Alessandro Magno
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Alessandro Magno

  1. 368 pagine
  2. Italian
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Alessandro Magno

Informazioni su questo libro

Da oltre duemila anni la leggenda di Magno affascina il mondo: la sua figura è stata raccontata e analizzata da poeti e storici sin dall'antichità. E proprio la fusione dei due generi è il punto di partenza di quest'affascinante biografia in cui la solidità scientifica dello storico di professione si unisce al gusto della narrazione, rivivendo il passato con gli occhi degli uomini di allora.

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Informazioni

Editore
BUR
Anno
2013
Print ISBN
9788817005388

XXII.

IL DRAMMA DELLA RITIRATA DAVANTI AL MISTERO DEL GANGE

«Aperiam cunctis gentibus terras )).
(QUINTO CURZIO, IX, 6, 22).
Fallito il tentativo di fondare una monarchia universale sulla deificazione del sovrano, poiché una fantasia esaltata non si piega alla rinuncia del suo sogno, ma lo trasforma, l’insaziato Eraclide, allontanato dall’infinito del cielo, si rivolse all’immensità della terra. Durante l’inverno dal 329 al 328, dopo la fondazione di Alexandrescata (Khogend), sull’estremo confine settentrionale, ove si era fermata la gloria di Ciro, il conquistatore, tornato a Zariaspa, vi aveva regolato una serie di questioni amministrative e politiche, diplomatiche e militari, tra le quali massima quella relativa ai piani delle sue future conquiste.
Morto Dario, i Macedoni con formidabili marce si erano inoltrati dai piedi dei monti Ircani sino alle rive del Iassarte, affluente del lago Ossiano che, per un errore geografico del tempo, veniva confuso col Tanai, affluente della palude Meotide. Al limitare delle steppe turaniche, che formano il confine settentrionale dell’Iran, essi avevano raggiunto i termini della «Terra abitata»: su quell’estremo lembo dell’«Ecumene» si poneva il problema della via che l’esercito vittorioso, adempiuto il proprio compito, avrebbe seguito per tornare in patria.
Parve un momento che si sarebbe scelta la via del Nord, perché, mentre Alessandro amministrava la giustizia nella capitale della Battriana e presiedeva il processo di Besso, era tornato al quartier generale l’ambasciatore da lui inviato l’anno prima agli Sciti di Europa, insieme con messaggeri di questo popolo, recanti pegni di sottomissione, offerte d’alleanza, proposte di matrimonio ; e il re li aveva onorati della sua amicizia e colmati di doni, in modo da far pensare ch’egli meditasse di dirigersi, dopo la sua partenza, verso il Bosforo cimmerio.
Un altro fatto ancora parve dovesse confermarlo in questo proposito. Farasmane. re dei Corasmi, che abitavano nella valle inferiore dell’Osso, al di là dei Massageti, venne anch’egli, in quei memorabili giorni, a visitare Alessandro a Zariaspa con una scorta di millecinquecento cavalieri, offrendogli la sua guida e tutto quanto avrebbe assicurato il successo dell’impresa, se Alessandro stesso, con lo scopo di assoggettare le genti rivierasche del Ponto Eusino, avesse volto le armi contro gli abitanti della Colchide, suoi vicini, e lo Stato ginecocratico delle Amazzoni.
Ci si può chiedere se tali offerte fossero sincere. Tra le oasi sparse a sud del mare d’Aral e i versanti meridionali del Caucaso, si stende una zona inospitale e sabbiosa che giunge sino alla conca marittima del Caspio. Come poteva il principe delle steppe di Khiva porre il suo territorio in prossimità della regione famosa, ove, secondo la leggenda, era avvenuto lo sbarco degli Argonauti e la conquista del vello d’oro? Qui un velo fantasmagorico copre la realtà dei fatti. Le terre del deserto hanno sempre generato sognatori, preda di allucinazioni straordinarie, e sotto la tenda d’uno sceicco nomade non ci si preoccupa di trovare una rigida linea di demarcazione tra leggenda e verità.
Certo è che Alessandro accolse benevolmente il khan di Corasmia, ma non accolse le sue proposte. Lodò il passo compiuto dall’ospite, accordò alleanza e amicizia, ma l’informò che la mèta cui tendeva in quel momento non era il Ponto Eusino, bensì l’India, la cui conquista avrebbe posto nelle sue mani l’Asia intera.
