Storia di una capinera
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Storia di una capinera

  1. 192 pagine
  2. Italian
  3. ePUB (disponibile sull'app)
  4. Disponibile su iOS e Android
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Storia di una capinera

Informazioni su questo libro

Ah! ah! la cella dei matti!... no! no! per pietà, non son matta! ho paura!o paura!... quali lacrime! quanta schiuma sulla bocca! quanto sangue!... Ecco! ecco! aiuto!... morderò! morderò! son belva! son belva!

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Informazioni

Editore
BUR
Anno
2013
Print ISBN
9788817002202
eBook ISBN
9788858657034

STORIA DI UNA CAPINERA

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Avevo visto una povera capinera chiusa in gabbia: era timida, triste, malaticcia; ci guardava con occhio spaventato; si rifuggiva in un angolo della sua gabbia, e allorché udiva il canto allegro degli altri uccelletti che cinguettavano sul verde del prato o nell’azzurro del cielo, li seguiva con uno sguardo che avrebbe potuto dirsi pieno di lagrime. Ma non osava ribellarsi, non osava tentare di rompere il fil di ferro che la teneva carcerata, la povera prigioniera. Eppure i suoi custodi le volevano bene, cari bimbi che si trastullavano col suo dolore e le pagavano la sua malinconia con miche di pane e con parole gentili. La povera capinera cercava rassegnarsi, la meschinella; non era cattiva; non voleva rimproverarli neanche col suo dolore, poiché tentava di beccare tristamente quel miglio e quelle miche di pane; ma non poteva inghiottirle. Dopo due giorni chinò la testa sotto l’ala e l’indomani fu trovata stecchita nella sua prigione.
Era morta, povera capinera! Eppure il suo scodellino era pieno. Era morta perché in quel corpicino c’era qualche cosa che non si nutriva soltanto di miglio, e che soffriva qualche cosa oltre la fame e la sete.
Allorché la madre dei due bimbi, innocenti e spietati carnefici del povero uccelletto, mi narrò la storia di una infelice di cui le mura del chiostro avevano imprigionato il corpo, e la superstizione e l’amore avevano torturato lo spirito: una di quelle intime storie, che passano inosservate tutti i giorni, storia di un cuore tenero, timido, che aveva amato e pianto e pregato senza osare di far scorgere le sue lagrime o di far sentire la sua preghiera, che infine si era chiuso nel suo dolore ed era morto; io pensai alla povera capinera che guardava il cielo attraverso le gretole della sua prigione, che non cantava, che beccava tristamente il suo miglio, che aveva piegato la testolina sotto l’ala ed era morta.
Ecco perché l’ho intitolata: Storia di una capinera.
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Monte Ilice,1 3 Settembre 1854.

MIA CARA MARIANNA.

