Nostromo
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Nostromo

  1. 528 pagine
  2. Italian
  3. ePUB (disponibile sull'app)
  4. Disponibile su iOS e Android
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Nostromo

Informazioni su questo libro

Raffigura le tormentate vicende di un paese latino-americano, realistico e immaginario a un tempo, si disegna nelle memorie personali dell'avventuriero Cervoni in sembianze di Nostromo. Una storia percorsa da un soffio di geniale novità, che unisce il romanzo di avventura a quello psicologico.

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Informazioni

Editore
BUR
Anno
2013
Print ISBN
9788817167000
eBook ISBN
9788858658116

PARTE TERZA

IL FARO

CAPITOLO SECONDO

Il capitano Mitchell, passeggiando sul molo, si rivolgeva la medesima domanda. V’era il dubbio che l’avvertimento del telegrafista di Esmeralda – un messaggio frammentario e interrotto – fosse stato erroneamente interpretato; ad ogni buon conto, il degno uomo aveva deciso di non andare a letto prima di giorno, e forse neppure allora. Riteneva d’aver reso un enorme servizio a Carlo Gould, e, quando ripensava all’argento messo al sicuro, si stropicciava le mani soddisfatto. Era orgoglioso, secondo il suo ingenuo modo di esserlo, d’aver avuto parte nella scelta di quell’abilissimo espediente; era stato lui che l’aveva attuato praticamente, suggerendo la possibilità d’intercettare al largo il piroscafo diretto a nord; e, per di più, sarebbe tornato a vantaggio della sua Compagnia che, altrimenti, se il tesoro fosse rimasto a terra e confiscato, avrebbe perso un nolo ben rilevante; infine, provava anche un gran piacere pensando alla delusione dei monteristi. Autoritario per indole e per la lunga consuetudine al comando, capitan Mitchell non era un democratico: arrivava, anzi, a professare un certo qual disprezzo per il parlamentarismo stesso, tanto che avea l’abitudine di dire: — Sua Eccellenza Don Vicente Ribiera, che io stesso e un mio dipendente, quel Nostromo, abbiamo avuto l’onore e il piacere di scampare a morte crudele, caro signore, si rimetteva troppo al suo parlamento. Era uno sbaglio – un grosso sbaglio, caro signore.
Quel vecchio, ingenuo uomo di mare che dirigeva il servizio della O.S.N. era convinto che negli ultimi tre giorni si fosse esaurita ogni possibilità di sorpresa da parte della vita politica della Costaguana. Più tardi prese l’abitudine di ammettere che gli avvenimenti successivi oltrepassarono ogni sua aspettativa. Innanzi tutto, Sulaco (in seguito all’intercettamento dei cavi telegrafici subacquei e alla disorganizzazione del servizio marittimo) era rimasta per quindici giorni interi tagliata fuori dal resto del mondo come una città cinta d’assedio.
— Si stenterebbe a crederlo, ma è stato proprio così, caro signore. Quindici giorni, né più né meno.
La relazione degli straordinari avvenimenti che si susseguirono in quel periodo e delle violente emozioni da lui provate acquistava una forza comica nell’enfasi del suo modo di raccontare. Esordiva sempre assicurando l’interlocutore che si era trovato «al centro degli avvenimenti dal principio alla fine»; poi cominciava a descrivere la partenza dell’argento e la propria, giustificabile ansia che quel suo dipendente», posto al comando della chiatta, non avesse a commettere qualche sbaglio. Senza voler considerare la perdita d’una quantità sì ingente di metallo prezioso, anche la vita del Señor Martin Decoud, giovane tanto simpatico, facoltoso e ben informato, si sarebbe trovata in pericolo se fosse caduto in mano ai suoi avversari politici. Capitan Mitchell assicurava anche d’aver provato, durante la solitaria veglia sul molo, non poca preoccupazione per l’avvenire del paese intero.
