano e toglierli da quella posizione era cosa difficile e molto pericolosa. I nostri uomini lavoravano con destrezza, abilmente assistiti dai marinai. Spero di non vedere mai più una scena simile: 85 cavalli pazzi di terrore, che tentavano di liberarsi dalle pastoie e, anzi, mi meraviglio che non ci riuscissero perché quando la nave si appoggiava su un fianco tutti i 43 cavalli che erano sull’altro balzavano avanti simultaneamente con tutta la loro forza contro le mangiatoie e questo si ripeté ogni cinque minuti per tutta la notte”.
Nel Mediterraneo c’era un caldo innaturale per la stagione in atto e parecchi cavalli impazzirono per l’afa e dovettero essere abbattuti: così morì anche quello della signora Duberly.
Frattanto il conte di Cardigan, col permesso di Lord Hardinge, si dirigeva sui luoghi della guerra viaggiando con mezzi propri. Accompagnato da un aiutante di campo, lasciò Londra per Parigi l’8 maggio, il 10 offrì un pranzo al Café de Paris, l’11 fu ricevuto da Napoleone III e dall’imperatrice Eugenia alle Tuileries e il 16 salpò da Marsiglia su un vapore francese. Il 21 maggio arrivò al Pireo, passò due giorni ad Atene da turista, il 24 maggio gettò l’ancora al largo della base inglese di Scutari e scese a ter...
Indice dei contenuti
- Copertina
- Frontespizio
- Dedica
- NOTA DI RINGRAZIAMENTO
- CAPITOLO I
- CAPITOLO II
- CAPITOLO III
- CAPITOLO IV
- CAPITOLO V
- CAPITOLO VI
- CAPITOLO VII
- CAPITOLO VIII
- CAPITOLO IX
- CAPITOLO X
- CAPITOLO XI
- CAPITOLO XII
- CAPITOLO XIII
- CAPITOLO XIV
- BIBLIOGRAFIA