Il piccolo amico
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Il piccolo amico

  1. 688 pagine
  2. Italian
  3. ePUB (disponibile sull'app)
  4. Disponibile su iOS e Android
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Il piccolo amico

Informazioni su questo libro

Harriet Cleve ha dodici anni e una vita vissuta sotto il segno di una tragedia di cui non ha memoria: quando era solo una neonata, suo fratello Robin è stato impiccato a un albero del giardino, ma il delitto che ha sconvolto l'esistenza della sua famiglia è rimasto insoluto. Giunta alla soglia dell'adolescenza, la ragazzina decide di sciogliere il mistero che avvolge la morte del fratello, scoprire l'assassino e ottenere finalmente vendetta. Un romanzo ricco di suspense in cui è difficile distinguere il vero dal falso, il colpevole dalla vittima, e che trascina il lettore negli abissi della fragilità umana.

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Informazioni

Editore
BUR
Anno
2014
Print ISBN
9788817001793

1

IL GATTO MORTO

Dodici anni dopo la morte di Robin Cleve, nessuno ne sapeva più di prima su come fosse finito appeso a un albero nel suo giardino.
In città si discuteva ancora di quella morte. Se ne parlava usualmente come dell’«incidente», anche se i fatti (analizzati durante i pranzi del bridge, dal barbiere, nelle baracche di pescatori e nelle sale d’aspetto dei medici, oltre che nei migliori salotti del circolo sportivo) parevano indicare tutt’altro.
Difficile credere che un bambino di nove anni arrivasse a impiccarsi per errore o per sfortuna. I particolari erano noti a tutti, e all’origine di molte dispute e supposizioni. La corda con cui era stato impiccato era un cavo di una fibra speciale usata qualche volta dagli elettricisti, e non si aveva idea di dove fosse spuntata o dove Robin avesse potuto procurarsela. Si trattava di una fibra spessa e resistente, e secondo l’ispettore mandato da Memphis, che ne parlò con lo sceriffo (adesso in pensione), un ragazzino come Robin non ce l’avrebbe mai fatta ad annodarla da solo. Il cavo, poi, era fissato al ramo in modo molto sommario, quasi dilettantesco: non si capiva, però, se ciò denotasse inesperienza o solo fretta nell’assassino. I segni sul corpo (così disse il pediatra, che aveva conferito con l’ispettore medico federale, che a sua volta aveva esaminato il referto del coroner della contea) lasciavano pensare che non fosse morto per la frattura del collo, ma per strangolamento. Qualcuno riteneva che fosse stato strangolato dalla corda, altri che fosse stato ucciso a terra e poi appeso all’albero.
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Non correvano dubbi, in città e nella famiglia di Robin, sul fatto che fosse incappato in un’atroce trappola di qualche tipo. Ma di che tipo esattamente, o congegnata da chi, era quanto nessuno riusciva a stabilire. Dagli anni Venti in poi c’erano stati un paio di casi di signore in vista assassinate dai mariti gelosi, ma erano scandali vecchi, e i protagonisti scomparsi da tempo. Di tanto in tanto ad Alexandria ammazzavano qualche nero, ma (come taluni bianchi si affrettavano a puntualizzare) erano in genere omicidi fra neri, commessi essenzialmente per questioni loro. L’omicidio di un bambino era tutt’altra faccenda – inquietante per tutti, ricchi e poveri, neri e bianchi – e nessuno riusciva a immaginare chi avesse potuto commettere una cosa simile, o perché.
Nel quartiere si parlò di un Misterioso Maniaco, e anni dopo la morte di Robin la gente giurava ancora di vederlo in giro. Le descrizioni concordavano solo sul fatto che si trattasse di una sorta di gigante, ma per il resto differivano parecchio. Qualche volta era nero, qualche volta bianco, qualche volta aveva evidenti segni di riconoscimento, come un dito mancante o un piede zoppo, o una livida cicatrice su una guancia. Per alcuni era un bracciante a ore che aveva strangolato e dato in pasto ai maiali il figlio di un senatore del Texas; per altri un ex buffone di rodeo, che adescava i ragazzini usando i suoi trucchi con la fune; o un pazzo