Samba pour la France
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Samba pour la France

  1. 268 pagine
  2. Italian
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  4. Disponibile su iOS e Android
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Samba pour la France

Informazioni su questo libro

Corri, Samba, corri! Gli diceva così, suo zio, quando giocavano insieme a far volare l'aquilone e vivevano ancora sotto il cielo rovente dell'Africa. Ma ormai Samba non vive più in Mali. Da più di dieci anni la sua casa è Parigi. Per arrivare in Francia, in cerca di un riscatto e di un sogno, ha visto morire altri disgraziati come lui, ha avuto in bocca la sabbia ruvida del deserto, si è lacerato le mani sui confini spinati dell'Europa. Per poterci rimanere ha stretto i denti, lavorato duro, lottato ogni minuto contro la sensazione strisciante e ostinata di inadeguatezza che gli faceva abbassare gli occhi. Manca poco al traguardo, e un mattino decide di andare in questura a chiedere notizie della sua carta di soggiorno. Quello stesso mattino la Francia decide che di lui non vuole più saperne: lo arrestano su due piedi, lo rinchiudono nel Centro di detenzione di Vincennes, e d'improvviso Samba Cissé diventa un irregolare, un clandestino. E deve ritornare a correre. Per sfuggire la polizia, la povertà, le parole insensate della burocrazia, l'amarezza che gli si pianta in gola. Per riconquistare un posto nel mondo, un'identità, un nome, e sopravvivere all'ingiustizia. Tra lungosenna inondati di luce, scantinati freddi, vetrate da pulire sfiorando il cielo, sogni infranti, amicizie speciali, e un amore proibito, Delphine Coulin ci regala una commedia sociale agrodolce, poetica e implacabile, che potrebbe essere una storia vera e senza dubbio è un canto al coraggio di rimanere liberi.

