1
Cominciava ad albeggiare. Sul mare di Città del Capo si specchiavano, come fiamme di un colossale incendio, i primi raggi del sole, che sulla terraferma lambivano i tronchi delle palme da cocco. L’oscurità si ritirava intorno all’unica abitazione sullo sperone di roccia più alto del promontorio.
Ernest si svegliava accarezzato dalla prima luce del giorno; per questo non abbassava mai del tutto le tapparelle. Dalla stanza da letto, man mano che il sole si alzava, poteva scorgere le chiome delle palme che circondavano la casa scompigliate dalla brezza, i tronchi tinti di un grigio biancastro e le fronde di una tonalità verde acceso. Solo quando aprì le tapparelle, quella mattina, si rese conto di come fosse bella la giornata, e gli venne in mente un pensiero di Picasso: “Ci sono pittori che dipingono il sole come una macchia gialla, ma ce ne sono altri che, grazie alla loro arte e intelligenza, trasformano una macchia gialla nel sole”. Poi guardò lontano, oltre la rena di un bianco osseo, oltre l’acqua cristallina a riva, oltre il blu più intenso del golfo, e sulla linea dell’orizzonte scorse una miriade di nuvole che disegnavano mobili trame di luci e ombre sul tratto di mare che attraversavano. L’oceano si stendeva limpido e oleoso: a quell’ora, tutto sembrava una promessa di bonaccia. Lungo la spiaggia il mare moriva in uno sciabordio placido, mentre in prossimità delle scogliere si rompeva con una passiva regolarità sugli spuntoni corallini.
Osservando quel paesaggio incantato dall’ispirata bellezza, sembrava impossibile anche solo pensare che lungo quel tratto di costa decine di navi fossero affondate per le tempeste che v’infuriavano durante la stagione invernale. Ma non poteva essere considerato vendicativo né disonesto, l’oceano. Era semplicemente crudele, come il resto della natura. Quando era così calmo, però, era un piacere intenso nuotare avvolti da quel manto di seta, così, dopo un caffè, l’uomo s’infilò le infradito, prese un asciugamano e scese lungo lo stretto sentiero di ghiaia che conduceva alla caletta sottostante. Fece duecento bracciate verso il mare aperto e altrettante per tornare indietro, finché sentì sotto i piedi i ciottoli della riva. Dopo essersi asciugato, risalì lo stretto sentiero.
Per quanto modesta e un po’ trascurata, quella ex casa di pescatori in legno dipinta di bianco era comoda e ben ventilata, ombreggiata da una fila di palme da cocco: l’aria era sempre satura di resina e muschio balsamico. Le mura perimetrali erano scrostate e, dentro, le pareti grigie non intonacate erano così corrose dall’umidità dell’oceano che esalavano il gusto amaro della salsedine. Ma da lassù, inondata di luce dal sole africano tutto il giorno, la vista del mare era uno spettacolo incantevole: sì, quello era il posto perfetto per uno come lui, che aveva fatto della pittura la sua ragione di vita. Dopo una frugale colazione, con la seconda tazza di caffè fumante in mano l’uomo salì scalzo su per una scala a chiocciola al piano superiore, in una stanza stracolma di tele: il suo atelier. Ogni volta che ci entrava, aveva la confortante sensazione di essere scivolato lungo la spirale di una conchiglia di nautilo, e di essere giunto in un rifugio lontano dal mondo pieno di bozze nereggiate al carboncino, acquerelli che esultavano di tinte lievi, disegni a pastello dai colori primaverili, dipinti a olio dalla superficie granulosa e dalle rozze e spesse pennellate. Non si vedevano più le pareti, perché ogni centimetro di superficie era coperto di ritratti, paesaggi, suggestioni, astrattismi. Ultimamente trascorreva ore in stato di meditazione a contemplare quelle tele, forse perché con gli anni iniziava a intuire sempre più che le scene dipinte – il brulichio di un mercato africano, il volto scavato dalle rughe di un capo tribù bantu, quasi una corteccia di quercia – non si trovavano fuori ma dentro di lui, nella risacca della sua memoria e nella profondità del suo inconscio.