Avevo promesso di scriverti ed ecco come tengo la mia promessa! In venti giorni che son qui, a correre pei campi, sola! tutta sola! intendi? dallo spuntar del sole insino a sera, a sedermi sull’erba sotto questi immensi castagni, ad ascoltare il canto degli uccelletti che sono allegri, saltellano come me, e ringraziano il buon Dio, non ho trovato un minuto, un piccolo minuto, per dirti che ti voglio bene cento volte dippiù adesso che son lontana da te e che non ti ho più accanto ad ogni ora del giorno come laggiù, al convento. Quanto sarei felice se tu fossi qui, con me a raccogliere i fiorellini, ad inseguire le farfalle, a fantasticare all’ombra di questi alberi, allorché il sole è più cocente, a passeggiare abbracciate in queste belle sere, al lume di luna, senz’altro rumore che il ronzìo degli insetti, che mi sembra melodioso perché mi dice che sono in campagna, in piena aria libera, e il canto di quell’uccello malinconico, di cui non so il nome, ma che mi fa venire agli occhi lagrime dolcissime quando la sera sto ad ascoltarlo dalla mia finestra. Com’è bella la campagna, Marianna mia! Se tu fossi qui, con me! Se tu potessi vedere cotesti monti, al chiaro di luna o al sorger del sole, e le grandi ombre dei boschi, e l’azzurro del cielo, e il verde delle vigne che si nascondono nelle valli e circondano le casette, e quel mare ceruleo, immenso, che luccica laggiù, lontan lontano, e tutti quei villaggi che si arrampicano sul pendìo dei monti, che sono grandi e sembrano piccini accanto alla maestà del nostro vecchio Mongibello!2 Se vedessi com’è bello da vicino il nostro Etna! Dal belvedere del convento si vedeva come un gran monte isolato, colla cima sempre coperta di neve; adesso io conto le vette di tutti codesti monticelli che gli fanno corona, scorgo le sue valli profonde, le sue pendici boschive, la sua vetta superba, su cui la neve, diramandosi pei burroni, disegna immensi solchi bruni.
Tutto qui è bello, l’aria, la luce, il cielo, gli alberi, i monti, le valli, il mare! Allorché ringrazio il Signore di tutte queste belle cose, io lo faccio con una parola, con una lacrima, con uno sguardo, sola in mezzo ai campi, inginocchiata sul musco dei boschi o seduta sull’erba. Ma mi pare che il buon Dio debba esserne più contento perché lo ringrazio con tutta l’anima, e il mio pensiero non è imprigionato sotto le oscure volte del coro, ma si stende per le ombre maestose di questi boschi, e per tutta l’immensità di questo cielo e di quest’orizzonte. Ci chiamano le elette perché siamo destinate a divenire spose del Signore: ma il buon Dio non ha forse fatto per tutti queste belle cose? E perché soltanto le sue spose dovrebbero esserne prive?
Come son felice, mio Dio! Ti rammenti di Rosalia la quale voleva provarci che il mondo fosse più bello al di fuori del nostro convento? Non sapevamo persuadercene, ti ricordi? e le davamo la berta!3 se non fossi uscita dal convento non avrei mai creduto che Rosalia potesse aver ragione. Il nostro mondo era ben ristretto: l’altarino, quei poveri fiori che intristivano nei vasi privi d’aria, il belvedere dal quale vedevasi un mucchio di tetti, e poi da lontano, come in una lanterna magica, la campagna, il mare e tutte le belle cose create da Dio, il nostro piccolo giardino, che par fatto a posta per lasciar scorgere i muri claustrali al disopra degli alberi, e che si percorre tutto in cento passi, ove ci si permetteva di passeggiare per un’ora sotto la sorveglianza della Direttrice, ma senza poter correre e trastullarci... ecco tutto!
E poi, vedi... io non so se facevamo bene a non pensare un poco di più alla nostra famiglia! Io sono la più disgraziata di tutte le educande, è vero, perché ho perduta la mamma!... Ma ora sento che amo il mio babbo assai più della Madre Direttrice, delle mie consorelle e del mio confessore; sento che io l’amo con più confidenza, con maggior tenerezza il mio caro babbo, sebbene possa dire di non conoscerlo intimamente che da venti giorni. Tu sai che io fui chiusa in convento quando non toccava ancora i sette anni, allorché la mia povera mamma mi lasciò sola! Mi dissero che mi davano un’altra famiglia, delle altre madri che mi avrebbero voluto bene... È vero, sì... Ma l’amore che ho per mio padre mi fa comprendere che ben diverso sarebbe stato l’affetto della povera madre mia.
Tu non puoi immaginarti quello che io provo dentro di me allorché il mio caro babbo mi dà il buon giorno e mi abbraccia! Nessuno ci abbracciava mai laggiù, tu lo sai, Marianna!... la regola lo proibisce... Eppure non mi pare che ci sia male a sentirsi così amate...
La mia matrigna è un’eccellente donna, perché non si occupa che di Giuditta e di Gigi, e mi lascia correre per le vigne a mio bell’agio. Mio Dio! se mi proibisse di saltellare pei campi come lo proibisce ai suoi figli, sotto pretesto di evitare il pericolo di una caduta o di un colpo di sole... sarei molto infelice, non è vero? Ma probabilmente è più buona e più indulgente verso di me, perché sa che non potrò godermi tutti questi divertimenti per molto tempo, e che poi tornerò ad esser chiusa fra quattro mura...
Intanto non pensiamo a quelle brutte cose. Adesso sono allegra, felice e mi stupisco come tutta quella gente abbia paura e maledica il colèra...4 Benedetto colèra che mi fa star qui, in campagna! Se durasse tutto l’anno!
No, io ho torto! Perdonami, Marianna. Chi sa quanta povera gente piange mentre io rido e mi diverto!... Mio Dio! bisogna che io sia ben disgraziata se non devo esser felice che allorquando tutti gli altri soffrono! Non mi dire che son cattiva: vorrei essere soltanto come tutti gli altri, nulla di più, e godere coteste benedizioni che il Signore ha date a tutti: l’aria, la luce, la libertà!
Vedi come la mia lettera si è fatta triste senza che io me ne avvedessi! Non ci badare, Marianna. Salta a piè pari questo periodo sul quale tiro una bella croce, così... Ora in compenso ti farò vedere la nostra graziosa casetta.
