
eBook - ePub
La sostanza di cui son fatti i sogni
Il grande teatro di William Shakespeare
- 224 pagine
- Italian
- ePUB (disponibile sull'app)
- Disponibile su iOS e Android
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La sostanza di cui son fatti i sogni
Il grande teatro di William Shakespeare
Informazioni su questo libro
Un'opera d'arte è veramente grande quando riesce a superare le barriere del tempo e a diventare patrimonio di molti. Questo è stato il destino di Shakespeare e del suo teatro. Lettori di ogni epoca hanno sognato, sospirato, pianto e riso leggendo le sue storie d'amore e odio, ambizione e orgoglio, invidia e tradimento, ingiustizia e riscatto. Questo libro è un'antologia di alcune delle sue pagine più belle, per imparare ad amarl e magari farsi venire la voglia di conoscerlo più a fondo. A cura di Fernando Cioni
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Informazioni
eBook ISBN
9788858657423Categoria
Arti performativeTRAGEDIE
Life’s but a walking shadow, a poor player
That struts and frets his hour upon the stage
And then is heard no more. It is a tale
Told by an idiot, full of sound and fury,
Signifying nothing.
That struts and frets his hour upon the stage
And then is heard no more. It is a tale
Told by an idiot, full of sound and fury,
Signifying nothing.
Macbeth
La vita non è che un’ombra in cammino;
un povero attore che s’agita e si pavoneggia
per un’ora sul palcoscenico e del quale poi
non si sa più nulla. È un racconto narrato
da un idiota, pieno di strèpito e di furore,
e senza alcun significato.
un povero attore che s’agita e si pavoneggia
per un’ora sul palcoscenico e del quale poi
non si sa più nulla. È un racconto narrato
da un idiota, pieno di strèpito e di furore,
e senza alcun significato.
Macbeth
dp n="18" folio="18" ? dp n="19" folio="19" ? TITO ANDRONICO
TITUS ANDRONICUS
II.1 L’imperatore Saturnino decide di sposare Tamora, regina dei Goti, amante del Moro Aronne, portata prigioniera a Roma con i suoi tre figli Alabro, Demetrio e Chirone da Tito Andronico. Alabro viene ucciso dai figli di Tito.
ARONNE Tamora è giunta ormai al sommo dell’Olimpo e siede in alto, al riparo dei colpi della fortuna e al sicuro del fragore dei tuoni o del bagliore della folgore, e insomma fuor della portata d’ogni minaccia della pallida invidia. Come il sole d’oro quando saluta il mattino e, avendo già indorato l’oceano dei suoi raggi, galoppa lungo lo zodiaco nel suo carro splendente, e riguarda, sotto di sé, tutte le più elevate alture, così è Tamora. Ogni onore terrestre rende omaggio alla sua accortezza, e la stessa virtù si inchina, scossa da un tremito, se ella mostri uno sguardo corrucciato. E quindi, o Aronne, arma il tuo cuore e appresta i tuoi migliori pensieri affinché ti sia possibile di salire insieme alla tua imperiale signora e raggiungere la sua stessa altezza, di lei che hai condotta a lungo prigioniera nel trionfo, avvinta in catene amorose, e più saldamente vincolata agli affascinanti occhi di Aronne di quanto Prometeo non sia vincolato alla roccia del Caucaso. Togliti questi panni da schiavo, e liberati dai pensieri di servitù! Saprò ora risplendere e di perle e d’oro, per servire a questa imperatrice creata di recente. Ho detto forse per servire? No certo, ma per passar, piuttosto, da uno svago all’altro con questa regina, con questa dea, questa Semiramide, questa ninfa, questa sirena, che saprà così bene irretire Saturnino di Roma da esser testimone della distruzione di lui e del suo paese.
11.4 Lavinia, figlia di Tito e nipote di Marco, è stata violentata da Chirone e Demetrio. Per impedirle di rivelare i colpevoli, le tagliano braccia e lingua. Marco, di ritorno da una battuta di caccia, vede Lavinia sanguinante.