Quella mattina, però, come purtroppo gli stava capitando sempre più spesso, non si sentiva abbastanza ispirato per dipingere. Ormai sapeva che a nulla sarebbe servito intestardirsi su una tela: con l’esperienza aveva scoperto il rimedio per non soccombere sin dalle prime ore del giorno alla frustrazione della paralisi creativa: bastava limitarsi a preparare i colori, mescolando le pigmentazioni in cerca del giusto cromatismo. Così decise che, per migliorare il dipinto sul quale lavorava da settimane, dove su un chiarore velato si stagliavano le sagome di alcune barche, occorrevano, per delimitare la linea dell’orizzonte, toni freddi di cui non aveva ancora elaborato la miscela. Mescolò dunque in un barattolo bianco, blu e una quantità minima di Siena naturale fino a impastarli in un azzurro luminoso. Fece molte prove sulla teglia da forno che usava come tavolozza, sporcando il miscuglio con del giallo. Poi, soddisfatto del risultato, si guardò bene dal mettersi a dipingere. Avrebbe recuperato domani il tempo perso: non gli mancava molto per finire il quadro.
Verso le nove scese al piano di sotto, si vestì e montò sul fuoristrada, un Land Rover grigio, diretto in città. Perdersi nella folla che popolava i quartieri del centro gli dava l’impressione che l’intero mondo si riversasse dentro di lui, e questo giovava molto alla sua ispirazione. Ma in quel periodo non lo amareggiava solo la paralisi creativa: avvertiva infatti una sensazione di inutilità e insensatezza che gli sottraeva ogni slancio vitale, ogni desiderio, anche quello di salire nell’atelier. Provava nei confronti del creato una sottile delusione che non aveva ragione apparente: possedeva tutto ciò che un uomo poteva desiderare e soprattutto aveva una passione, la pittura. Ma gli mancava qualcosa che non riusciva a identificare. Tutto gli appariva vacuo, inutile, persino l’arte gli sembrava un palliativo per mascherare il non senso dell’esistenza. Forse era solo un vecchio immaturo e viziato, incapace di accettare che la giovinezza era ormai irrimediabilmente alle spalle.
Quando girava per la città in cerca d’ispirazione, spiava commessi e parrucchieri, e la loro energia, la loro spensieratezza lo lasciavano interdetto. Cercava di carpire loro il segreto della vitalità che li animava. Ma ogni tentativo si rivelava vano. Era assurdo invidiarli, pensava, eppure lui, artista di fama internazionale, si sentiva defraudato rispetto alle imprese, seppur ordinarie, che gli altri compivano, anche se in realtà non desiderava per sé niente di ciò che gli altri avevano. E il fatto che la vita in quel periodo non lo stesse trattando con i guanti bianchi – privilegio che riteneva spettasse di diritto agli artisti – lo prostrava nel profondo. Si chiedeva a cosa valesse dipingere capolavori, e la malinconia lo conduceva al capolinea creativo. Le fasi di stallo, lo sapeva bene, non erano una novità nella sua vita artistica.
Fin dagli inizi della sua carriera, Ernest aveva funzionato a cicli creativi, ed erano sempre state le donne che aveva avuto a ridargli la fiducia e la nuova linfa necessarie a uscire dall’abisso di depressione in cui sprofondava. Perché mister Hamilton non era solo un grande artista, ma anche un grande bambino. Infatti aveva sempre avuto bisogno di una donna accanto, una musa ispiratrice capace di dissolvere i suoi dubbi, seducente e insieme protettiva, a cui chiedere consiglio e, in definitiva, cui sottomettere per approvazione ogni intuizione. Donne madri e amanti, pronte a dirgli sempre che credevano in lui, che era il migliore. Senza di loro navigava alla deriva, perso nel mare delle proprie incertezze. Le donne che aveva amato erano state il suo faro, mentre ora viveva in solitudine totale, ormai da qualche anno. Dietro ogni grande artista c’è sempre una donna che gli impedisce di rovinare a terra dal piedistallo del proprio talento, e l’estroso artista inglese ne era la conferma. Nonostante non fosse mai stato considerato il migliore della sua generazione, era stato adorato dalle sue donne, anche se le aveva rese tutte disperatamente infelici a causa del suo carattere bizzoso e imprevedibile. Nel suo ambiente, però, era sempre stato trattato da enfant prodige, così ora, a più di cinquant’anni, non era cambiato in nulla rispetto alla sua prima giovinezza: era rimasto narcisista e vulnerabile, esuberante e insicuro.