Tu non sei mai stata a Monte Ilice, poverina! Che idea fu mai quella dei tuoi genitori d’andarti a seppellire in Mascalucia?5 Un villaggio!... delle case addossate ad altre case, delle vie, delle chiese!... Ne abbiamo viste anche troppe. Bisognava venire qui in campagna, fra i monti, ove per andare all’abitazione più vicina bisogna correre per le vigne, saltar fossati, scavalcar muricciuoli, ove non si ode né rumor di carrozze, né suon di campane, né voci di estranei, di gente indifferente. Questa è campagna! Noi abitiamo una bella casetta posta sul pendìo della collina, fra le vigne, al limite del castagneto. Una casetta piccina piccina, sai; ma così ariosa, allegra, ridente! Da tutte le porte, da tutte le finestre si vede la campagna, i monti, gli alberi, il cielo, e non già muri, quei tristi muri anneriti! Sul davanti c’è una piccola spianata e un gruppo di castagni che coprono il tetto con un ombrello di rami e di foglie, fra le quali gli uccelletti cinguettano tutto il santo giorno senza stancarsi mai. Io occupo un amore di cameretta, capace appena del mio letto, con una bella finestra che dà sul castagneto. Giuditta, mia sorella, dorme in una bella camera grande, accanto alla mia, ma io non darei il mio scatolino, come la chiama celiando il babbo, per la sua bella camera, e poi ella ha bisogno di molto spazio per tutte le sue vesti e i suoi cappellini, mentre io, allorché ho piegato la mia tonaca su di una seggiola ai piedi del letto, ho fatto tutto. Ma la sera quando dalla finestra ascolto lo stormire di tutte quelle fronde, e fra quelle ombre, che assumono forme fantastiche, veggo un raggio di luna agitarsi fra i rami come uno spettro bianco, e ascolto quell’usignuolo che gorgheggia lontano lontano, mi si popola la mente di tante fantasie, di tanti sogni, di tante dolcezze, che, se non avessi paura, aspetterei volentieri il giorno alla finestra.
Dall’altra parte della spianata c’è una bella capannuccia col tetto di paglia e di giunchi, ove abita la famigliuola del castaldo.6 Se vedessi la bella capanna, com’è piccina ma pulita! come tutto vi è in ordine e ben tenuto! La culla del bimbo, il pagliericcio, il deschetto!7 Per quella capannuccia sì che darei il mio stanzino! Mi pare che cotesta famigliuola, riunita in due passi di terreno, debba amarsi dippiù ed esser maggiormente felice; mi pare che tutte quelle affezioni, circoscritte fra quelle strette pareti, debbano essere più intime, più complete; che il cuore commosso e quasi sbalordito del cotidiano spettacolo di cotesto orizzonte ch’è grande, debba trovare un gaudio, un conforto nel ripiegarsi in sé stesso, nel rinchiudersi fra le sue affezioni, nel circoscriversi in un piccolo spazio, fra i pochi oggetti che formano la parte più intima di sé stesso, e che debba sentirsi più completo, trovandosi più vicino ad essi.
Che ti scrivo, che ti scrivo mai, Marianna?... Tu riderai di me e mi darai del sant’Agostino in gonnella.8 Perdonami, mia cara, ho il cuore così pieno che senza accorgermene cedo al bisogno di comunicarti tutte le nuove emozioni che provo. Nei primi giorni che uscii dal convento e venni qui, ero sbalordita, astratta, trasognata, come trasportata in un mondo nuovo; tutto mi turbava, tutto mi confondeva. Immaginati un cieco nato che per miracolo riacquisti la vista! Ora mi sono assuefatta a tutte coteste nuove impressioni. Ora mi pare di trovarmi il cuore più leggero, l’anima più pura. Parlo con me stessa, mi rispondo, faccio l’esame di coscienza; non quell’esame timido, pauroso, pieno di pentimenti e di rimorsi, quale lo facevamo al convento; ma un esame di contentezze, di felicità, benedicendo il Signore che me le concede, sentendomi sollevare sino a Lui da una lagrima, o col solo fissare gli occhi nella luna e nel firmamento stellato.
Mio Dio! se queste gioie fossero un peccato! se il Signore si sdegnasse di vedermi preferire al convento, al silenzio, alla solitudine, al raccoglimento, la campagna, l’aria libera, la famiglia!... Se fosse qui quel buon vecchio del nostro confessore, scioglierebbe il mio dubbio, dissiperebbe il mio turbamento, mi consiglierebbe, mi conforterebbe forse... Allorché mi assalgono questi scrupoli, allorché son tormentata da coteste incertezze, io prego il Signore che m’illumini, che mi consigli, che mi aiuti. Pregalo anche tu per me. Marianna.
Intanto io lo lodo, lo ringrazio, lo benedico, lo prego di farmi morir qui, o di darmi la forza, la vocazione, la rassegnazione, se dovrò proferire i voti solenni e rinunziare per sempre a tutte queste benedizioni, per chiudermi in convento e dedicarmi a Lui, a Lui solo, intieramente. Non sarò degna di tanta grazia; sarò una peccatrice... ma allorché, sul far della notte, veggo la moglie del castaldo, che recita il rosario col suo figliuoletto più grandicello fra le ginocchia, seduta accanto al fuoco, che cuoce la minestra di suo marito, dimenando col piede la culla in cui dorme il suo bimbo, mi pare che la preghiera di quella buona donna, calma, serena, piena della riconoscenza per la felicità prodigatale dal buon Dio, debba salire sino a Lui assai più pura della mia, che è piena di turbamenti, di ansie, di desiderii che non convengono al mio stato e dai quali non posso difendermi intieramente.
Vedi la lunga lettera che ti ho scritto! Non mi tenere più il broncio adunque, e rispondimi con una letterona più lunga della mia. Parlami di te, dei tuoi genitori, dei tuoi divertimenti e dei tuoi piccoli dispiaceri, come facevamo tutti i giorni, laggiù al convento, nelle ore di ricreazione, tenendoci abbracciate. Vedi, mi pare che io abbia chiacchierato a lungo con te, stringendoti le mani, come allora, e che tu mi abbia ascoltato col tuo solito risolino allegro e maliziosetto sulle labbra. Parlami dunque, parla a quattro bei fogli di carta (bada! che non mi contenterò di meno) essi mi racconteranno tutto quello che tu avrai detto loro per me. Ciarlami un po’ di tutto e a lungo. Dimmi quello che vedi, quello che pensi, che te ne fai del tuo tempo, se ti annoi, se ti diverti, se sei contenta, felice come me, se pensi alla tua Maria; dimmi il colore della tua veste, perché già so che hai una veste, come una signorina! Dimmi se hai dei bei fiori nel tuo giardino, se a Mascalucia ci son castagneti come qui, se hai assistito alla vendemmia. Parla dunque, ti ascolto. Non mi fare aspettar tanto a bocca aperta.
Addio, addio, Marianna mia, sorella mia; ti mando cento baci col patto di averli ricambiati.