MARCO Chi è costei? È mia nipote, che se ne fugge così in fretta? Nipote, una parola. Dov’è tuo marito? Se in questo momento sto sognando, vorrei che tutte le mie ricchezze mi facessero svegliare! Ma se invece son desto, vorrei essere atterrato da un pianeta, così che potessi dormire un sonno eterno! Parla, o gentile nipote: quali mani spietate e feroci ti hanno mutilata e straziata a questo modo, ed han reso il tuo corpo spoglio dei suoi due rami che erano i suoi dolci ornamenti, e sotto il cui cerchio d’ombra han desiderato di dormire perfino dei re, ben sapendo che non avrebbero potuto ottenere una felicità grande anche soltanto a metà quanto quella del tuo amore? Perché non mi parli? Ahimè, che un ruscello cremisino di caldo sangue, simile a una fontana che gorgoglia mossa dal vento, zampilla e cola dalle tue rosee labbra, andando e venendo al tempo con il tuo alito di miele. Certo un qualche Tereo ti ha deflorata, ed acciocché tu non potessi tradirlo, ti ha tagliata la lingua. Ed ora tu volgi di lato il tuo volto bello per la vergogna e, nonostante tutta questa perdita di sangue, che fiotta come da una canna con tre zampilli, le tue gote pur si arrossano come il volto di Titano quando diviene di porpora all’incontrare una nube. Posso io parlare per te? Dirò forse che tutto è proprio così? Oh, se sapessi quel che hai nel cuore e conoscessi la belva che così t’ha conciata, tanto che potessi scaricarmi, insultandola per quietare il mio spirito! Il dolore nascosto, simile a un forno chiuso, brucia il cuore fino ad incenerirlo. La bella Filomela aveva perduto soltanto la lingua e sopra un tedioso modello di ricamo poté scrivere tutto quel che le passava per la mente. Ma tu, o dolce nipote, sei stata privata a forza anche di questo mezzo. Un Tereo anche più astuto dell’altro, o nipote, è quello che tu hai incontrato, e di fatto egli ti ha tagliato quelle graziose dita che avrebbero saputo ricamare anche meglio di Filomela. Oh, se quel mostro avesse visto le tue mani di giglio tremolare come foglie di pioppo su un liuto mentre ne facevano vibrare le seriche corde smaniose di poterle baciare, non avrebbe davvero mai ardito neppur di sfiorarle, anche se ne fosse andata di mezzo la sua vita. E allo stesso modo, se egli avesse udito l’armonia celeste che quella tua dolce lingua metteva, avrebbe lasciato cadere il suo coltello e sarebbe piombato nel sonno al modo che Cerbero ai piedi del poeta di Tracia. Deh, vieni, andiamo e accechiamo il padre tuo, poiché una tal vista, non c’è dubbio, toglierà la vista agli occhi di lui. Un uragano che duri anche un’ora soltanto basta ad affogare i prati più fragranti. Ma che cosa non faranno dei mesi interi di lagrime negli occhi di tuo padre? No, non devi trarti indietro, poiché noi piangeremo insieme a te: ah, se i nostri lamenti potessero almeno alleviare la tua infelicità!
V.2 Tamora, pensando che sia impazzito dal dolore, si traveste da Vendetta e fa visita a Tito insieme ai suoi due figli, e lo invita ad un banchetto. Tito, riconosciuti i tre, sta al gioco e una volta solo con Chirone e Demetrio li lega e li imbavaglia.