— Un’apprensione la mia, caro signore, — spiegava, — che si giustifica appieno in un uomo riconoscente per le molte cortesie ricevute dalle famiglie dei commercianti più cospicui e da quanti dispongono di rendite quaggiù, i quali, non appena tratti in salvo ad opera nostra dai furori della folla, mi parvero destinati a diventar preda nella persona e nei beni della soldataglia locale, che si comporta – come è fin troppo ben risaputo – con deplorevole barbarità nei riguardi dei cittadini durante i rivolgimenti politici. Per di più, signor mio, v’erano i Gould, tutt’e due, marito e moglie, verso i quali non posso far a meno di provare i più vivi sentimenti per la loro ospitalità e cortesia. Inoltre, partecipavo alle angustie dei nobiluomini del circolo “Amarilla”, che mi avevano accolto come socio onorario, trattandomi in ogni circostanza con riguardo e gentilezza, sia nella mia qualità di agente consolare sia come direttore di una primaria linea marittima. Confesso che pure la signorina Antonia Avellanos, la più garbata e compita tra le giovani dame a cui abbia mai avuto l’onore di rivolger parola, mi stava non poco a cuore. E una buona parte delle mie preoccupazioni era assorbita dal pensiero delle conseguenze per gli interessi della mia Compagnia in seguito all’arrivo di nuovi funzionari governativi. In poche parole, caro signore, ero estremamente preoccupato e stanchissimo, come del resto potrà facilmente rendersi conto, a causa degli inquietanti, memorabili avvenimenti nei quali mi trovai ad avere una parte modesta. La sede della Compagnia, che comprende pure il mio alloggio, si trovava a cinque minuti di strada e rappresentava una vera tentazione al mio bisogno di cenare e di stendermi sull’amaca, di notte riposo sempre in un’amaca, che è la più adatta a questo clima); ma tuttavia, caro signore, quantunque fosse chiaro che non potevo far niente per nessuno, mi era impossibile strapparmi dal molo, dove di tanto in tanto la stanchezza mi faceva barcollare. La notte era scura oltre ogni dire: la più scura che ricordi da quando sono al mondo; sicché cominciai a pensare che l’arrivo del trasporto di Esmeralda non potesse avvenire prima di giorno, a causa delle difficoltà di orientarsi nel golfo. Le zanzare pungevano come tante furie: prima delle recenti bonifiche eravamo infestati di zanzare, e nel porto ce n’era una razza speciale, caro signore, rinomata per la sua ferocia. Mi formavano una nuvola intorno alla testa, e indubbiamente, senza i loro attacchi, mi sarei addormentato mentre andavo in su e in giù col rischio di precipitare dall’alto della banchina. Fumavo un sigaro dopo l’altro, più per preservarmi da quelle crudeli morsicature che per un effettivo piacere del fumo. Alla fin fine, mentre avvicinavo – forse per la ventesima volata – l’orologio alla punta del sigaro per veder l’ora, e mi accorgevo con sorpresa che era soltanto mezzanotte meno dieci minuti, sentii il rumore di un’elica: e,’ per l’orecchio di un marinaio, in una notte così calma, non potevano sussistere dubbi al riguardo. Era un rumore appena percettibile, per la verità, dato che venivano avanti con prudenza, ad andatura minima, sia a causa del buio pesto sia per il desiderio di non rivelare troppo in anticipo la loro presenza: inutile precauzione, giacché credo di esser stato davvero l’unico essere vivente sul molo in tutta la sua lunghezza. Anche gli incaricati che di solito stavano di guardia, così come ogni altra persona, avevano abbandonato i loro posti nelle ultime notti, in seguito ai disordini verificatisi. Mi fermai restando nell’immobilità più assoluta dopo aver gettato il sigaro a terra e averlo calpestato: circostanza che dovette riuscire gradita alle zanzare, penserei, almeno a giudicare dall’aspetto che presentava la mia faccia la mattina dopo; ma questo fu un inconveniente da nulla in confronto col trattamento brutale cui venni sottoposto ad opera di Sotillo. Qualcosa che non si riesce neppure vagamente a concepire, caro signore; più degno di un marinaio che di un uomo sano di mente, per quanto privo d’ogni senso di onore e di rispetto. Ma Sotillo era furibondo per il fallimento dei suoi piani briganteschi.