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Informazioni

Editore
RIZZOLI
Anno
2015
Print ISBN
9788817080286
eBook ISBN
9788858633151

1

Forse era la fine. Il furgone filava a tutta velocità sul lungosenna e lui non aveva idea di dove lo stessero portando. C’era qualcosa che picchiava e sbatteva sul tubo di scappamento senza che nessuno potesse farci niente, e a ogni incrocio la sirena urlava. Un raggio di sole ha fatto scintillare le manette che gli stringevano i polsi. Le parole non erano servite.
Era stato arrestato dalla polizia pur non avendo fatto nulla di male.
Quel giorno Samba si era presentato davanti alla questura alle sei e mezzo del mattino. Aveva aspettato per più di quattro ore in piedi, all’aperto, dietro le sbarre grigie, poi dentro, nell’atrio, spostando il peso da un piede all’altro come fanno i cavalli per non affaticare troppo le zampe. Uomini e donne di tutti i Paesi erano in fila come lui, sotto il sole che a poco a poco saliva. Si sarebbe detto che in quel luglio di inizio millennio il mondo intero si fosse dato appuntamento in quella stradina storica del centro di Parigi. Quando arrivava il loro turno entravano da una delle porte che avevano di fronte e non li si vedeva più uscire, come se venissero inghiottiti.
Passo dopo passo, si avvicinava alla porta oltre la quale avrebbe ottenuto la risposta che aspettava già da cinque mesi, senza contare i dieci anni precedenti. Cinque mesi e dieci anni in cui gli sembrava di non aver mai smesso di aspettare, e poi di camminare, dieci anni e cinque mesi a mettere un piede davanti all’altro, ostinatamente, lungo una strada che era partita da casa sua, quando nel chiarore fragile dell’alba si era allontanato, mentre le sue due sorelle dormivano ancora, e quando, sentendosi gli occhi della madre sulla schiena, aveva cercato di farsi più alto, più sicuro, più fiero. Una camminata che forse finalmente si sarebbe fermata lì, alla questura di Parigi. Viveva in Francia da più di dieci anni, quindi aveva fatto le pratiche per ottenere la carta di soggiorno. Veniva per sapere se la sua richiesta era stata accolta.
Da più di dieci anni non vedeva sua madre.
Pensava a quei dieci anni e a quei cinque mesi, e alle settimane di viaggio che li avevano preceduti, durante le quali più volte aveva rischiato di morire e altri erano morti al suo posto sulla terra africana, sulla sabbia del deserto o sull’asfalto delle città europee. Vedeva quel periodo come una camminata silenziosa, fatta di speranze, con il cuore che si lasciava trasportare e la vita che d’improvviso accelerava e diventava più leggera, come quando ci si lancia giù per una discesa e a forza di correre i piedi vanno a zigzag. Fino a quando poi arrivavano brutali le delusioni, che lo annientavano prima della speranza successiva. A quel punto si risollevava, proteso verso il cielo, solido, sicuro, e si rimetteva in marcia, fingendo di dimenticare l’attesa, tornando a credere che in Francia se la sarebbe cavata, fino a che la sventura lo colpiva di nuovo e lo buttava giù, e fino a che poi, ancora una volta, pensava di poter prendere in mano il suo destino e decidere della propria vita. Quando era arrivato da suo zio, a Parigi, si era detto che se era giunto fin lì era per capire finalmente perché fosse venuto al mondo. Ogni volta che era preso dallo sconforto, suo zio scuoteva dolcemente la testa per fargli coraggio, guardandolo fisso negli occhi come se gli leggesse nel pensiero.
Ancora non sapeva che il viaggio eroico che aveva portato a termine sarebbe stato in fin dei conti meno faticoso di tutto ciò che avrebbe vissuto una volta arrivato in Francia.
Avanzava passo dopo passo, come quelli che lo precedevano, al ritmo della porta che si apriva e richiudeva, quando all’improvviso, proprio davanti a lui, un bambino ha bloccato lo scorrere della fila. Non voleva più muoversi. La madre ha rivolto un sorriso imbarazzato a quelli che aspettavano, poi uno sguardo angosciato ai numeri rossi che indicavano l’ordine di chiamata, presa dalla paura di perdere il turno. Il bambino stava piantando una grana. Con dolcezza gli ha sussurrato qualcosa all’orecchio, ma il figlio, che non dimostrava più di quattro anni, ha cominciato a piagnucolare e a dimenarsi come un pazzo nel suo maglione rosso troppo grande, che altri dovevano avere indossato prima di lui. Voleva fare pipì. Samba ha detto alla madre che poteva tenerle il posto. Lei gli ha sorriso e si è avvicinata fiduciosa alla guardia appostata all’ingresso. Lui le ha fatto un cenno con la testa. Allora la donna, con un’espressione tesa in volto, ha accompagnato fuori il piccolo. Appena ha fatto per tirargli giù i pantaloni, sul marciapiede, sotto il sole e davanti a quelli che stavano in fila, il bambino è scoppiato a piangere ancora più forte. A guardarli c’erano un’ottantina di persone. Il bambino si ribellava stringendo con tutte le sue forze la cintura dei pantaloni. La madre si è arrabbiata, era stanca, aveva fretta ed era a disagio, così al centro dell’attenzione, e poi era preoccupata di perdere il suo turno, visto che di certo aspettava anche lei, esasperata, una risposta dal questore. Ha tirato giù i pantaloni al figlio, in mezzo alla strada, con gesti autoritari e scomposti, e il piccolo ha cacciato un urlo stridulo, di vergogna e rabbia. Si è messo a biascicare e a piangere mentre lei gli diceva di farla nel canale di scolo e che tutti lo stavano guardando, chi divertendosi, chi con compassione, chi con fastidio. Samba è avanzato più lentamente verso la porta dalla quale si entrava ma non si usciva. Il bambino cercava di tirarsi su i pantaloni e strillava dicendo che non voleva più farla. La madre gli ha afferrato il pisellino, un piccolo dito grassottello, lo ha scrollato e gli ha detto di spicciarsi; così alla fine qualche goccia di pipì ha innaffiato il marciapiede della questura. Gli occhi del mondo in tutta la sua varietà erano puntati su un bambino che la faceva in mezzo alla strada, suo malgrado, sul suolo francese.