TITO Vieni, vieni, o Lavinia. Non vedi? I tuoi nemici sono legati. Giovinotti, tappate loro la bocca e fate in modo che non dicano verbo, ma che invece ascoltino la spaventosa condanna ch’io pronunzio. Scellerati, Chirone e Demetrio, ecco qui, dinanzi a voi, si leva la mia figliuola Lavinia, la dolce primavera che avete bruttata di fango, la bella estate che dovette esser contaminata dai vostri inverni. Voi le avete ucciso il marito, e per questa vilissima azione due dei suoi fratelli furon messi a morte, e la mia mano fu mozzata perch’io potessi esser oggetto di ludibrio; e tutt’e due le mani di lei furon mozzate, e con esse la lingua, e anche ciò che v’è d’assai più caro che non le mani e la lingua, e cioè la sua immacolata castità, fu da voi, belve d’uomini, violata a forza. Che sapreste mai dire, se vi consentissi di parlare? Scellerati, non potreste nemmeno implorar misericordia, tanta dovrebbe essere la vostra vergogna! Ed ora state bene a sentire che intendo riservare per il vostro martirio. Questa mia unica mano mi è lasciata perché io possa tagliar le vostre gole, nel mentre che la mia Lavinia terrà, con i suoi moncherini, il bacile che dovrà ricevere il vostro sangue immondo. Voi sapete bene che vostra madre, l’imperatrice Tamora, ha intenzione di cenar meco e, credendomi pazzo, fa chiamare se stessa col nome di Vendetta. Ebbene, scellerati, io macinerò le vostre ossa e le ridurrò in polvere, e questa la impasterò con il vostro sangue, e ne farò una sfogliata per cucinarvi, al forno, in due pasticci, entrambe le vostre teste infami, e poi chiederò a quella sgualdrina della vostra empia madre di rimangiarsi, così come fa la terra, la sua stessa progenie. Questo è il banchetto a cui l’ho invitata, e questo è il cibo del quale intendo ch’ella s’ingozzi fino alla nausea. Poiché voi avete trattata mia figlia peggio che Filomela ed io voglio vendicarmi in modo più crudele che Progne. Preparate, adunque, le vostre gole, e tu, Lavinia, raccogli il loro sangue. Quando saranno morti, macinerò le loro ossa e le ridurrò in una sottilissima polvere e poi le impasterò con questo liquido detestato, e cuocerò dentro al forno le loro teste vili in due pasticci. Andiamo, andiamo; che ognuno faccia del suo meglio per approntare il banchetto, il quale io desidero che possa dimostrarsi più sanguinoso e crudele che quello dei Centauri. [Tito taglia la gola a Chirone e Demetrio.] E così portateli dentro, poiché voglio esserne io stesso il cuoco e fare in modo che ogni cosa sia pronta innanzi che ritorni la madre loro.
ROMEO E GIULIETTA
ROMEO AND JULIET
I.4 Romeo, Benvolio e Mercutio stanno andando alla festa dei Capuleti con torce e maschere per non essere riconosciuti. Romeo è melanconico e non vuole unirsi alle danze. Mercutio lo prende in giro.
MERCUTIO Oh, vuol dire allora che la regina Mab è venuta a farti visita. È la levatrice delle fate, e se ne viene in forma non più grossa che una pietra d’agata all’indice d’un consigliere comunale, trainata da un equipaggio di piccoli atomi traverso i nasi degli uomini quand’essi giacciono addormentati. I raggi delle sue ruote son fatti di lunghe zampe di ragno; il mantice di ali di cavallette; le tirelle dei più esili fili di ragnatela; i pettorali dei rugiadosi raggi della luna; il manico della frusta d’un osso di grillo; la sferza, appena d’un filamento. Il cocchiere, poi, è un moscerino dalla bigia assisa, non grande neppure la metà quanto il piccolo vermicciattolo arrotolato tratto fuor dal dito pigro d’una fanciulla. Una nocella svuotata è il suo cocchio, lavorato dallo scoiattolo ebanista o dal vecchio lombrico, che da tempo immemorabile si son fatti carrozzieri delle fate. E in questo arnese ella galoppa ogni notte attraverso il cervello degli amanti, e li fa sognare d’amore; sulle ginocchia dei cortigiani, che così sognan subito d’elaborati inchini; sulle dita degli avvocati, che non metton tempo in mezzo a sognar parcelle; sulle labbra delle belle donne, che immantinente sognano baci: ma quelle, incollerita, Mab subito affligge di pùstole, da che l’alito loro è guasto dal mangiar troppi confetti. Galoppa ella talvolta sul naso d’un usciere di tribunale, che sogna di snuffiare un processo, e si reca talora con la coda d’un porcellino della decima a fare il solletico sott’il naso d’un parroco addormentato, che sogna d’aggiungersi un altro benefizio. E gira a volte in carrozza attorno al collo d’un soldato, e questi sogna di tagliar gole straniere, e breccie e imboscate e lame spagnuole e brindisi in bicchieri profondi cinque tese; e d’un tratto, ecco, egli sente rullare il tamburo, e trasalisce e si desta, e, colpito dallo spavento, bestemmia qualche giaculatoria, e subito ripiomba nel sonno. Questa è la stessa Mab che a notte intreccia le criniere dei cavalli, e stringe dei magici nodi nei loro crini unti e bisunti, che, se districati, portano con sé il malocchio. È lei la maga che quando le fanciulle giacciono in letto con la pancia all’aria, le preme e insegna loro a portare, e le trasforma in donne di bel portamento.