Cosi, nonostante la capitale importanza che doveva avere per un re macedone la regione tra l’Istro e il Tanai, il gran capitano non voleva continuare da quel lato le sue guerre di conquista. Per non lasciarsi sfuggire nulla dell’eredità achemenide, intendeva annettersi la satrapia del Gandhàra, ch’è come sentinella avanzata dell’Iran, e, rimandata pel momento la questione dei Geti, si volse con tutta l’anima al suo sogno indiano.
Del resto, questo piano era nel suo animo fermo da gran tempo, e possiamo argomentarlo dalla fondazione della nuova Alessandria (inverno 330-329), da lui voluta dove sorge ora Begràm, e detta Alessandria del Caucaso, perché i Macedoni, permeati di geografia mitica come il loro capo, identificavano l’Hinducush con la catena celebre pel supplizio di Prometeo. Lasciando un anno prima l’Aracosia, Alessandro aveva soggiornato in questi luoghi, posti sul versante meridionale del Paropamiso, nella Capissene (Kapiça), ove convergono le tre strade dei bacini dell’Osso, dell’Etimandro e dell’Indo; e cioè da nord-est la strada che traversa il passo di Khàvak, da ovest quella che si insinua tra le strette di Bàmiyàn, da sud-est quella che si svolge per le gole di Khaiber. Ora, l’aver voluto con la nuova Alessandria ricostituire un grande centro in questo punto strategico, dal quale era possibile scendere verso il Pangiab, mostra chiaramente l’intendimento del re.
Dell’immenso mondo nel quale bramava di penetrare, Alessandro conosceva solo quanto era detto nelle fonti indicategli da Aristotele: Scilace, Erodoto e Ctesia.
Da Dario I, il riorganizzatore dell’impero persiano, Scilace di Carianda aveva avuto la missione di seguire il corso dell’Indo ed esplorare il mare Eritreo. Non ci è pervenuto il giornale del navigatore jonico su questo viaggio, e ne dobbiamo la notizia solo al breve riassunto di Erodoto.
Quanto a Ctesia, Aristotele non ne faceva gran conto; ma sembra che, in massima, avesse torto, perché tra i fantasiosi racconti di cose straordinarie raccolti alla corte di Susa dal medico di Artaserse II, e che parvero molto sospetti ai peripatetici, ve n’è più d’uno, di cui le osservazioni moderne hanno dimostrato l’esattezza e che non furono insomma se non una notazione immaginosa, alla maniera orientale, di un’autentica realtà.
D’altronde, l’avventurosa fantasia di Alessandro era affascinata proprio da ciò che di meraviglioso o anche di favoloso presentavano le Indiche di Ctesia; dalle descrizioni dell’India quale paese di prodigi; dalla preziosa indicazione che il paese non si limitava affatto alla stretta fascia fluviale della satrapia persiana, ma che si stendeva lontano verso Oriente, sino ad eguagliare in superficie il resto dell’Asia.
Ricordiamo qui che, nel sistema di Aristotele, la «Terra abitata» è come un’isola circondata da ogni parte dall’Oceano, che, a sua volta, si divide in mari e golfi. L’Ecumene, assai più lunga che larga, si stende dalle Colonne d’Ercole all’India, che costituisce l’estremo confine orientale del mondo, del quale gli Indiani occupano l’ultima zona. Secondo l’autore della Meteorologia, una volta traversato il «Parnaso», ossia il Paropamiso (Hinducush), si giunge al mare Esterno, termine dell’universo. Quelle idee del maestro sulla configurazione della terra, si collegano ai piani del suo allievo, ne danno la spiegazione e ne rivelano la ragione più profonda.
Infatti, in Alessandro noi vediamo andare di pari passo la curiosità geografica e la passione di conquista, che si alimentano vicendevolmente. Egli incarnò in grado eroico e con sovrumano splendore quel bisogno prepotente di disvelare il mistero delle terre sconosciute, che animò la volontà di tanti grandi nel corso dei secoli. Egli è il prototipo degli arditi pionieri, esploratori di nuovi mondi, il padre della schiera nobile e audace, ch’ebbe lo storico compito di abbattere le barriere create fra gli uomini dai continenti e dai mari, il precursore regale di Marco Polo, Cristoforo Colombo, Vasco de Gama.
Ma un altro movente ancor più atto ad esaltarne l’animo spingeva Alessandro: la fede mitologica. Le leggende greche infatti ponevano proprio nell’India le gesta dei dominatori immortali, simboli delle forme più alte di audacia eroica e di sensibilità mistica: le gesta di Eracle, figlio di Zeus come Alessandro, e suo progenitore; e quelle di Dioniso, veneratissimo dai Macedoni.