A qualche miglio di distanza, Serena alzò la saracinesca del negozio, accese la luce e l’insegna PASSIONS FLOREALES illuminò le due vetrine che davano sulla strada: un’esplosione di colori che donava vivacità a quell’angolo della Cape Town coloniale, il centro storico della città. Davanti alle due ampie vetrine, riparati dal sole da una spessa tenda verde, c’erano secchi traboccanti di fiori e lunghi rami di foglie decorative: non ti scordar di me, rose bianche e rosa, primule e tante campanule. Dentro il negozio, le composizioni ordinate dai clienti, disposte in vasi di vetro trasparenti. Attorno agli steli avvolti stretti da nastri di raso stava pigiato del muschio vellutato, che manteneva l’umidità impedendo alla calura delle ore centrali della giornata di rovinare i petali e far appassire i fiori.
Serena guardò l’orologio – era stranamente in ritardo sul solito orario di apertura – e si recò subito nel retrobottega: occorreva carteggiare il tavolo, che cominciava a scheggiarsi dopo anni di servizio. Il legno era ruvido, e la carta vetrata per fare presa necessitava di molta forza, lasciando la sua trama impressa sulle dita. Pulito il pianale con un panno umido, spazzò il pavimento, raccogliendo i gambi recisi, le spine, i petali e i grovigli di filo da fiorista lasciati per terra il giorno prima. Spinse poi sul marciapiede le rastrelliere metalliche su cui avrebbero fatto bella mostra i fiori durante le sue composizioni. Poi aprì la pesante porta di metallo della cella frigorifera: dentro era buio e fresco, con i fiori allineati lungo le pareti, schierati in perfetto ordine, per famiglia, lunghezza del gambo e fioritura. Si era fatta un’ottima reputazione nel quartiere, e poiché non aveva ancora avuto il tempo di reclutare un assistente, doveva svolgere tutti i compiti da sola. Il lavoro era molto, per questo tutto doveva essere organizzato alla perfezione, da quando la domenica si recava al mercato dei fiori per fare il pieno per la settimana. Prima di aprire la porta – verso le nove di mattina – Serena andò a sedersi dietro la cassa, a osservare in strada; era l’unica pausa che si sarebbe concessa da lì alla sera. A quell’ora, era un intermibabile andirivieni, un affaccendato brulicare di persone e traffico. Trascorse una decina di minuti a osservare la fiumana di impiegati diretti verso i propri uffici. Poi aprì la porta, prese dalla cella una dozzina di calle stillanti, con i variopinti petali avvolti stretti e si mise a prepararle in bouquet. L’acqua colava dai gambi sulle maniche sottili della sua camicetta di cotone.
A metà mattina, Ernest stava ancora bighellonando per la città, soprappensiero, come inseguendo una visione alla quale non riusciva a dare corpo. A volte, nelle giornate ispirate, capitava che un’intuizione passeggera attraversasse il suo sguardo. Spesso, durante quelle epifanie, estraeva dalla tasca un bloc-notes per tratteggiare uno schizzo. Ma quello era un giorno nato storto, e, forse per questo, quando vide il negozio d’angolo, decise di fare un sopralluogo: quegli accostamenti di colore tra i fiori, in fondo, erano anche il suo mestiere. E del resto Ernest amava definirsi un “cacciatore di luce”. Quando si rese conto di non essere solo – due clienti lo precedevano – fu preso dall’impulso di andarsene, impaziente di natura com’era. Ma si rimise subito in fila, rapito dall’armonia e dalla bellezza degli accostamenti floreali disposti sul pavimento.
«Mi ha mandato Paul. Vuole gli stessi fiori dell’ultima volta, esattamente gli stessi» disse il primo cliente.