Samba Cissé ha tirato un sospiro di sollievo. La madre, ringraziandolo, ha ripreso il suo posto. Lui ha strizzato l’occhio al bambino, che però si è nascosto la faccia dietro il gomito, umiliato. Sembrava ancora più piccolo. La donna lo ha tirato per un braccio: toccava a loro.
Li ha visti sparire.
È stato felice quando è comparso il suo numero, anche se avvertiva una certa tensione all’altezza dello stomaco. Si è avvicinato alla porta e ha bussato. Una voce gli ha ordinato di entrare.
La stanza, buia, aveva il soffitto decorato da un brutto cielo. Samba si è seduto goffamente sulla sedia, di fronte all’uomo che non lo guardava e teneva gli occhi inchiodati al monitor; alle sue spalle c’era un ritratto del presidente della repubblica, che invece sembrava non staccargli gli occhi di dosso. Disorientato, Samba Cissé ha spiegato che aveva fatto una prima domanda per ottenere il permesso di soggiorno dieci anni prima, quando era arrivato in Francia.
All’epoca gli avevano dato un’autorizzazione provvisoria di soggiorno. Ha mostrato con fierezza il quadrato di cartone con tanto di fiotografia dal quale non si separava mai.
L’uomo non l’ha degnato di un’occhiata. Pareva non essersi accorto che Samba stesse parlando.
Allora lui gli ha allungato la ricevuta di consegna della sua pratica, ottenuta cinque mesi prima.
L’uomo l’ha presa e ha letto:
Samba Cissé, nato il 16/02/1980 a Bamako, Mali.
Entrato in Francia il 10/01/1999.
Richiesta registrata il 01/02/2009.
Samba ha spiegato che non soltanto viveva in Francia da più di dieci anni, ma che da quasi altrettanti lavorava e pagava le tasse. Il solo fatto di dirlo rafforzava la sua convinzione: stava per ottenere la carta di soggiorno perché finalmente era in possesso di tutti i requisiti richiesti.
L’uomo ha aggrottato le sopracciglia, che erano molto lunghe, quasi quanto un paio di baffi, e lo facevano assomigliare a un fox-terrier. Ha tossicchiato. Il pulviscolo accumulato sugli schedari è svolazzato davanti alla luce bluastra dello schermo del computer.
Samba aveva caldo. Dopo cinque mesi non aveva ancora ricevuto risposta ed era lì solamente per sapere se qualcuno avesse avuto tempo di prendere in mano la sua pratica. E poi la madre gli aveva chiesto di andarla a trovare in Mali perché era malata e, vero o falso che fosse, se lo diceva era perché aveva davvero bisogno di vederlo. Si ingarbugliava cercando di dare spiegazioni, sapendo perfettamente che di quelle faccende il funzionario se ne infischiava. Ci ha riprovato. Era venuto a chiedere se poteva avere un qualche titolo di soggiorno che gli consentisse di uscire dal Paese e, soprattutto, di rientrarci. Quasi si scusava. D’un tratto non sapeva più che cosa ci facesse lì. La sedia era appiccicosa, lo stomaco gli brontolava e le frasi che gli uscivano di bocca sembravano insensate, mentre le sciorinava a tutta velocità al tizio baffuto che nel frattempo picchiettava con impazienza sulla scrivania guardando il monitor davanti a sé, come se a parlare fosse il computer.
C’è stato un momento di silenzio. A quel punto l’agente si è voltato verso di lui: «Vedo che una risposta l’ha ricevuta».
Sorpreso, Samba ha detto che no, non aveva ricevuto nulla, e subito si è raddrizzato sulla sedia. L’agente ha dato un’occhiata al monitor, poi l’ha guardato con un’aria strana.
«Sì, invece. Lo vedo qui. Ha ricevuto una risposta dalla questura due mesi fa.»
«Deve esserci un errore» ha detto lui, contorcendosi sulla sedia.
L’agente gli ha chiesto il passaporto.
Samba lo ha tirato fuori dalla tasca della camicia e gliel’ha dato.
Sulla prima pagina c’era la sua foto e sotto di nuovo il suo nome, Samba Cissé. Era fiero di quel nome, che era stato scelto da suo padre e che fischiava come il vento.
«Bene» ha detto l’agente con un’aria soddisfatta.
Questa volta l’ha guardato dritto in faccia, attentamente, per confrontare la foto del passaporto con il suo viso, poi gli ha detto di andarsi ad accomodare in sala d’attesa. Samba è ripassato davanti alla fila di persone che aveva lasciato solo cinque minuti prima, chiedendosi un po’ confusamente come mai facessero aspettare tutta quella gente in piedi, se c’era una sala d’attesa.
Le tende erano impregnate di polvere e disagio. Su un tavolo basso di vetro fumé c’erano delle riviste con in copertina, di nuovo, la faccia del presidente della repubblica, che aveva lo stesso sguardo della foto appesa sopra il piccoletto baffuto.
L’agente è tornato con il suo capo. Samba Cissé si è voltato per guardarlo bene: il capo non aveva i baffi, ma gli assomigliava. Vedendoli l’uno accanto all’altro ha pensato che, se quelli in fila erano l’incarnazione della disgrazia, i due poliziotti erano l’autorità scorbutica fatta persona.
Hanno chiuso le porte e Samba è stato interrogato. Il capo gli ha spiegato che lo avrebbero arrestato, mentre l’altro gli stava già infilando le manette.
Samba ha protestato. Sulle prime non poteva crederci. Era venuto in questura in buona fede, era scorretto che se ne approfittassero per arrestarlo. Si trattava di un colossale errore, sarebbe stato sufficiente dargli modo di chiarire. Ma era come se i due non lo sentissero. Non hanno replicato, i loro volti si sono chiusi come quelli di chi non sente e non vede, mentre lui parlava sempre più in fretta, gesticolava sempre più vistosamente, senza che le sue parole sortissero effetto.
Era come se non parlassero la stessa lingua.
La chiusura delle manette è scattata.
Ha provato a chiedere aiuto, si è dimenato, ha picchiato sulla porta, ha parlato e gridato e urlato, invano.
Prima di portarlo via, il baffuto e l’altro lo hanno bloccato con del nastro adesivo, stretta al gomito, ginocchio sulla gola.
Quando è passato, con le manette ai polsi, davanti alla fila di persone che aspettavano di entrare nell’ufficio stranieri e lo squadravano, ha chinato la testa come se avesse fatto qualcosa di male.
A quel punto ha visto il bambino, che non piangeva più. Lo fissava con espressione seria. Sembrava non si fosse accorto che la madre lo tirava per un braccio. Samba ha distolto lo sguardo. Capiva la vergogna che poco prima aveva provato il bambino.
Avrebbe voluto nascondere la faccia.