psicopatico, ricercato in undici stati, evaso dal manicomio di Whitfield. Ma nonostante ogni ragazzo di Alexandria venisse messo in guardia contro di lui, e la sua figura massiccia fosse vista aggirarsi nei dintorni di George Street regolarmente a ogni Halloween, questo famoso Maniaco rimase una creatura evanescente. Dopo la morte di Robin la polizia fermò e interrogò tutti i balordi, vagabondi e guardoni nel raggio di cento chilometri, ma le indagini non portarono a nulla. L’idea di un assassino a piede libero non piaceva a nessuno, e così persisteva la paura: paura che quell’uomo battesse ancora la zona, spiando da un’automobile parcheggiata i bambini che giocavano.
Di questo genere di cose si discuteva però solo in città. Nella famiglia di Robin non se ne parlò mai.
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Nella famiglia di Robin si parlava di Robin. Si raccontavano aneddoti dei suoi primi giorni di vita, dell’asilo, della scuola, tutte le cose tenere o buffe o sconclusionate che aveva detto o fatto. Le sue vecchie zie ricordavano un’infinità di queste inezie: i giocattoli che aveva avuto, gli abiti che aveva messo, gli insegnanti che aveva amato o detestato, i giochi che aveva fatto, i sogni che aveva raccontato, ciò che non gli era piaciuto e ciò che invece aveva desiderato, o amato perdutamente. Alcuni particolari erano esatti, altri meno; per buona parte sarebbe stato impossibile dire se erano veri o falsi, ma quando i Cleve si accordavano su una cosa, questa automaticamente e irrevocabilmente diventava vera, senza che nessuno di loro serbasse coscienza dell’alchimia collettiva che l’aveva resa tale.
Le misteriose e controverse circostanze della morte di Robin non furono sottoposte a questo processo alchemico. Lo spirito revisionistico dei Cleve, pur dispiegato in tutta la sua forza, arretrava davanti alla mancanza di senso: non c’era qui una trama da sovrapporre ai frammenti, nessuna logica da inferire o una lezione nascosta, mancava una morale, in questa storia. Robin, ovvero quanto ricordavano di lui, era tutto ciò che restava; e lo squisito arazzo in cui rappresentarono la sua figura – meticolosamente abbellito nel corso degli anni – fu il loro massimo capolavoro. Robin era un piccolo seducente vagabondo, tanto più amato proprio in virtù delle sue bizzarre peculiarità; così accadeva che a tratti l’impulsiva esuberanza di lui vivo saltasse fuori con dolorosa nitidezza, e allora pareva davvero di vederlo sfrecciare tutto proteso in avanti, con il vento nei capelli, impegnato a pedalare con ogni sua energia, tanto da far ondeggiare leggermente la bicicletta. Si trattava però di una nitidezza illusoria, che prestava un falso attestato di verosimiglianza a un insieme largamente intessuto di elementi favolosi, perché altre volte la storia si faceva quasi trasparente, luminosa ma stranamente scialba, come lo sono le vite di certi santi.
«Quanto sarebbe piaciuto a Robin!» ripetevano trasognate le zie. «Quanto avrebbe riso Robin!» In verità Robin era un bimbo volubile, bislacco – malinconico a momenti, esilarante e irresistibile in altri – e da vivo questa sua imprevedibilità rappresentava gran parte del suo fascino. Eppure le sorelle minori, che in senso proprio non l’avevano mai conosciuto, crebbero con una serie di certezze sul suo colore preferito (il rosso), il suo libro preferito (Il vento nei salici) e di questo il suo personaggio preferito (Mr. Toad), il suo gusto di gelato preferito (il cioccolato) e la sua squadra preferita di baseball (i Cardinals), e migliaia di altre cose che loro – essendo vive e preferendo un giorno il gelato al cioccolato e il giorno dopo quello alla pesca – dubitavano di sapere persino riguardo a se stesse. Di conseguenza il rapporto con il fratello morto fu quanto di più intimo si potesse immaginare, con quel carattere che si stagliava forte, luminoso e immutabile rispetto all’incoerenza loro e di chi conoscevano; e crebbero convinte che ciò fosse dovuto a una sorta di angelica e rara incandescenza propria della natura di Robin, e non tanto al fatto che fosse morto.


