Quando andiamo a casa?
eBook - ePub

Quando andiamo a casa?

Mia madre e il mio viaggio per comprendere l'Alzheimer. Un ricordo alla volta.

  1. 430 pagine
  2. Italian
  3. ePUB (disponibile sull'app)
  4. Disponibile su iOS e Android
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Quando andiamo a casa?

Mia madre e il mio viaggio per comprendere l'Alzheimer. Un ricordo alla volta.

Informazioni su questo libro

Michele Farina ha visto sua madre allontanarsi pian piano, inabissarsi fino a divenire quasi irraggiungibile. L'Alzheimer l'ha svuotata "con il cucchiaino dell'uovo alla coque", portandola via un po' alla volta ben prima del suo ultimo giorno. Come trovare un senso a un'esperienza del genere? Come superarla? Dopo dieci anni di silenzio, Farina ha deciso di farlo ripercorrendo – grazie al lavoro di giornalista – la propria storia in quella di altri, andando a cercare sua mamma negli occhi di malati sconosciuti. Ne è nata un'inchiesta unica nel suo genere, che descrive l'Italia dell'Alzheimer attraverso le vicende di pazienti, famiglie, operatori, ricercatori, strutture, associazioni. C'è Anna Maria, convinta di trovarsi nella casa di cura per inaugurare un nuovo negozio. C'è Emilio, che dopo quarantatré anni di matrimonio chiede alla moglie Elisa quando si sposeranno. C'è chi si è visto ridurre il vocabolario a due sole parole e chi invece ha una gran voglia di aprirsi e raccontare. Esperienze diverse, che disegnano però un percorso unitario. Il viaggio nel mondo di una patologia sempre più diffusa, complice l'allungarsi della vita, eppure "nascosta": vissuta come un tabù, con dolore e vergogna, spesso nell'isolamento. Perché l'Alzheimer sembra restare fuori anche dai radar delle istituzioni: il morbo dell'oblio dimenticato dalla società, e per cui ancora non esiste una cura.Il risultato è un libro al tempo stesso potente e delicato, scritto con la grazia appassionata e ricca di empatia di chi ha combattuto da vicino questa piaga troppo a lungo ignorata.

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Informazioni

Editore
BUR
Anno
2015
Print ISBN
9788817080781
eBook ISBN
9788858633274

1

Gli astronauti

Agli astronauti viene l’Alzheimer. Più che ai terrestri. Non è una consolazione: l’Alzheimer viene ai cani e agli orsi bianchi (che non vanno nello spazio), ai topi transgenici e ai geni della matematica, a chi mangia pochi mirtilli, a chi disdegna il tango. È venuto a mia madre, verrà a milioni di umani.
Per ora e non si sa per quanto, non c’è guarigione. Se però girovagassimo nella Via Lattea, anziché in questa valle di lacrime e catrame, saremmo ancora più esposti al male. Lo dicono scienziati americani della University of Rochester. Andare nello spazio è un fattore di rischio: colpa forse delle radiazioni cosmiche. Avrei detto il contrario. L’atmosfera ovattata, la distanza dagli ingorghi in tangenziale, la poca umidità: viaggiando leggeri e indisturbati nel vuoto siderale, il cervello dovrebbe funzionare meglio. Così resteremmo ancorati fino a cento anni alla boa del passato, appesi all’amo del futuro. Invece la malattia è una macchina del tempo: ti schiaccia nell’abitacolo di un eterno presente, ma nel giro di un secondo può scaraventarti indietro a quando eri bambino e al contempo spingerti avanti fino a farti chiedere alla donna che hai accanto da una vita: «Ma tu chi sei? Perché non ci sposiamo?». Fino a lasciarti senza parole, senza il controllo del tuo corpo, del tuo film: l’Alzheimer smonta e rimonta gli spezzoni, mescola le scene. All’inizio taglia i primi piani – i ricordi a breve termine – lasciando intatti gli sfondi. Mat Whitecross, un regista inglese il cui padre si è ammalato, l’ha definita una patologia «cinematografica».