«Paul…? Ah sì, certo! Le porta i fiori ogni settimana, vero? Penso che abbia nostalgia di com’era un tempo. Bene… mi metto subito al lavoro!» rispose la ragazza, alzando un fiore viola scuro con un sole giallo al centro: «È una primula, bella, vero?». Aveva la forma di una girandola e se la fece roteare fra il pollice e l’indice prima di prenderne altre e inserirle nel mazzo. Dispose poi alcuni lillà intorno alle primule e fece comparire al centro delle pervinche, lasciando cadere a spirale fuori dalla composizione alcune campanule ondeggianti color avorio. Poi avvolse dei rametti di rosmarino intorno ai gambi e infine avvolse il mazzo in una carta marrone legata da un nastro bianco. Ernest trovò che quel bouquet avesse più a che fare con una scultura che con un semplice mazzo di fiori. Il cliente allungò a Serena cinquecento rands.
«Aspetti che le do il resto. È più del doppio!» disse.
«No, va bene così… Purché non gli faccia mai mancare i fiori a inizio settimana. Ci tiene tantissimo. A presto!» salutò, poi mise i soldi sul banco e uscì.
Il secondo cliente era una donna sulla quarantina. «Vorrei un mazzo di fiori speciale» esordì.
«Per che occasione?» chiese Serena.
«Per far sapere a qualcuno che lo amo…»
«Ah, capisco…» fece la fiorista, complice. E pensò subito alle rose, da sempre archetipo del romanticismo e della passione, ideali per dare voce ai sentimenti. Bisognava stare attenti nella scelta dei colori: rosse significavano amore, gialle gelosia… Il linguaggio segreto dei fiori era condiviso in tutte le culture occidentali, e lei, Serena, lo conosceva a menadito. Scelse quelle più scenografiche, le Meilland, dal nome del suo creatore. Avevano i petali di un caldo color oro che sui bordi divantavano rosa carminio. Ai raggi del sole, emanavano un profumo fruttato intenso, che terminava poi su note dolcemente speziate. Una volta prese dalla cella frigorifera, le allineò sul tavolo da lavoro. Erano perfette: i petali lisci e compatti, i boccioli avvolti a spirale. Mentre componeva il bouquet, il viso di Serena si trasformava, acceso dalla passione. Staccò dei fusti di pervinca dalle radici per farli diventare lunghi fili flosci e afferrò una dozzina di luminosi crisantemi rossi, avvolgendoli in un nastro e usando il filo da fiorista per farli scendere in frondosi riccioli intorno al cuore del mazzo. L’effetto era un fuoco d’artificio, una vera e propria dichiarazione naturale!
Quando le fu consegnata la composizione, il viso della donna s’illuminò, e poco dopo uscì dal negozio raggiante, certa che il suo sentimento sarebbe stato corrisposto.
Ora Ernest, impacciato, era rimasto l’unico cliente, e Serena non riuscì a evitare di squadrarlo incuriosita. A giudicare da come vestiva – camicia immacolata, un foulard di seta dai disegni cachemire al collo e pantaloni di tweed – non corrispondeva al genere di cliente che frequentava il suo negozio. Aveva quasi l’aria di un aristocratico del secolo scorso, forse un po’ dandy, e questo la intrigava. Doveva avere una cinquantina d’anni: così abbronzato, con quel viso energico acceso da due occhi intelligenti, limpidi, una chioma perfettamente pettinata, sale e pepe con una spruzzata d’argento sulle tempie, e un pizzetto ordinato. Era impossibile non notarlo.
«I fiori sono per lei o destinati a qualcuno?» gli chiese a un tratto Serena.
Dopo una breva esitazione, Ernest rispose a casaccio, colto impreparato: «Un matrimonio! Ecco… avrei bisogno di un mazzo di fiori da regalare alla sposa».
«Benissimo, adoro i matrimoni!» esclamò deliziata, e si mise subito al lavoro.