Allora, nel 327, i fasti di queste vite divine, per quanto splendidi, non irradiavano ancora il fascino ch’ebbero poi, quando Megastene, ambasciatore di Seleuco presso Sandracotto (Ciandragupta), scrisse la sua opera sulla doppia impresa mitica, che arricchì di particolari e cui diede ampiezza straordinaria. Egli narrò che Ercole, liberatore del Titano Prometeo incatenato sul Caucaso, si era spinto sino al Gange e aveva fondato su questo fiume la capitale famosa dei Prasi, Palibothra (Pataliputhra). Narrò di Dioniso che, dolente di vedere gli Indiani ancora barbari, aveva dato loro tutte le istituzioni politiche e religiose dei popoli civili, insegnato l’arte di aggiogare i buoi e usare l’aratro, di seminare, di fare il vino, di scegliere i luoghi adatti alla fondazione delle città, di promulgare leggi ed erigere tribunali, di onorare gli dèi al suono di cembali e tamburi.
Alessandro anelava di rinnovare in India queste opere dei suoi predecessori, per ottenere anch’egli l’apoteosi. Se Ercole, rizzando sulla soglia dell’Atlantico le colonne dello stretto di Gades, aveva fissato in Occidente i limiti del mondo, l’Argeade, stimolato dall’esempio dell’antenato divino, voleva toccare l’altro estremo dell’Ecumene e far entrare le regioni del mare Australe nell’orbita luminosa dell’ellenismo.
Per quanto fosse poco incline al tesoreggiare, non dimenticava inoltre che la satrapia dell’India rendeva un importantissimo tributo alla Persia; e, con vivo intuito degli interessi economici, voleva allargare la rete delle vie commerciali, aprir nuove correnti agli scambi di terra e di mare, facilitare insomma il commercio dei prodotti tra Orientali e Greci, che gli appariva mezzo sicuro pel compimento del suo generoso ideale d’unione tra Europa ed Asia.
Finalmente, da capitano esperto dello spirito dei soldati e ansioso di perfezionare l’arte di vincere, vedeva la campagna d’India quale ottimo espediente per ritemprare il morale dei suoi e dare nuovo impulso alla scienza militare.
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Dobbiamo notare a questo proposito che le truppe macedoni, dopo la traversata dei colli nevosi del Paropamiso (primavera 329), s’erano logorate in interminabili lotte contro una difesa tenace e frazionata in mille modi, intramezzate qua e là da scontri sanguinosi di maggiore importanza. Di questa avventurosa guerriglia erano stati episodi la cattura di Besso, il lungo duello contro Spitamene, certe razzie contro gli Sciti, la scaramuccia del Politimeto, la conquista delle «Rocce» montane; e in esse era quasi venuta meno la condotta unitaria della guerra. Con la campagna d’India invece sarebbero incominciate operazioni di largo respiro, che avrebbero allargato nuovamente l’orizzonte.
Difatti tutto assunse un nuovo aspetto: reclutamento, strategia, tattica. Più ancora che la ripartizione delle funzioni civili, contribuirono all’intimo riavvicinamento dell’Europa e dell’Asia auspicato dal re, i cavalieri indigeni, incorporati nelle ipparchie macedoni, i quali facevano dell’esercito dell’India una «scuola di fusione fra le razze».
Gli effettivi dell’esercito vennero molto aumentati. Mentre a Gaugamela esso contava 40.000 fanti e 7.000 cavalli, all’uscire del Paropamiso la cavalleria era raddoppiata, e la fanteria triplicata; per modo che erano consentite manovre a lungo sviluppo ed esteso raggio d’azione. Abili capi, come Efestione e Perdicca, Cratero e Tolomeo, Leonnato, Ceno e Poliperconte, tacendo di Nearco, potevano raccordare marce e attacchi secondari all’azione principale. Inoltre il corso del fiume facilitava la via verso la montagna.
Il teatro delle operazioni era immenso: dall’Hinducush all’Ifasi, e di là alle bocche del Sindh, i Macedoni percorreranno una distanza pari a quella che intercede tra Menfi e Babilonia; ma, mentre la marcia tra il Nilo e l’Eufrate aveva richiesto soltanto dai sei ai sette mesi, per l’altra (e ciò prova, quali eccezionali difficoltà presentassero le campagne indiane) occorrerà un anno e mezzo.