Le sorelle di Robin erano cresciute molto diverse da lui, e molto diverse l’una dall’altra. Allison aveva ora sedici anni. La bambina timida, facile ai lividi e alle insolazioni e pronta alle lacrime per qualunque cosa, inaspettatamente si era fatta bella: gambe lunghe, capelli fulvi ramati, e grandi, umidi occhi marroni. La sua grazia era tutta nella sua vaghezza. Aveva la voce dolce, i modi languidi, i lineamenti sfumati e sognanti; e per la nonna Edie – che amava i contrasti e i colori decisi – era qualcosa di simile a una delusione. La bellezza di Allison fioriva ingenua e delicata, come i fiori di campo che sbocciano in giugno, fatta solo di quella freschezza giovanile che (nessuno meglio di Edie lo sapeva) è la prima ad andarsene. Sognava a occhi aperti, sospirava spesso, il suo passo era incerto – strascicato, le punte rivolte all’indentro – e così il suo parlare. Ma era carina, con il suo candore e la sua timidezza era carina, e i ragazzi della sua classe avevano cominciato a chiamarla al telefono. A Edie era capitato di osservarla (gli occhi bassi, la faccia rossa di vergogna) mentre teneva la cornetta tra la spalla e l’orecchio, giocherellando con la punta della scarpa e balbettando qualcosa imbarazzata.
Un vero peccato, si indispettiva Edie a voce alta, che una ragazza tanto dolce (che detto da lei significava pressappoco anemica, o malata) avesse un atteggiamento così dimesso. Allison avrebbe dovuto togliersi quei capelli dagli occhi. Allison avrebbe dovuto raddrizzare le spalle, stare ben eretta. Allison avrebbe dovuto sorridere, parlare a voce alta, coltivare qualche interesse e, se proprio non trovava nulla d’interessante da dire, interrogare gli altri sulle loro vite. Tutti questi consigli, seppur dati a fin di bene, erano spesso formulati in pubblico, e con una tale insofferenza che la ragazza scappava via dalla stanza piangendo.
«Non importa» diceva forte Edie, nel silenzio che seguiva a queste uscite. «Bisogna pure che qualcuno le insegni come comportarsi. Se non le fossi stata dietro come ho fatto, quella ragazza non sarebbe nella decima classe, ve lo dico io.»
Ed era vero. Allison non era mai stata bocciata, ma aveva rischiato diverse volte, specie alle elementari. Sulle pagelle, nella parte relativa alla condotta, si leggevano note come Svagata. Disordinata. Lenta. Manca di applicazione. «Be’, credo che dovresti solo metterci un po’ più d’impegno» diceva marginalmente Charlotte, quando Allison tornava a casa con le solite C e D sulla pagella.
Ma se Allison e sua madre non parevano preoccuparsi per i brutti voti, Edie se ne preoccupava eccome. Piombava a scuola e chiedeva colloqui con i professori; torturava Allison con elenchi di letture, con l’ortografia e con lunghi problemi matematici; segnava a penna rossa, persino adesso che era alle superiori, i suoi commenti ai libri e i suoi elaborati di scienze.
Inutile ricordarle che neanche Robin era mai stato uno scolaro modello. «Era pieno di vita» ribatteva secca. «Presto avrebbe cominciato ad applicarsi seriamente.» E con ciò si avvicinava più di quanto pensasse al nocciolo della questione, perché – come sapevano bene tutti i Cleve – se Allison avesse avuto la vitalità del fratello, Edie le avrebbe perdonato tutte le C e D di questo mondo.