La memoria nella grondaia

Nel 5-10% dei casi è un morbo che si eredita, come il colore degli occhi o un debito. Finora si sono scoperti tre geni molto coinvolti nel suo sviluppo, con almeno duecentotrenta mutazioni responsabili dell’Alzheimer «a insorgenza precoce», detto anche «familiare», che in genere compare prima dei sessantacinque anni. Negli altri casi, la grande maggioranza, si parla di Alzheimer «tipico» o in forma «sporadica», che in medicina è il contrario di endemico/epidemico. Il primo neurologo a cui ho detto che mia madre aveva sessantaquattro anni quando ha avuto la diagnosi mi ha guardato (mi è parso) con un certo interesse professionale: «Ah, però, giovane» ha risposto. Ho sentito un brivido. Mia mamma si è ammalata sulla linea di confine: sporadico o familiare? Come il mio anno di nascita, 1964: ultimo baby boomer o apripista della generazione X? Ah, però, giovane. Sì dottore, e negli ultimi tempi dimentico spesso le cose. Piccoli fatti appena accaduti, nomi, la faccia di una persona incontrata l’altro giorno. Dove ho appoggiato il telefonino? La tazza del tè? Una mattina ho messo qualcosa di assurdo, non ricordo più cosa, nella scarpiera. Sarà disattenzione, suggestione, o una strana nostalgia all’idea di imboccare la strada di mia madre: a volte penso di avercelo anch’io. L’altro giorno Ettore a tavola mi ha detto: «Da grande userò anch’io il coltello. E tu, papi, diventerai mio figlio». Eccola qui, la solita storia dei vecchi che ritornano bambini (con tanto di pannolini). Ho pensato a quante badanti mi potrei permettere una volta raggiunta la stagione in cui sarò lo sporadico smemorato figlio di mio figlio. «E tu allora mi imboccherai?» «Sì papi» ha risposto lui con aria incerta. Spero abbia di meglio da fare. Da ricordare.
Ettore ha compiuto tre anni e il suo cervello archivia nuovi ricordi meglio del mio che fa mezzo secolo. Per Aristotele l’anima raggiunge la maturità a quarantanove anni, me l’ha detto il filosofo Remo Bodei; ecco, è l’età che avevo quando ho cominciato questo viaggio da pendolare dell’Alzheimer. «Ettore, come si chiama il contadino che insegue Peter Coniglio nell’orto?» Abbiamo visto il cartone ieri sera ma mi sfugge quel maledetto nome. «McGregor» ribatte lui sicuro. E il cugino di Peter? Già che ci siamo, mi dici anche il nome del gatto di Geppetto? Stamattina non mi ricordavo il nome dei tubi che portano l’acqua piovana giù dal tetto. «Grondaie, papi.» Ma certo, più facile di così: grondaie.

Demenza giovanile

Il cervello ha gli anni del proprietario. Ad esempio la milza e il cuore sono più giovani, sottoposti a un ricambio continuo come altri tessuti. È affascinante. E consolante: non abbiamo una sola età, siamo un puzzle di generazioni differenti. Più che uno spaccato o un frullato della nostra storia, il corpo assomiglia a quei muri ristrutturati che preservano elementi architettonici di epoche precedenti. Nel mio convivono adulti e neonati, neuroni di un baby boomer e cellule epiteliali di un nativo digitale. Un globulo rosso «vive» in media 120 giorni (e copre 1600 chilometri). Nel fegato, se non ho capito male, il turnover cellulare richiede 300-500 giorni, sulle pareti dello stomaco solo 5. Certi muscoli nel petto di un trentenne hanno la metà dei suoi anni. Il cervello invece invecchia quasi tutto con noi. Ha la nostra età anagrafica: forse per questo si squaglia con il tempo?
In linguaggio scientifico si dice non che i neuroni «funzionano», ma che «sparano». E quando quest’arma si inceppa e non manda segnali, non si può ripararla più di tanto. Ciò succede con maggior frequenza nella grey age. Per questo è stata usata per molto tempo (e capita di sentirla ancora adesso) l’etichetta «demenza senile» contrapposta all’Alzheimer: come se l’essere senile la rendesse meno grave, più naturale, light. «Tuo marito ha l’Alzheimer?» «No, solo un po’ di demenza senile, sai com’è.» Be’, invece vengono ormai considerate dalla medicina la stessa cosa. Certo la senilità, l’età che avanza, è realmente il primo fattore di rischio per queste malattie neurodegenerative. La cosa curiosa, semmai, è che l’attenzione dei ricercatori intenti a risolvere il rebus dell’Alzheimer sia oggi concentrata sempre meno sugli anziani, chiusi nelle case di riposo, e sempre più sui cinquantenni e sessantenni a piede libero.
«I pazienti giovani detengono la chiave del mistero, ci servono loro» ripete Bruno Dubois, decano degli studiosi francesi. L’organismo dei vecchi è troppo incasinato: «Gli ottantenni hanno in media sette malattie in contemporanea». L’espressione tecnica è: comorbidità. Che fa pensare a qualcosa di morbido, piacevole. Una bella poltrona. È l’opposto. Comorbidità: tanti morbi insieme. Roba da sfasciacarrozze.
I ricercatori preferiscono un usato sicuro, con pochi chilometri. Cercano l’Alzheimer «allo stato puro». La tendenza prevalente, tra istituti di ricerca e case farmaceutiche, è questa: pescare nell’esercito dei sani per arruolare «coorti» di soggetti che si ritengono più predisposti. È una scommessa: seguire le coorti in marcia, sperimentare possibili rimedi su coloro che mostrano le primissime avvisaglie della malattia se non addirittura sui cosiddetti «presintomatici», chi cioè presenta fattori di rischio (astronauti, diabetici, sedentari, fumatori, alcolisti eccetera) ma nessun sintomo (come la perdita di memoria o il disorientamento). È questa la grande novità, il beffardo paradosso alzheimeriano del terzo millennio: nessuna scoperta in grado di garantire la guarigione, però progressi nella diagnosi precoce o «tempestiva». E allora largo (sporadicamente) ai giovani.