Intanto, il modo di combattere dei potenti ragià del Pangiab esige una tattica nuova. così il re del paese di Lahore, un maharagià, chiamato Poro dai Greci dal nome della dinastia Paurava che illustrò col suo valore, non solamente è un soldato che paga di persona, ma è un capitano pieno di esperienza, abilissimo nel ripartire le sue forze e usare con logica la sua arma più potente, cioè duecento elefanti, che colloca davanti alla linea come altrettanti blockhaus; e tra questi dispone i suoi gruppi di fanti, sostenuti ai due lati dagli squadroni di cavalleria che ne proteggono il fianco.
Ancor più di Ariobarzane, il monarca indiano è degno rivale di Alessandro, che, per vincerlo, dovrà usare tutte le risorse del suo genio creatore. La battaglia dell’Idaspe, come metodo e bravura, sorpassò quella d’Arbela; e Poro, pur perdendola, si copri di gloria. Questa volta i due generali avversari avevano egual valore ed eguale nobiltà d’animo; tanto che il difensore del Pangiab orientale meritò di venire trattato come sovrano da colui che, per usare una espressione di Esiodo relativa a Minosse, «fu più re di tutti i re mortali».
Insieme con la sua importanza tecnica, la spedizione delle Indie offre la caratteristica di associare indissolubilmente Favola e Realtà: essa si svolge tra bagliori soprannaturali, in un’atmosfera sovrumana. Già alla vigilia della partenza, al momento del processo dei paggi, ricordando l’oracolo che l’aveva proclamato figlio di Zeus, Alessandro esclamava: «Piaccia al Cielo che anche gli Indiani mi credano un dio!» E fece il possibile per dare realtà al suo sogno.
Alla fine della primavera del 327 la Grande Armata, lasciata Zariaspa, traverso i colli dell’Hinducush giunse, con una marcia di dieci giorni, ad Alessandria del Caucaso, dirigendosi verso l’India.
Al giorno d’oggi le carovane del Nord che si recano a Pesciavar, seguono la via che milletrecento anni fa seguì il pellegrino buddista cinese Hiuan-tsang, per evitare la strada moderna e il giro di Kabul: nove secoli e mezzo prima ancora del Pausania cinese, questo fu l’itinerario dei Macedoni.
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Lasciando la sua colonia del Paropamiso, Alessandro si diresse pel declivio di Tagao verso il bel paese del Lampaka (Lamghân) dall’aspetto ridente e dal grato clima, ben diverso da quello delle aspre montagne dell’Hinducush.
Questo Eden delizioso, coi suoi boschetti di palme e di aranci, segna, secondo la parola spesso citata dall’imperatore Bâber, «l’entrata in un nuovo mondo»; e là, in quella specie di «Terra promessa», il precursore del conquistatore mongolo ristette un poco, soggiornando in una città cui il nome di Nicea sembra essere stato attribuito per auspicio di vittoria. Quivi, alla soglia dell’India, giunsero i principi passati alla sua alleanza e chiamati presso di lui, tra i quali Omfis (Ambhi), figlio del ragià di Tassila. Qui l’esercito venne diviso in due parti, una delle quali, formata dalle falangi e dalla cavalleria e guidata da Efestione e da Perdicca, ebbe ordine di marciare lungo il Cofene sino all’Indo, e di stabilirvi un ponte di barche, mentre le truppe rimanenti, capitanate da Alessandro, dovevano ostacolare ogni attacco sui fianchi del corpo di spedizione meridionale, assoggettando i montanari del dirupato e imponente massiccio che domina il Gandhàra.
Prima ancora che fosse traversato il Coete che ne segna la frontiera, il carattere religioso dell’India, «ardente generatrice di divinità», si rivelò nelle parole che i ragià ammessi quali feudatari nell’Impero macedone volsero al sovrano conferendogli l’apoteosi: «Alessandro era per loro un terzo figlio di Zeus; dei primi due, Ercole e Dioniso, avevano udito le gesta, quanto al terzo lo vedevano, e godevano della sua presenza».
Sotto simili auspici s’iniziò la grande spedizione che constava di due serie distinte d’operazioni, e cioè di una dura guerra di montagna, che durò circa dieci mesi (estate 327-primavera 326), e di una grandiosa campagna fluviale, molto più lunga, infinitamente più estesa, che cominciò nell’aprile 326 col transito dell’Indo, e terminò alla fine dell’agosto 325 con l’esplorazione del mare di Oman davanti al delta del Sindh.
