Inverno
La stagione tra l’autunno e la primavera,
che nell’emisfero boreale comprende i mesi più freddi
dell’anno: dicembre, gennaio e febbraio.
Un periodo di inattività o di declino.
1
Avevo cinque anni quando scoprii che sarei morta.
Non mi era mai venuto in mente che non sarei vissuta per sempre; e perché avrebbe dovuto? L’argomento della mia morte non era mai stato neanche lontanamente sfiorato.
Della morte ne sapevo abbastanza: morivano i pesci rossi, l’avevo imparato sulla mia pelle. Succedeva se non li facevi mangiare, e se li facevi mangiare troppo. Morivano i cani se andavano a finire sotto una macchina, i topi se si lasciavano tentare dai biscotti all’avena ricoperti di cioccolato che mettevamo sulla trappola sistemata nel guardaroba sotto le scale, i conigli quando scappavano dalle gabbie e diventavano facili prede delle volpi cattive. La loro morte non mi aveva mai preoccupata a livello personale; anche se avevo cinque anni, sapevo che quelli erano animali, creature pelose che facevano cose stupide che io non avevo certo intenzione di fare.
Perciò, scoprire che la morte avrebbe trovato anche me mi sconvolse.
Stando alla mia fonte, se ero «fortunata» sarei morta come il nonno. Che era morto vecchio. Puzzando di fumo di pipa e scoregge, con palline di kleenex appiccicate ai baffetti sopra il labbro a furia di soffiarsi il naso. Con righe di sporcizia sotto le unghie per via del giardinaggio, e gli occhi un po’ ingialliti agli angoli, che mi ricordavano tanto le biglie che collezionava lo zio e che mia sorella una volta ingoiò per sbaglio, spaventando mio padre che era corso da lei, le aveva stretto le braccia attorno alla pancia e aveva premuto forte finché la biglia non era schizzata fuori. Vecchio. Con i pantaloni marroni tirati su ben oltre la vita – diciamo fino al petto, dove sembrava avesse due tettine molli – che rivelavano una panciona flaccida e due palle strizzate tutte da un lato della cucitura. Vecchio. No, io non volevo per niente morire come il nonno, ma la mia fonte insisteva a dire che morire vecchi era l’opzione migliore.
Seppi della mia morte incombente da mio cugino più grande, Kevin, il giorno del funerale del nonno, mentre eravamo seduti sull’erba in fondo al suo grande giardino con in mano dei bicchieri di plastica pieni di limonata rossa, il più possibile lontani dai nostri parenti in lutto, che sembravano scarabei stercorari in quello che aveva tutta l’aria di essere il giorno più caldo dell’anno. Il prato era pieno di fiori di tarassaco e margherite e l’erba era più alta del solito. La malattia aveva impedito al nonno di occuparsi del giardino, nelle ultime settimane. Ricordo che mi sentivo triste per lui, dispiaciuta che l’occasione di sfoggiare il suo magnifico giardino con amici e vicini fosse capitata in un giorno in cui non era proprio tutto perfetto come invece avrebbe voluto lui. Non gli sarebbe importato di non esserci – non amava molto parlare – ma di sicuro gli sarebbe piaciuto occuparsi della grande presentazione, per poi sparire nel nulla ad ascoltare di soppiatto i complimenti, nascondendosi magari al piano di sopra, con la finestra aperta. Con un sorriso soddisfatto, i pantaloni macchiati di verde e le unghie sporche, avrebbe fatto finta che non gliene importasse, quando in realtà gliene importava eccome. Qualcuno, un’anziana signora che teneva un rosario stretto tra le dita, disse che sentiva la sua presenza in giardino, ma io non la sentivo. Ero sicura che non fosse lì. Gli avrebbe dato troppo fastidio vedere quel posto ridotto così, non l’avrebbe sopportato.
La nonna sottolineava i momenti di silenzio con frasi tipo «I suoi girasoli sono uno splendore, che Dio accolga la sua anima» o «Non vedrà fiorire le petunie». Al che il mio cinico cugino mormorò: «Già , il suo corpo morto è diventato concime adesso».