Poco dopo, un trionfo di peonie si adagiava su un cuscino di verbena color neve e grappoli di pallide rose rampicanti scendevano a cerchio dal mazzo stretto nel nastro di raso. Come stregato, Ernest restò qualche istante a guardare l’insieme. Poi finì col dire: «Sono davvero senza parole, non lo nego. Quanto ha appena realizzato è un vero capolavoro! Non pensavo nemmeno lontanamente si potessero fare composizioni così belle con dei fiori. Credo diventerò un cliente abituale. Possiede un tocco speciale, su questo non c’è dubbio! Ha un… non saprei come dire, ecco, sì, un modo particolare di ispirarsi?»
«Ispirarmi?» chiese Serena divertita, osservando quell’uomo elegante, il prototipo del gentiluomo. «Io lavoro d’intuito, tutto qui! Ho la passione dei fiori sin da bambina, sono cresciuta in campagna, e cerco di interpretare i bisogni di ogni cliente, mettendo insieme l’emozione che vuole esprimere e la straordinaria capacità che hanno i fiori nel darle voce…» Lo squadrò ancora, per accertarsi che quell’uomo elegante non la stesse semplicemente prendendo in giro. Aveva notato un lampo nel suo sguardo, innocente come quello di un bambino, che le era piaciuto, ma ora l’interlocutore le sembrava ancora più misterioso.
«Anche questo effluvio di essenze» continuò Ernest «è molto piacevole. Vede, sono un pittore, e il mio atelier sa sempre di trementina e colori a olio. Anche se potrei giurare di saper distinguere i diversi colori dall’odore, in realtà si tratta di semplice suggestione. Come il giallo limone che, quando viene spremuto dal tubetto argentato, profuma di sole, o l’azzurro oltremare che sa di salsedine. In verità, quasi tutti i pigmenti hanno lo stesso odore, perché sono mescolati con olio di semi di lino… Ma deve scusarmi, lo so, sto divagando. Non intendo farle perdere tempo! Mi premeva solo complimentarmi. A giudicare da questa composizione, lei possiede una sensibilità artistica molto superiore a tanti creativi miei amici che si vantano di essere pittori di fama! Possiede una, come dire… una vocazione per i colori, un dono raro, che va al di là del mero senso estetico. Riesce a leggerne il valore d’insieme. Per cui, si lasci dare un consiglio: è ancora giovane, deve coltivare questo talento. Ha mai provato a dipingere?»
Questa volta fu la giovane a esprimere stupore: «Dipingere?! No, non mi è mai capitato, se non quando faccio degli schizzi per i miei bouquet. Da questo lavoro attingo l’ispirazione per i miei clienti. Li vuole vedere?».
Ernest annuì, entusiasta. «Eccome! M’interesserebbe molto dare un’occhiata!» disse con il suo sorriso sornione, le labbra sottili e arcuate, gli occhi ammiccanti.
«Oh, rimarrà deluso, lo so, non sono nulla di speciale… ma se ci tiene! Li ho disegnati in tutti i modi, i bouquet: a matita, col carboncino, a inchiostro, alcuni persino a pastello. Stia tranquillo, non la farò aspettare! Ce li ho qui in negozio!»
La giovane donna si allontanò un istante nel retro, dove prese uno schedario in rovere nel quale aveva raccolto i disegni delle composizioni. Quando glieli mostrò, Ernest constatò che la tecnica pittorica era piuttosto rudimentale, ma i colori erano tra i più perfetti che avesse mai visto, e gli accostamenti magnifici. Rimase a lungo a studiarli, con il fiato sospeso.
«Non pronuncio a cuor leggero le parole che sto per dirle, ma non mi è mai successo in tutta la mia vita artistica di trovare un talento così cristallino, così promettente, completamente a digiuno di tecnica!»
«Anche se stento a crederci, ne deduco che… le piacciono i miei disegni?» lo interruppe Serena, stupita della propria impudenza.
«Le immagini sono grezze. La prospettiva è spesso sbagliata. Ma di questo non mi preoccupo… del resto, la si impara.»
«Impara! E come? Ma dice sul serio? Le sembra che io sia dotata? Dovrei iscrivermi all’Accademia di belle arti, o qualcosa del genere, per imparare a dipingere, vero?»
«Be’, sì, in effetti… Ma prima però dovrà essere certa di poter sostenere con successo gli esami di am...