Nella prima campagna, l’uno dopo l’altro furono fiaccati tre gruppi di popolazioni: gli Aspasi, i Gurei e gli Assaceni. Tra i primi, il cui territorio si stende dal Coete al Coaspe, ebbe luogo l’episodio di Nisa.
Una sera, penetrando in un valloncello coperto di ricca vegetazione, Alessandro sostò in un luogo tanto boscoso che il folto degli alberi gli impedì di vedere una città forte costruita sopra una vetta, e la cui necropoli era prossima al campo. Poiché il freddo era intenso, gli uomini avevano acceso grandi fuochi, le cui scintille trasportate dal vento appiccarono le fiamme alle tombe ch’erano di legno di cedro. L’incendio sparse l’allarme nell’intera vallata, si udirono abbaiare i cani sulle vette e dietro i bastioni; quindi un clamore di voci umane; certo quelle delle sentinelle, che avvertivano i cittadini della vicinanza dei nemici, indicando nello stesso tempo agli invasori la prossimità d’un centro abitato.
Alessandro ordina l’assalto; quando appare una deputazione di notabili, capeggiata da un nobile vegliardo, Acufis, primo della città e incaricato di difenderne la causa. Il suo discorso è così riferito da Arriano:
«Per l’onore di Dioniso, o principe, gli abitanti di Nisa ti chiedono la libertà. Egli fondò la nostra città, tornando in Grecia dopo la conquista dell’India, a eterna testimonianza della sua corsa trionfale, e la popolò di valorosi soldati, non soltanto compagni d’arme, ma anche fedeli al suo culto. Allo stesso modo tu hai fondato un’Alessandria del Caucaso, un’Alessandria d’Egitto, preludio di altre città che...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. INTRODUZIONE
  4. NOTA AL TESTO
  5. I. - LA PERSONALITÀ E IL GENIO DI ALESSANDRO
  6. II. - IL PROGRAMMA MACEDONE
  7. III. - RESURREZIONE DELL'EPOPEA OMERICA
  8. IV. - LIBERAZIONI E RINASCITE
  9. V. - IL NODO GORDIANO
  10. VI. - NUOVE MANIFESTAZIONI DI FILELLENISMO OMERICO
  11. VII. - LA QUESTIONE DELL'IMPERO
  12. VIII. - LA SUCCESSIONE DI ALCIDE
  13. IX. - L'IRA DI ACHILLE
  14. X. - IL PELLEGRINAGGIO AL SANTUARIO DI AMMONE
  15. XI. - GERUSALEMME
  16. XII. - DA TIRO A BABILONIA
  17. XIII. - ACHILLE NELLA CITTA DI MEMNONE
  18. XIV. - L'ASCESA VERSO L' IRAN
  19. XV. - SERA NUMINIS VINDICTA
  20. XVI. - PASARGADE LA VOCE DELLA TOMBA DI CIRO
  21. XVII. - PRIMA EPIFANIA DIONISIACA IL CÔMOS DI PERSEPOLI
  22. XVIII. - LA CORSA VERSO L'ABISSO
  23. XIX. - PRINCIPIO DELLA CRISI ASIATICA IL PROCESSO DI FILOTA
  24. XX. - NUOVO DELIRIO BACCHICO L'UCCISIONE DI CLITO
  25. XXI. - RECRUDESCENZA DELLA CRISI ASIATICA CALLISTENE
  26. XXII. - IL DRAMMA DELLA RITIRATA DAVANTI AL MISTERO DEL GANGE
  27. XXIII. - NUOVA FORMA DELLA DOMINAZIONE UNIVERSALE L'IMPERIALISMO MARITTIMO PERIPLO DI NEARCO (325-324)
  28. XXIV. - IL BACCANALE DI CARMANIA (autunno 325)
  29. XXV. - LA GRANDE FESTA NUZIALE DI SUSA (febbraio 324)
  30. XXVI. - FINE DELLA CRISI ASIATICA LA SEDIZIONE MILITARE DI OPI
  31. XXVII. - LA MONARCHIA DIVINA E LA GRECIA
  32. XXVIII. - GRANDIOSI PIANI E SOLENNI AMBASCERIE
  33. XXIX. - SOTTO IL SEGNO DELLA NEMESI
  34. XXX. - LE SORTI DI UN EROE