A tutti scappò una risata; ridevano sempre tutti quando Kevin diceva qualcosa, perché Kevin era fico, perché Kevin era il più grande, aveva cinque anni più di me e alla venerabile età di dieci anni poteva permettersi di dire cose crudeli, che noi non avremmo neanche osato pensare. Anche se non faceva ridere, sapevamo di dover ridere, perché altrimenti saremmo diventati il bersaglio successivo delle sue cattiverie, cosa che capitò a me proprio quel giorno. In quella particolare circostanza, non mi faceva ridere l’idea che il corpo morto del nonno, sotto terra, favorisse la crescita delle petunie, ma nemmeno la trovavo crudele. Ci vedevo della bellezza. Una specie di amabile pienezza, di giustizia. Era esattamente quello che avrebbe desiderato il nonno, ora che le sue dita a salsicciotto non potevano più occuparsi del suo splendido giardino allungato, il centro del suo mondo.
Mi chiamo Jasmine perché mio nonno amava il giardinaggio. Quando nacqui, andò a trovare mia madre in ospedale e le portò un mazzetto di gelsomini presi dal graticcio di legno dipinto di rosso che aveva costruito da solo sul retro della casa, incartati in un foglio di giornale legato con lo spago, con l’inchiostro del difficilissimo cruciverba dell’«Irish Times» risolto per metà annacquato dalla pioggia rimasta sugli steli. Non era il gelsomino estivo che tutti conosciamo grazie alle costose candele profumate o a certi stravaganti vaporizzatori per ambienti: per una bambina nata in inverno ci voleva il gelsomino invernale, con i suoi piccoli fiori gialli a forma di stella, di cui il suo giardino era pieno e che illuminavano un po’ il cupo grigiore della stagione fredda. Non credo che il nonno abbia attribuito alla cosa un significato particolare, e non so se si sia sentito particolarmente onorato dal fatto che mia madre abbia poi deciso di chiamarmi come i fiori che lui le aveva portato. Penso piuttosto che lo ritenesse un nome strano per una bambina, un nome appropriato per quelle cose naturali che stavano nel suo giardino e assolutamente non adatto a una persona. Del resto, chiamandosi lui Adalbert in omaggio a un santo che era stato missionario in Irlanda, e Mary di secondo nome, non era certo un uomo avvezzo ai nomi che non vengono dalla Bibbia. L’inverno precedente aveva portato a mia madre dell’erica violetta in occasione della nascita di mia sorella, che infatti si chiama Heather. Un dono semplice e innocente, per quanto riguarda mia sorella, ma io mi chiedo ancora che intenzioni avesse con me. Facendo qualche ricerca, ho poi scoperto che quel gelsomino è parente stretto dell’erica, un’altra colorata protagonista dei giardini invernali. Non so se sia perché ho in mente com’era fatto il nonno, ma in cuor mio spero sempre che le persone silenziose custodiscano in sé una specie di magia e una saggezza che ai meno riservati manca; che il loro non dire significhi che hanno qualcosa di più importante per la testa. Forse la loro apparente semplicità cela un mosaico di pensieri imperscrutabili, e tra questi quello di nonno Adalbert che voleva che mi chiamassi Jasmine.
Tornando a quel giorno in giardino, Kevin interpretò la mia impassibilità alla sua battuta sulla morte come segno di disapprovazione, e non c’era nulla che lui detestasse o temesse di più, quindi mi rivolse il suo sguardo più feroce e disse: «Anche tu morirai, Jasmine».
Eravamo in sei seduti in cerchio lì, io ero la più piccola, mia sorella era poco lontano che giocava a farsi girare la testa e cadere. Con una collanina di margherite attorno alla caviglia e un nodo in gola così grosso che temevo di aver inghiottito uno dei bombi che ronzavano sul buffet floreale ai nostri piedi, tentai di far sedimentare l’idea del mio futuro decesso. Gli altri erano rimasti scioccati dalle sue parole, ma invece di prendere le mie difese e negare quell’orribile annuncio che suonava come una premonizione, mi guardarono tutti con aria triste e annuirono. Sì, è vero, mi dissero all’unisono con il loro sguardo. Morirai, Jasmine.
Il mio lungo silenzio fu preso in carico da Kevin, che affondò il coltello nella piaga. Non solo sarei morta, ma prima mi sarei beccata una cosa chiamata ciclo che mi sarebbe venuta tutti i mesi per il resto della vita con dolori e supplizi insopportabili. Mi spiegò anche come si fanno i bambini, entrando così tanto nel dettaglio che per una settimana ebbi difficoltà a guardare negli occhi i miei genitori, e infine, gettando sale sulle ferite aperte, mi disse che Babbo Natale non esisteva.