Mandanti e sicari

Non serve l’autopsia come ai tempi di mia madre (pochi anni fa) per accertare la diagnosi. Oggi gli anatomopatologi subiscono la concorrenza dei nerd del brain-imaging: basta un’immagine in 3D – una Pet (tomografia a emissione di positroni) funzionale da millecinquecento euro – più un’agevole puntura lombare (prelievo del liquor cerebrospinale), più qualche test neuropsicologico. Basta questo kit agli specialisti per scommettere sulla diagnosi con il 70% di chance di azzeccarla; per vedere se nella tua testa ci sono i primi buchi, se in alcune aree del cervello si consuma meno glucosio del normale (segno che la macchina comincia a perdere colpi), se si allargano i primi grovigli neurodegenerativi: i gomitoli di proteina tau e le famigerate placche di proteina beta-amiloide. Quelle placche le aveva già rilevate Alois Alzheimer, nel 1906, analizzando al microscopio i neuroni della prima paziente cui la sindrome fu diagnosticata, Auguste Deter, e sempre si ritrovano sul «luogo del delitto», anche se non è ben chiaro quale sia il loro ruolo: causa o conseguenza del male? Sono loro a «soffocare» i neuroni oppure provano (inutilmente) a fare da scudo? In che modo amiloide e tau sono complici? C’è un mandante e un sicario?
Anche i primi pazienti studiati dai pionieri dell’Alzheimer non erano anziani. Auguste morì a cinquantasei anni. Il secondo, un fabbricante di cestini curato dall’italiano Gaetano Perusini, morì a quarantacinque e passò gli ultimi tempi camminando avanti e indietro per la sua stanza al cronicario di Francoforte. L’ironia è che Alzheimer e la sua cerchia credevano di aver individuato una forma «giovanile» di demenza, contrapposta a quella senile. Dopo oltre un secolo si è tornati a studiare i cervelli della generazione Auguste, i cinquantenni, gli ultimi baby boomer.
Cercansi coorti relativamente giovani da monitorare e trattare con farmaci sperimentali. Si salvi chi può: mentre le case (di riposo e non) di ogni parte del mondo si riempiono di anziani con demenza senza speranza di guarigione, medici e scienziati si «consolano» cercando di guarire chi (ancora) non ce l’ha. Anticipando i tempi. Si moltiplicano i lavori scientifici (tutti da confermare) sulla strada della diagnosi precoce. Si studiano metodi semplici per scovare le tracce dell’AD (Alzheimer’s disease): per esempio da una ricerca del 2014 condotta alla University of Oxford sembrerebbe che la malattia possa essere «smascherata» dalla presenza di un particolare cocktail di otto proteine, rilevabili con un semplice esame del sangue. Secondo un altro lavoro, australiano, l’orrida beta-amiloide sarebbe già rintracciabile nella retina o sul cristallino di un malato in fase presintomatica. Dicono che la retina sia come un pezzo di cervello fuori dal cervello, quindi le placche si depositerebbero anche sul vetrino degli occhi. Invece un’indagine americana, condotta alla Columbia University su mille persone sane, metterebbe in relazione l’olfatto imperfetto con l’insorgere del morbo. L’odore dell’oblio?
Noi umani distinguiamo diecimila profumi, grazie al lavoro interpretativo dei neuroni. E il centro cerebrale dell’olfatto viene devastato dall’Alzheimer. Il test olfattivo di base si chiama Upsit: ti fanno sniffare quaranta cartoncini e devi distinguere le varie essenze. Un deficit di odorato sarebbe come un biglietto da visita dell’AD, ma studi analoghi sono stati fatti anche per il Parkinson. Cerco notizie su internet. Il set casalingo per l’Upsit si vende a ventisei dollari. C’è il problema che l’olfatto cambia da Paese a Paese: così, per esempio, tre odori del paniere americano (pan di zenzero, formaggio cheddar e birra di radice) nella versione italiana sono diventati mela, borotalco, pneumatico. Si potrebbe personalizzare il kit inserendo essenze di persone amate, o odiate?
Mentre scrivo cerco di ricordare l’odore che aveva la pelle di mia madre. In casa ho un sacchettino con i ciuffi di Attilio, il Pelosone, cane meraviglioso. Di lei, invece, niente. Domani chiederò a mio padre dove sono i suoi vestiti. Una volta ne abbiamo parlato ma non ricordo la conclusione. E negli ultimi anni non ci ho mai pensato. Eppure gli odori che si annidano in un cassetto, in un armadio, sono la cosa più viva che ci resta. Più intossicante, anche? Se pure avessi la corteccia cerebrale, la retina e le nari foderate di proteina amiloide, penso che saprei riconoscere un suo golfino tra mille, come chi dal gommista distingue una Goodyear da una Michelin, a occhi chiusi.