II.2 Romeo, finita la festa a casa Capuleti, si dirige verso il giardino sotto la finestra della stanza di Giulietta. Giulietta si affaccia al balcone e, pensando di essere sola, confessa di amare Romeo. Romeo interviene e le dichiara il suo amore.
ROMEO Qual luce rompe laggiù da quella finestra? Quello è l’oriente, e Giulietta è il sole!... Sorgi, bel sole, e uccidi l’invidiosa luna, che già inferma e impallidisce di dolore, perché tu, che sei soltanto una sua ancella, sei tanto più bella di lei. Licenziati dal suo servizio, dal momento ch’ella t’invidia tanto: la sua livrea di vestale è d’un verde color malato, e non l’indossano più altro che i dissennati. Gettala via! È la mia signora. Oh, è il mio amore! oh, s’ella potesse sapere d’essere l’amor mio! Ella parla, eppur non dice nulla. Come può accadere? Son gli occhi suoi, a parlare, ed è a loro ch’io risponderò. Ma io presumo troppo: non è a me ch’ella parla. Due fra le più belle stelle di tutto il cielo, avendo che fare altrove, supplicano gli occhi di lei di brillare nelle lor proprie sfere fino al loro ritorno. E se i suoi occhi fossero laggiù, e le stelle fossero sul viso di lei? Lo splendore delle sue gote svergognerebbe quelle stelle, al modo che la luce del giorno fa onta a quella d’una lampada. Gli occhi di lei in cielo lustrerebbero d’un tal splendore per le regioni dell’aria che gli uccelli si darebbero a cantare credendo che non fosse più notte... Ve’, com’ella posa la sua gota sulla mano! Oh, s’io fossi un guanto su quella mano, così che mi fosse concesso di toccar quella gota!
GIULIETTA O Romeo, Romeo! perché sei Romeo? rinnega il padre tuo e rifiuta il tuo proprio nome. Ovvero, se proprio non vuoi, fa soltanto di legarmi a te con un giuramento d’amore, ed io non sarò più una Capuleti.
[...] È soltanto il tuo nome ad essermi nemico: tu saresti sempre te stesso, anche se non fossi un Montecchi. Che può mai significar la parola “Montecchi”? non è una mano, non un piede, non un braccio, né un volto né alcuna altra parte che s’appartenga a un uomo. Oh, sii qualche altro nome! Che cosa c’è in un nome? quel che noi chiamiamo col nome di rosa, anche se lo chiamassimo d’un altro nome, serberebbe pur sempre lo stesso dolce profumo. E così Romeo, pur se non fosse chiamato più Romeo, serberebbe pur sempre quella cara perfezione ch’egli possiede tuttavia senza quel nome. Rinunzia dunque al tuo nome, Romeo, e in cambio di quello, che pur non è alcuna parte di te, accogli tutta me stessa.
[...] Tu sai che la maschera della notte è sul mio volto, ché altrimenti un rossor verginale dipingerebbe le mie gote per quel che tu m’hai udito dire stanotte. E ben volentieri vorrei osservar le regole e rinnegare tutto quel che ho detto. Ma, bando alle forme e alle convenienze! Mi ami? so già che dirai: «Sì!», e ch’io crederò a quel che dirai. Ma se tu lo giuri, potresti poi dimostrarti sleale. Dicon che Giove sorrida degli amanti spergiuri. O nobile Romeo, s’è vero che m’ami, dichiaralo schiettamente, ovvero, se credi ch’io mi lasci conquistare troppo facilmente, aggrotterò la fronte e sarò cattiva e mi negherò, e così tu avrai ragione di corteggiarmi: altrimenti, non saprei negarti alcunché per tutto l’oro del mondo. O bel Montecchi, io sono invero un po’ troppo innamorata, e tu potresti credere che il mio comportamento sia frivolo. Ma sappi aver fede in me, mio buon signore, ed io saprò dimostrarmi anche più leale di quante sanno offerire una miglior mostra della loro modestia. E tuttavia, debbo confessare che sarei stata un poco più riservata, se tu non avessi udite, innanzi ch’io ne fossi a parte, le parole appassionate dell’amor mio sincero. E quindi sappimi perdonare, e non imputare questo mio arrendermi a un amor leggero, che le t...
Indice dei contenuti
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