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La morte di Robin, dunque, e i successivi anni, indurirono il cuore di Edie, mentre Charlotte precipitò in un’indifferenza che velava e sbiadiva ogni aspetto della sua vita. E se ogni tanto si sforzava di rimbrottare Allison, lo faceva blandamente e senza alcuna convinzione. In questo giunse a somigliare al marito Dixon, che si era sempre limitato a fornire alle figlie un sostegno economico decente, senza curarsi troppo di seguirle né di incoraggiarle. Nel suo disinteresse, d’altra parte, non c’era nulla di personale: era un uomo di molte opinioni, e il suo basso concetto delle figlie femmine si palesava apertamente nel corso delle conversazioni, con noncuranza e buon umore (nessuna delle sue figlie, amava ripetere, avrebbe ereditato un soldo).
Dix non aveva mai passato molto tempo in casa, e ora quasi non ci stava proprio. Proveniva da quella che Edie considerava una famiglia di villani rifatti (suo padre aveva un ingrosso di accessori idraulici) e quando aveva sposato Charlotte – attirato dal nome, dalla famiglia – credeva che fosse molto ricca. Il matrimonio non era mai stato felice (lavoro in banca fino a tarda sera, notti al poker, e poi la caccia, la pesca e il football e il golf, e ogni scusa buona per scappare nel fine-settimana), ma le cose erano peggiorate dopo la morte di Robin. Dix avrebbe voluto farla finita con il lutto, non sopportava le stanze silenziose, quell’atmosfera d’abbandono, d’inerzia e di tristezza. Accendeva la televisione a tutto volume e girava per casa come un leone in gabbia, battendo le mani, spalancando le imposte e dicendo cose come: «Su con la vita!» e «Vediamo di alzarci adesso!» e «Siamo una squadra, no?». Era sinceramente stupito che i suoi sforzi non venissero apprezzati. Infine, quando fu chiaro che le sue esortazioni non avrebbero cacciato di casa la tragedia, se ne disinteressò completamente, e – dopo un periodo fatto di assenze sempre più prolungate e frequenti – accettò senza pensarci una vantaggiosa offerta di lavoro nella banca di un’altra città. Fece passare la cosa per un grande e altruistico sacrificio. Ma chiunque lo conoscesse capì che Dix non era andato in Tennessee per il bene della famiglia. Dix aveva bisogno di una vita brillante, con macchine di lusso e feste esclusive, partite di football, locali notturni a New Orleans e vacanze in Florida; voleva cocktail e risate, una moglie che tenesse la casa sempre a posto al pari della propria acconciatura, pronta a spuntare al primo cenno con un vassoio d’antipasti in mano.
Ma la famiglia di Dix non era allegra né brillante. Sua moglie e le sue figlie erano eccentriche, chiuse e malinconiche. Peggio ancora: dopo quanto era successo la gente li vedeva – anche lo stesso Dix – come segnati da un marchio oscuro. Gli amici li evitavano, le altre coppie avevano smesso di invitarli e i conoscenti non li chiamavano più. Non c’era nulla da fare: alla gente non piace ricordare la morte e le altre brutte cose. Per tutte queste ragioni Dix si era risolto a barattare la famiglia con un ufficio dai pannelli di legno alle pareti e una movimentata vita sociale a Nashville, senza il minimo senso di colpa.