Spegnere l’altoforno

Dunque si lavora a poter diagnosticare l’Alzheimer (la più comune delle circa cento forme di demenza) quasi a colpo d’occhio, con un esame del sangue o della retina. Vai all’ospedale, ti fanno un prelievo, esci con il referto. Oddio, dove ho messo la macchina? Che domanda stupida, guarda qui: hai l’Alzheimer.
Di solito quello che la gente memorizza dell’Alzheimer, se non l’ha visto da vicino, è che è un disturbo che ingrippa la memoria. Una rogna che a ben vedere presenta anche lati positivi: ladro, io? Ma chi ha seguito il morbo in azione sa quanto più vasta e variegata sia la sua opera di scavo nella vita di una persona e di una famiglia. In Patrimonio, Philip Roth scrive che morire è un lavoro. E non sempre si fanno gli straordinari come nell’Alzheimer: ci sono «lavori» con una produttività impressionante e allora si finisce in pensione nel giro di un istante. Un crac, un flop, un patatrac. Più spesso sono corse a tappe, magari di montagna, come quelle a cui somigliano certi tumori che sfiniscono e sfigurano i corridori al traguardo. Se invece ci tocca un lento calvario allora le stazioni (le morti progressive) sono tante e diverse, si sgranano in media nell’arco di sette-dieci anni, o anche più.
L’arrestarsi di un cervello affetto da demenza mi fa pensare allo spegnimento dell’altoforno dell’acciaieria di Piombino (ci hanno provato di questi tempi) che è il più «senile» d’Italia: ci vuole tempo. Non è come staccare la spina. Togliere energia ai vari reparti (la memoria, il linguaggio, il movimento, la deglutizione eccetera) diventa un lavoro low-tech che gratta via grammi su grammi a un cervello da un chilo e mezzo: la malattia svuota con il cucchiaino dell’uovo alla coque, senza che lo svuotato forse se ne accorga appieno e lasciandolo senza tuorlo ma con un guscio privo di crepe e tutto sommato (ho sentito dire) con una bella pelle. Un lavoro di intarsio così lungo e così intenso non può non lasciare, almeno in chi assiste, una montagna di ricordi.