2

Quando Samba, quasi diciannovenne, arrivò a Parigi dieci anni prima, dopo aver attraversato un deserto, un mare e quattro Paesi, varcò il portone di Rue Labat 4, nel diciottesimo arrondissement, e finì in un cortile scuro che dava accesso a cinque o sei corridoi diversi che si aprivano sulle scale. Non sapeva dove andare. Sulle prime chiese aiuto a un vecchio pakistano con i capelli irsuti e grigi, che alla fine gli indicò un angolo buio. Lui esitò, ma l’uomo fece un cenno convincente con la testa, e Samba imboccò il corridoio con l’intonaco che si staccava a placche e sembrava stesse lì solo grazie alla carta lercia che lo ricopriva. Poi salì qualche gradino, ma la scala si fermava al primo piano. La porta dava su un buco intorno al quale c’erano brandelli di tappezzeria a ghirigori rosa e bianchi che facevano pensare a una vecchia stanza, forse di una donna, della quale rimanevano solo tracce spettrali. Dava l’idea di essere molto pericoloso, e preferì tornare indietro. Credette di vedere del movimento in fondo ai gradini, in uno dei corridoi, e si avvicinò cauto. Un ragazzino lo guardava, la bocca socchiusa sui denti rovinati.
«Conosci un signore che si chiama Lamouna Sow?»
Il bambino fece dietrofront e se la diede a gambe in un baleno, scomparendo in un altro corridoio buio. Si era spaventato per nulla. Mentre se ne stava lì, indeciso se seguirlo o no, gli si materializzò davanti tutta una famiglia: un uomo a torso nudo, due donne – la più giovane con un bambino piccolo sul fianco – e qualche ragazzino, fra cui quello di prima con il sorriso scheggiato.
«Cerca qualcuno?»
«Mio zio. Lamouna Sow.»
L’uomo indicò una scala che scendeva. Erano al piano terra.
«Lì sotto?»
La donna più anziana, ancora più sdentata del bambino attaccato alla sua gonna, annuì sgranando gli occhi. L’uomo sorrise. Allora Samba andò giù per i gradini di cemento che portavano alle cantine. In fondo c’era un corridoio in terra battuta che si apriva su delle porte di legno che dovevano avere un paio di secoli, sgretolate dal tempo e dall’umidità. Bussò alla prima, che si aprì quasi subito.
Ventisette centimetri più in basso apparve la faccia di suo zio Lamouna. Una faccia sorpresa, dalla pelle molto scura, su cui luccicavano un paio di occhietti da uccello, neri e brillanti. Era la prima persona della famiglia che vedeva da oltre un anno. Lo zio lo riconobbe subito, e sembrò un miracolo, dato che non si vedevano da anni. Cercò di abbracciarlo, ma Lamouna era talmente piccolo che la sua testa sprofondò nel petto del nipote, nell’incavo poco sopra la pancia. Samba pensò che la sua maglietta non doveva avere un buon odore. I capelli erano lerci, da diversi giorni aveva gli stessi vestiti appiccicati alla pelle e tutto il suo corpo era coperto da un sottile stra...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Copyright
  4. 1
  5. 2
  6. 3
  7. 4
  8. 5
  9. 6
  10. 7
  11. 8
  12. 9
  13. 10
  14. 11
  15. 12
  16. 13
  17. 14
  18. 15
  19. 16
  20. 17
  21. 18
  22. 19
  23. 20
  24. 21
  25. 22
  26. 23
  27. 24
  28. 25
  29. 26
  30. 27
  31. 28
  32. 29
  33. 30
  34. 31
  35. 32
  36. 33
  37. 34
  38. 35
  39. 36
  40. 37
  41. 38
  42. 39
  43. 40
  44. 41
  45. 42
  46. 43