E, in quanto a questo, capitan Mitchell aveva ragione. Sotillo era veramente infuriato. Tuttavia, il capitano Mitchell non venne subito posto in stato d’arresto; una invincibile curiosità lo aveva indotto a rimanere sul molo (che è lungo quasi quattrocento piedi1) per vedere, o meglio – per ascoltare l’operazione di sbarco in tutti i suoi particolari. Nascosto dietro il vagone che era servito al trasporto dell’argento e che poi era stato spinto indietro, fino al principio del molo, capitan Mitchell poté osservare il primo scaglione di soldati mentre sbarcava e si sparpagliava sulla spiaggia. Intanto, scendeva a terra anche il resto della truppa e si raccoglieva in una colonna la cui testa era via via arrivata così vicina a lui, che poteva distinguere la prima fila di soldati lunga quasi quanto il molo, lì, a pochi passi da lui. Poi, scalpiccio, brusio e strepito di armi cessarono, e tutti quegli uomini rimasero immobili e silenziosi per quasi un’ora in attesa che ritornassero le pattuglie inviate a esplorare. Dalla parte di terra non arrivava rumore alcuno tranne il profondo latrato dei mastini a guardia del deposito ferroviario, cui rispondeva l’abbaiare lontano dei cani che infestavano i dintorni della città. Un gruppo di sagome scure appariva separato dal resto di fronte alla colonna.
D’improvviso, il picchetto in cima al molo cominciò a dare il «chi va là» con voce sommessa ad alcune figure che si avvicinavano isolatamente dalla pianura. Erano le staffette mandate dagli esploratori che lanciavano qualche breve frase ai compagni e proseguivano in fretta, confondendosi nella gran massa immobile della colonna per andare a rapporto dallo stato maggiore. A capitan Mitchell venne in mente che la sua posizione poteva diventare tutt’altro che piacevole, anzi, addirittura pericolosa, quando improvvisamente, dal fondo del molo, si levarono un ordine e uno squillo di cornetta, seguiti da uno scalpicciar di piedi, dallo strepito delle armi e da un mormorio che si diffuse per tutta la colonna. Vicino a lui una voce forte comandò bruscamente: — Togliete di mezzo quel vagone! — Sentendo lo scalpiccio dei piedi scalzi che si avvicinavano, capitan Mitchell si tirò indietro, d’un passo o due; il carro, spinto d’improvviso da molte mani, si allontanò rapido sui binari e, prima ancora di capire quel che accadeva, si trovò circondato e preso per le braccia e per il bavero.
— Abbiamo colto qualcuno che si nascondeva qua dietro, mi teniente! — gridò uno di quelli che l’avevano catturato.
— Tenetelo lì fin che non sono passati tutti, — rispose la solita voce.
L’intera colonna sfilò a passo di corsa dinanzi al capitano Mitchell, e il rimbombo di quei passi smorì d’un subito sulla spiaggia. I catturatori lo tenevano stretto senza curarsi per niente delle sue proteste di essere suddito inglese, e senza prestare la minima attenzione alle sue risentite richieste di venire immediatamente condotto dal loro comandante; finché, da ultimo si isolò in un dignitoso silenzio. Con un cupo brontolar di ruote sulle tavole del molo, passarono due cannoni da campagna tirati a braccia; sopraggiunse quindi un gruppetto di soldati a scorta di quattro o cinque figure che camminavano in gruppo con un gran tintinnare di sciabole; dopo di che il prigioniero si sentì spingere per un braccio e ricevette l’ordine di andare avanti.
Durante il tragitto dal molo alla dogana capitan Mitchell dovette subire più d’un affronto per mano dei soldati: spintoni, botte sul collo, violente applicazioni del calcio dei fucili in fondo alla schiena. Le loro idee circa una rapida andatura non si accordavano coi concetti di lui riguardo la propria dignità. E si agitò, arrossì e cadde preda dell’accasciamento: pareva la fine del mondo.