Certe cose uno vorrebbe dimenticarle, ma non ci riesce.
Perché continuo a tornare su questo episodio della mia vita? Be’, perché è lì che sono cominciata. È lì che ho preso forma per come mi conosco, per come mi conoscono tutti. La mia vita ha avuto inizio quando avevo cinque anni. Sapere che sarei morta ha insinuato in me il seme di qualcosa che ancora oggi porto dentro: la consapevolezza che, sebbene il tempo sia infinito di per sé, il mio tempo è limitato, il mio tempo passa. Ho capito che le mie ore e quelle degli altri non sono uguali. Non possiamo passarle nello stesso modo, non possiamo vederle nello stesso modo. Voi usatele come volete, ma non tirate dentro me; io non ho tempo da buttare. Se volete fare qualcosa, dovete farlo adesso. Se volete dire qualcosa, dovete dirlo adesso. E, soprattutto, è necessario farlo in prima persona. È la vostra vita, siete voi che morite, voi che la perdete. Essere in movimento, far sì che le cose accadano, è diventato il mio modo di stare al mondo. Ho sempre lavorato a pieno ritmo, tanto da restare senza fiato, incapace di trovare un momento per riconnettermi con me stessa. Sempre a rincorrermi, senza mai raggiungermi. Sempre di fretta.
Da quel giorno sul prato mi portai a casa molte cose, non solo le margherite che mi pendevano ai polsi e alle caviglie e che, una volta rientrati anche noi con gli altri tristi ospiti cotti dal sole, qualcuno mi intrecciò ai capelli. Il mio cuore, allora, era pieno di paura, ma – com’era prevedibile, essendo io una bambina di cinque anni – non ci volle molto perché la paura svanisse. Ho sempre associato alla morte l’immagine di nonno Adalbert Mary che da sotto terra continuava a far crescere i fiori del suo giardino nonostante non fosse lì, e questo mi dava speranza.
Ognuno raccoglie quel che semina, anche nella morte. Perciò ho iniziato a seminare.
2
Sono stata sollevata dall’incarico, mi hanno licenziata, sei settimane prima di Natale – un momento che ritengo davvero vergognoso per mandar via qualcuno. Hanno assunto una donna, per licenziarmi, una di quelle agenzie esterne specializzate nel far fuori i dipendenti indesiderati nel modo più consono, così da evitare scenate, o passaggi in tribunale, o semplicemente per evitarsi l’imbarazzo di farlo da sé. La donna mi ha invitata a pranzo in un posticino tranquillo, ha aspettato che ordinassi un’insalata Caesar, ha chiesto per sé solo un caffè nero e poi è rimasta lì seduta a guardarmi che mi strozzavo con i crostini mentre mi annunciava la novità . Larry sapeva che non avrei mai accettato, se a dirmelo fosse stato lui, o qualcun altro dell’ufficio, sapeva che avrei cercato di fargli cambiare idea, che l’avrei messo nei casini con una bella causa, o che comunque avrei fatto casino. Stava cercando di farmi morire con onore, ma per me non era affatto un onore andarmene. Essere licenziati è una faccenda pubblica, dovevo dirlo alla gente. E se non dovevo farlo, era solo perché lo sapevano già . Mi sentivo in imbarazzo. Mi sento in imbarazzo.