Andiamo a casa

Eppure io non mi ricordavo più quasi niente. «Con un cucchiaio di vetro scavo nella mia storia» cantava De André «ma colpisco un po’ a casaccio perché non ho più memoria.»
Della dipartita in slow motion di mia madre avevo dimenticato parecchio. Di quei dieci anni di lento smantellamento mi restava un puzzle di pochi pezzi. Come il tassello slabbrato di un pomeriggio di primavera a inizio malattia, credo nel 1994, l’anno in cui morì Ayrton Senna; anzi forse era proprio la domenica in cui Senna uscì di pista alla curva del Tamburello: la televisione accesa sul Gran Premio, e mia madre sulla soglia della cucina che ripete disperata: «Quando andiamo a casa?». «Ci siamo già, mamma.» «Andiamo a casa.» «Questa è la nostra casa» rispondo io con voce da implorante a impaziente. «Dietro a te c’è la cucina. Ti ricordi quando la nonna ha acceso la candela perché stava per nascere Paolo, e nel trambusto si è bruciato anche un pezzo di armadietto e per anni è rimasto il segno nero…»
Nella sua memoria è tutto bruciato: la candela, la cucina, la nostra infanzia, l’orientamento spazio-temporale, l’appartamento ai cinque palazzoni dove abbiamo vissuto trent’anni, tutto: «Portami a casa, per favore…».
La sua preghiera quel giorno mi ha colpito come qualcosa di unico, una bizzarria «esclusiva» ispirata al carattere un po’ zingaro di mia madre e ai suoi neuroni in folle giù per la discesa. Più tardi ho appreso che è un desiderio (uno smarrimento) comune a tutti i malati: tornare a casa, di solito quella dove sono cresciuti da bambini. Scoprirlo mi ha provocato una strana delusione: alla fine la malattia è un puzzle di pezzi standard, più che un quadro di pennellate uniche. Ma mi ha dato anche un certo comunitario sollievo: non riconoscere più la propria casa, e volervi fare ritorno, è il passaparola dell’Alzheimer.

La Moglie di Toro Seduto

Qualche anno dopo, eccola immobilizzata sulla poltroncina verde in cucina – un altro piccolo ricordo intatto – mio padre che la guarda ed esclama: «Franca, sembri la Moglie di Toro Seduto». Non so perché mi è rimasta impressa quella frase, ma mi ha sempre fatto molta tenerezza. L’Alzheimer può dare ai volti qualcosa di ieratico che si addice ai grandi capi. E ogni grande capo ha bisogno di una compagna e di un nemico. Il generale Custer non fa rima con il morbo di Alzheimer, però tutti e due sono effettivamente «cattivi» per antonomasia.
Davanti a malattie incurabili, come a nemici imprendibili, i familiari possono prendersela al massimo con i surrogati, i comprimari, le feroci mezze calzette, lo Stato oculatamente assente, i cattivi di serie C.

Il cattivo dell’Inps

Ne ricordo uno in particolare, di questi feroci avversari di bassa lega: il neurologo senza nome dell’Inps che doveva stabilire se mia madre, a sessantaquattro anni, avesse i requisiti per l’assegno di accompagnamento.
La malattia aveva cominciato a rovinare le cellule che regolano il campo visivo (oggi si direbbe che soffriva di una variante di AD denominata atrofia corticale posteriore, sigla in inglese PCA). Il primo segnale, che tutti abbiamo sottovalutato: «Faccio fatica a stirare». Normale, a una certa età, qualche problema con la vista. Ma il responso dell’ottico di San Biagio fu che non erano gli occhi: dieci decimi. Si provò ugualmente con gli occhiali bifocali. Inutile. La dottoressa di famiglia consigliò un neurologo. Dal modo in cui mia madre mise il cappotto sull’appendiabiti alla prima visita, quello affermò (poi) di aver intuito tutto e la fece ricoverare per accertamenti. Una settimana al San Gerardo, di fronte a casa nostra (dal balconcino in cucina cercavamo la sua finestra). Una settimana di es...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. 1 Gli astronauti
  4. 2 La bambola e l’affettatrice
  5. 3 Pelé, Didi, Vavá
  6. 4 Alis (quelli che si perdono)
  7. 5 Tilde e il cagnolino
  8. 6 Amori in bilico
  9. 7 Stato di Grazia
  10. 8 Casa, pane, Caraibi
  11. 9 Sante badanti
  12. 10 Nostra sorella peruviana
  13. 11 Bernardino, o Della memoria
  14. 12 Olio, mirtillo e culatello
  15. 13 Luigi parla con gli occhi
  16. 14 Il profumo del ghiaccio
  17. 15 Trecento anni di solitudine
  18. 16 Gli allettati
  19. 17 La grande burla
  20. 18 Farmaci e demoni
  21. 19 L’oro di Roberta
  22. 20 Amsterdam Caffè
  23. 21 Partoriscono i ghiacciai
  24. 22 La seducente biancheria di una volta
  25. 23 Pannoloni e foche robot
  26. 24 Grand Hotel Alzheimer
  27. 25 Le gatte della tranquillità
  28. 26 Vite da Oscar
  29. Indice