L’ampio edificio era circondato dalle truppe, e i soldati, compagnia per compagnia, stavano ormai raccogliendo in fasci le armi disponendosi a trascorrere la notte distesi a terra, con addosso il poncho e lo zaino sotto il capo. Alcuni graduati andavano da una parte all’altra agitando le lanterne, e collocavano le sentinelle lungo i muri, ovunque vi fosse una porta o una finestra. Sotillo si premuniva per proteggere la propria conquista come se davvero dentro vi fosse il tesoro. Il desiderio che provava di far fortuna con un solo audace colpo di genio aveva sopraffatto le sue facoltà di ragionamento. Non voleva credere alla possibilità di un insuccesso; il solo accenno a simile eventualità lo faceva andare fuor di senno per l’ira, e ogni circostanza che pareva suggerire questa conclusione gli sembrava incredibile. Il racconto di Hirsch, così irrimediabilmente fatale per le sue speranze, non poteva essere ammissibile; d’altra parte è pur vero che quella storia di Hirsch era stata riferita in maniera così sconnessa e con tali segni di smarrimento, da farla realmente parere inverosimile. Era estremamente difficile trovare in quelle parole, come si dice, un capo o una coda. Sul ponte del piroscafo, subito dopo il suo salvataggio, Sotillo e gli altri ufficiali, impazienti ed eccitati come erano, non gli avevano nemmeno dato il tempo di raccogliere quel poco spirito che gli restava. Aveva bisogno d’essere tranquillato, addolcito e assicurato, invece lo trattarono con durezza, scuotendolo, schiaffeggiandolo e minacciandolo. E i suoi sforzi, i contorcimenti, i tentativi per gettarsi in ginocchio, seguiti dai più violenti strattoni per liberarsi – come se avesse voluto buttarsi fuori bordo -, le urla, le convulsioni e gli sguardi disperati dell’infelice dapprincipio li avevano riempiti di stupore, poi di sospetto circa la sincerità di simili manifestazioni, giacché erano uomini usi a sospettare di ogni profondo sentimento. Inoltre, la sua parlata spagnola divenne un miscuglio tale col tedesco, che la maggior parte di quanto diceva restava incomprensibile. Cercava di ingraziarseli chiamandoli «hochwohlgeboren Herzen1», e questa espressione risultò sospetta ai loro orecchi. Quando lo ammonivano rudemente di non scherzare, ripeteva ancora in tedesco le sue suppliche e le proteste di lealtà e innocenza, con ostinatezza, non rendendosi conto di quale lingua stesse usando. Senza dubbio lo avevano riconosciuto, trattandosi di un cittadino di Esmeralda, ma non per questo la faccenda appariva più chiara. Siccome non gli veniva in mente il nome di Decoud, che confondeva con quello di varie altre persone viste in casa Gould, sembrava che quella gente si fosse trovata tutta quanta sulla chiatta; e per un momento Sotillo ritenne di aver fatto andare a fondo i principali ribieristi di Sulaco al completo; ma l’improbabilità d’un fatto del genere gettava ulteriori dubbi sull’intero racconto. Hirsch era ammattito, oppure rappresentava una commedia, ostentando spavento e confusione, sotto l’incalzare delle circostanze, per nascondere la verità. Nella sua bramosia, eccitata al più alto grado della prospettiva di un enorme bottino, Sotillo non poteva credere a nulla che lo ostacolasse. Quell’ebreo doveva essere rimasto atterrito in seguito all’incidente, ma sapeva di certo dove fosse l’argento, e aveva, con la sua semitica malizia, inventato quella storia per metterlo completamente fuori strada.
Sotillo aveva stabilito il proprio quartiere al primo piano, in un vasto locale ricoperto di grosse travi nere. Non vi era soffitto, però, e l’occhio si perdeva nel buio fino al culmine tenebroso del tetto. Le pesanti persiane erano aperte, e su una vasta tavola apparivano un gran calamaio, alcune penne d’oca sporche e due cassette di legno quadrate, contenenti ciascuna mezzo quintale di sabbia; sul pavimento erano sparsi fogli di carta intestata, grigi e rozzi. La stanza doveva essere appartenuta a qualche alto funzionario delle dogane,...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. GLI ENIGMI DI UN CUORE SEMPLICE
  4. CRONOLOGIA DELLA VITA E DELLE OPERE
  5. BIBLIOGRAFIA
  6. NOTA DEL TRADUTTORE
  7. AVVERTENZA DELL’AUTORE
  8. PARTE PRIMA - L’ARGENTO DELLA MINIERA
  9. PARTE SECONDA - LE ISABELLE
  10. PARTE TERZA - IL FARO
  11. DIZIONARIETTO DEI VOCABOLI E DELLE ESPRESSIONI IN LINGUA SPAGNOLA