Per quanto Edie la trovasse irritante, Allison era adorata dalle zie, che giudicavano teneri o persino poetici molti suoi atteggiamenti, gli stessi per i quali Edie si innervosiva. Per loro la nipote non era soltanto carina, era anche dolce – cedevole, paziente, gentile con gli animali, i bambini e le persone anziane – una virtù che ai loro occhi contava enormemente di più dei buoni voti a scuola o di un eloquio brillante. Così la difendevano sempre, e una volta la zia Tat si rivoltò infuriata contro Edie. Dopo tutto quello che ha passato, quella bambina! Il che bastò a zittire Edie, almeno temporaneamente. Perché nessuno dimenticava che Allison e la piccola erano le uniche a trovarsi in giardino quell’atroce giorno; e anche se Allison aveva solo quattro anni, di sicuro qualcosa vide, qualcosa di verosimilmente tanto orribile da portarla vicina alla pazzia.
Subito dopo il fatto fu interrogata lungamente sia dai familiari, sia dalla polizia. C’era qualcuno in giardino, forse un adulto, un uomo? Ma Allison – che pure aveva iniziato inspiegabilmente a bagnare il letto e a svegliarsi di notte, urlando, in preda a un cieco terrore – non rispose né sì né no. Continuò a succhiarsi il pollice stringendo il cagnolino di pezza, senza dire neanche come si chiamasse o quanti anni avesse. Nessuno, neanche Libby – la più dolce e paziente delle vecchie zie – riuscì a cavarle una parola di bocca.
Allison non ricordava suo fratello, e per quanto si sforzasse non rammentò mai nulla della sua morte. Qualche volta, da piccola, dopo che tutti in casa erano andati a dormire, rimaneva sveglia nel suo letto a guardare l’intrico di ombre sul soffitto, regredendo con la mente fin dove le era possibile. Ma cercare risultava inutile, perché non c’era nulla da trovare. La spensierata beatitudine dei suoi primissimi anni permaneva, impenetrabile, immutata e lucente – la veranda, la vasca dei pesci, il gatto, le fioriere – ma se spingeva troppo indietro il pensiero giungeva sempre a uno strano punto in cui il giardino era deserto, la casa abbandonata, e ovunque c’erano i segni di una partenza subitanea (i panni appesi al filo, i piatti sporchi del pranzo ancora sulla tavola): l’intera famiglia era scomparsa, dissolta, non sapeva dove; e il gatto rosso di Robin – ancora un cucciolo, allora, non il gattone languido e leonino che poi sarebbe diventato – le schizzava davanti come un pazzo, gli occhi vitrei, attraversava il prato e andava a rifugiarsi sopra un albero, impaurito da lei come se non l’avesse mai vista. E in verità non era proprio lei, in questi ricordi, non quando si spingeva tanto indietro. Riconosceva bene i luoghi fisici in cui erano ambientati – George Street numero 363, la casa dove aveva vissuto per tutta la vita – ma lei, Allison, era irriconoscibile persino a se stessa. Non bambina e neppure adolescente: soltanto uno sguardo, due occhi che si soffermavano su quei luoghi familiari e li consideravano, ma senza una personalità, un corpo, un’età, un passato, come se ricordasse cose avvenute prima che lei nascesse.
Allison non rifletteva mai su tutto ciò se non in modo vago e indistinto. Da piccola non le era mai capitato di domandarsi cosa significassero quelle impressioni senza corpo, e tantomeno le capitava ora che era cresciuta. Pensava poco al passato, in generale, discostandosi in questo nettamente dalla propria famiglia, che si poteva dire non pensasse ad altro.
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Così nessuno di loro la capiva. Non avrebbero potuto neanche se avesse cercato di spiegarglielo. Una simile visione del mondo era al di là del concepibile, per spiriti come i loro costantemente assediati dal ricordo, per cui presente e futuro esistevano solo in relazione ai corsi e ricorsi delle vicende umane. La memoria – fragile, fosforescente e prodigiosa – significava per loro l’essenza stessa della vita, e a essa si appellavano ogni volta che iniziavano a parlare: «Te la ricordi quella coperta di batista verde, a fiori?» ripetevano la madre e le zie; «Le rose multiflora? I pasticcini al limone? E quella splendida Pasqua tanto fredda – Harriet era ancora piccola – quando tu cercasti le uova nella neve e faceste quell’enorme coniglio di Pasqua nel giardino di Adelaide?»
«Sì, sì» mentiva Allison, «mi ricordo.» E in qualche modo era vero. Aveva sentito tante volte quelle storie da saperle ormai a memoria; e se voleva era in grado di ripeterle, introducendo persino nel racconto qualche particolare trascurato: i fiori rosa del melo, per esempio, che lei e Harriet avevano usato p...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Dedica
  4. PROLOGO
  5. 1 - IL GATTO MORTO
  6. 2 - IL MERLO
  7. 3 - IL BILIARDO
  8. 4 - LA MISSIONE
  9. 5 - I GUANTI ROSSI
  10. 6 - IL FUNERALE
  11. 7 - LA TORRE DELL’ACQUA
  12. RINGRAZIAMENTI