La tua Maria.

19 Settembre.

MARIANNA MIA.

Qui non arrivano che cattive notizie, non si vedono che volti spaventati. Il colèra infierisce a Catania. È un terrore, una desolazione generale.
Del resto se non fossero questi timori, se non fossero queste angosce, qual vita più beata di quella che si mena qui? Il babbo va a caccia, o mi accompagna nelle lunghe passeggiate, quando potrei aver paura di smarrirmi pel bosco. Il mio fratellino, Gigi, corre, grida, fa chiasso, si arrampica sugli alberi, e vi lascia appeso tutti i giorni qualche brandello del suo vestito, e la mamma... (Marianna, se sapessi come mi vien difficile dare questo dolce nome alla mia matrigna! Mi pare di fare un torto alla memoria della mia povera madre... Ma pure bisogna chiamarla così!) e la mamma a sgridarlo, a dargli dei confetti, dei baci e degli scappellotti, a rammendargli gli abiti, a ripulirlo venti volte al giorno. Ella non sa che agucchiare e accarezzare i suoi figli, beati loro!... e spesso, mentre dà un’occhiata alla cucina o alla domestica che prepara il desinare, mi rimprovera che io non son buona a nulla, nemmeno a far la cucina... Pur troppo è vero! ella ha ragione. Non faccio altro che correre pei campi, raccogliere i fiorellini, e ascoltare il canto degli uccelletti... alla mia età! Ho quasi venti anni!... capisci? Ne arrossisco io stessa; ma il mio caro babbo non ha cuore di sgridarmi; egli non sa far altro che accarezzarmi e dire: Povera piccina! lasciatele godere questi giorni di libertà!
Ogni volta che penso alla mia povera mamma, che dorme laggiù nel Camposanto di Catania, mi vengono le lagrime agli occhi. Ma qui ci penso più spesso, perché mi par di essere straniera nella casa di mio padre. Nessuno ci ha colpa. Non sono abituati a vedermi, ad avermi fra i piedi: ecco tutto.
La mia matrigna poi, se mi rimprovera che io non son buona a nulla, ne ha le sue buone ragioni; gli è pel mio bene, e il torto è sempre mio. Mia sorella non è molto espansiva, perché non è pazzerella come me; ma mi vuol bene e non si lagna del disagio che io le arreco occupando quel piccol camerino ov’è rincantucciato il mio lettuccio, e che altre volte le serviva da guardaroba, mentre adesso tutte le sue scatole e le sue vesti ingombrano la sua camera. Gigi è sempre quel caro fanciullo allegro e chiassone che conosci; mi salta al collo venti volte al giorno, e mi consola con un bacio allorché la mamma mi sgrida per ragione dei suoi vestiti laceri. Ma che colpa ci ho io se al convento non mi ha...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. INTRODUZIONE
  4. CRONOLOGIA DELLA VITA E DELLE OPERE
  5. GIUDIZI CRITICI
  6. NOTA BIBLIOGRAFICA
  7. STORIA DI UNA CAPINERA
  8. Stimatissima signora Marianna.