Io ho iniziato come contabile. Alla tenera età di ventiquattro anni ho lavorato alla Trent & Bogle, una grossa società dove sono rimasta per un anno, poi sono passata abbastanza inaspettatamente alla Start It Up, dove fornivo consulenza finanziaria ai privati che desideravano avviare un’attività in proprio. Ho imparato che ogni storia ha sempre due versioni: quella ufficiale e la verità . La mia versione è che dopo diciotto mesi ho lasciato il posto per aprire qualcosa di mio; ispirata dal viavai di nuovi imprenditori che passavano dal mio ufficio, ero impaziente di trasformare anche le mie idee in realtà . La verità è che siccome sono malata di efficienza, mi irritava vedere la gente lavorare male, perciò mi sono messa in proprio. Ho avuto un tale successo che qualcuno alla fine si è offerto di comprare. E io ho venduto. Ho messo su un altro business e, di nuovo, l’ho venduto. Ho sviluppato velocemente l’idea successiva. La terza volta non ho avuto neanche abbastanza tempo per sviluppare l’idea perché qualcuno si è innamorato del concept, o magari temeva che potesse rinforzare le fila della concorrenza, e l’ha comprato su due piedi. Ed è così che sono arrivata alla mia relazione professionale con Larry, l’ultima start-up e l’unico lavoro da cui mi abbiano mai licenziata. L’idea di partenza non era mia, era di Larry, ma l’abbiamo sviluppata insieme, io ero il cofondatore e ho nutrito quella creatura come se fosse uscita dal mio utero. L’ho aiutata a crescere. L’ho guardata maturare, svilupparsi oltre ogni nostro sogno più ardito, e mi sono preparata per il momento in cui l’avremmo venduta. Ma non è successo. E io sono stata licenziata.
La nostra società si chiamava Idea Factory, aiutavamo altre imprese con le loro grandi idee. Non eravamo una semplice società di consulenza. Prendevamo le idee dei clienti e le miglioravamo, oppure ne creavamo una nostra, la implementavamo, la portavamo fino in fondo. La grande idea poteva essere il «Daily Fix», il quotidiano di un bar di quartiere con tutta la cronaca locale, una pubblicazione che sostenesse le imprese, gli autori, gli artisti del luogo; oppure un sex shop dove si vendeva gelato – un’idea mia, un grosso successo, dal punto di vista personale e professionale. Durante la crisi non abbiamo sofferto, anzi: abbiamo spiccato il volo. Perché se c’era una cosa di cui le aziende avevano bisogno, dati i tempi, quella cosa era l’immaginazione. Noi vendevamo la nostra immaginazione, e io adoravo farlo.
Ripensandoci ora, in questi giorni pigri, riconosco che il mio rapporto con Larry aveva iniziato a incrinarsi già da un po’. Io ero lanciata, forse ciecamente, sulla strada del «vendiamo tutto» come avevo già fatto tre volte, mentre lui era sulla posizione opposta. Un bel problema, col senno di poi. Credo di aver tirato troppo la corda, contattando potenziali compratori anche se sotto sotto sapevo che lui non voleva, e questo deve averlo messo parecchio sotto pressione. Per lui portare una cosa fino in fondo significava continuare a farla crescere, mentre per me voleva dire venderla e iniziarne un’altra. Io coltivavo l’idea di un graduale distacco, lui coltivava quella di restarci dentro. Se sapeste come si comporta con sua figlia adolescente e con la moglie, capireste la filosofia di vita che applica più o meno a tutto. Tenere duro, non mollare, quella è roba mia. Barra a dritta, caschi il mondo.
Ho trentatré anni, ho lavorato lì per quattro. Non mi sono mai presa un giorno di malattia, non ho mai ricevuto lamentele, non sono mai stata accusata di niente, non ho mai avuto richiami formali né una relazione inopportuna – o perlomeno, mai una che abbia avuto conseguenze negative per l’azienda. Ho dato tutto al mio lavoro, e comunque per il mio bene, perché era quello che volevo, ma mi aspettavo che la macchina a un certo punto mi desse in cambio qualcosa, che premiasse la mia lealtà . Credevo che essere licenziati non fosse un fatto personale, ma lo credevo perché ero sempre stata io a mandare via gli altri e non ero mai stata licenziata. Ora capisco che è un fatto personale, perché il mio lavoro era la mia vita. Gli amici e i colleghi mi sono stati vicinissimi, tanto che ho pensato che se mai dovesse venirmi un cancro preferirei curarmi in solitudine, senza farlo sapere a nessuno. Mi fanno sentire una vittima. Mi guardano come se dovessi essere la prossima a saltare su un aereo per l’Australia, l’ennesima risorsa superqualificata che va a lavorare in una piantagione di cocomeri. Sono passati solo due mesi e sto già mettendo in discussione il mio valore. Non ho scopi. Niente a cui offrire ogni giorno il mio contributo. Mi sento come se stessi solo prendendo dal mondo. Lo so che si tratta di una situazione momentanea, che avrò di nuovo la possibilità di giocare quel ruolo, ma al momento è così che mi sento. Soprattutto, sono passati quasi due mesi e mi annoio. Sono abituata a fare, ...