L'assommoir
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L'assommoir

  1. 496 pagine
  2. Italian
  3. ePUB (disponibile sull'app)
  4. Disponibile su iOS e Android
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Informazioni su questo libro

Settimo romanzo del ciclo dei Rougon-Macquart, la grande saga su una famiglia francese del secondo Ottocento, L'Assommoir (1877) racconta la lotta tenace e disperata della lavandaia Gervasia, trasferitasi a Parigi per tentare il suo sogno di emancipazione e ascesa sociale con l'amante Lantier. Ma il benessere, il decoro borghese e la felicità resteranno per lei un miraggio. Romanzo della moltitudine e della lotta solitaria dell'individuo, dell'ascesa e della caduta, ebbe al suo apparire uno straordinario successo e fu all'origine di una memorabile battaglia artistica. Da questo appassionante romanzo fu tratto il film Gervaise di René Clement.

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Informazioni

Editore
BUR
Anno
2013
Print ISBN
9788817168304

XI

Nanà cresceva, diventava una discola. A quindici anni si era sviluppata come una manzetta: bianchissima di carnagione, grassoccia anzichenò, tonda e soffice come un guancialino da spilli. Già, proprio così era: quindici anni, florida in tutti i sensi e senza busto. Uno sfrontato viso da monella dai colori stemperati nel latte, la pelle vellutata di una pesca, il naso birichino, un beccuzzo roseo, gli occhi tutto fuoco che mettevano voglia, agli uomini, di accendervi la pipa. La gran massa di capelli biondi, color di fresca avena, pareva le avesse spruzzato polvere d’oro sulle tempie, fulvi riflessi che la facevano parere incoronata da una ghirlanda di sole. Proprio una bella fregnetta, oh!, per dirla come i Lorilleux, una mocciosa che non ce la faceva ancora a smoccolarsi il naso come si deve, ma già aveva le spalle tonde e pienotte e tutta la particolare fragranza di buon frutto maturo della donna bella quando è al punto.
Adesso, Nanà, non si ficcava più pallottole di carta nel corsetto. Aveva lei, a suo luogo, tutto quel che ci voleva, due cosucce di raso bianco nuove nuove. E non la imbarazzavano proprio per nulla; avrebbe anzi voluto averne a piene braccia. Sognava due mammellone da balia, quella scriteriata, tanto la gioventù è ingorda e senza senno. Una cosa la rendeva appetitosa in modo tutto particolare, ed era la brutta abitudine presa di cacciar fuori, tra le due rastrelliere bianche di bei denti, un pezzettino di lingua. Indubbiamente, guardandosi negli specchi, si era trovata graziosa in quell’atteggiamento, e allora, così per far la bella, tirava fuori la lingua tutto il santo giorno.
“E nascondila un po’, codesta bugiardona!” le gridava sua madre.
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E spesso bisognava che Coupeau intervenisse, batten do il pugno, gridando e bestemmiando:
“Vuoi o non vuoi tirar dentro quel concetto rosso?”
Nanà si mostrava ambiziosissima. Non sempre si lavava i piedi, è vero, ma si comperava scarpettine così strette che soffriva il martirio di san Crispino; se poi, vedendola diventar violetta, qualcuno la interrogava, rispondeva che aveva le coliche per non confessare la sua civetteria. Quando in casa mancava il pane, le tornava piuttosto difficile mettersi in ghingheri. Allora, faceva miracoli, portava via nastri dal laboratorio, si improvvisava toelette, sovraccaricando di fiocchi e di gale vecchi vestiti sudici. La stagione dei suoni trionfi era l’estate. Con un vestitino di percalle da sei franchi passava tutte le domeniche, riempiva il quartiere della Goutte-d’Or della sua bellezza bionda. Proprio, la conoscevano dai boulevard esterni fino alle fortificazioni e dalla chaussée de Clignancourt allo stradone della Chapelle. La chiamavano “la pollastrina”, perché aveva davvero la carne tenera e la freschezza di una gallinella.
C’era un vestito, poi, che le andava davvero a pennello. Bianco a palline rosa, molto semplice, senza nessuna guarnizione. La sottana un po’ corta lasciava vedere i piedi; le ampie maniche aperte cascanti le scoprivano le braccia fino al gomito; l’accollatura del corpetto, che lei apriva a forma di cuore in un angolo scuro della scala con degli spilli, per evitare gli scapaccioni di suo padre, mostrava la neve del collo e le dorate ombre del petto. E null’altro, proprio nulla all’infuori di un nastro rosa annodato attorno ai biondi capelli, un nastro le cui estremità le svolazzavano sulla nuca. Con quel vestito aveva la freschezza di un mazzo di fiori. Sapeva di buono, un sentore di gioventù, di nudità infantile, di donna in pieno fiore.
A quel tempo, le domeniche erano per lei giornate di appuntamento con la folla, con tutti gli uomini che passavano e che la vagheggiavano. Le aspettava l’intera settimana, solleticata da piccoli desideri, sentendosi soffocare, presa dal bisogno d’aria libera, di passeggiare al sole, fra la calca vestita a festa del rione. La mattina, quando si vestiva, se ne stava per ore e ore in camicia davanti al pezzetto di specchio appeso sopra il cassettone; e siccome tutto il casamento poteva vederla dalla finestra, sua madre si stizziva, le domandava se non la voleva ancora smettere di passeggiare così in camicia. Lei, però, calma calma, si appiccicava tirabaci sulla fronte con l’acqua zuccherata, riassicurava qualche bottone agli stivaletti, dava un punto al vestito, le gambe nude, la camicia che le cascava dalle spalle, nel disordine dei capelli arruffati. Oh! era proprio carina a quel modo, diceva babbo Coupeau, sogghignando e prendendola un po’ in giro: una vera Maddalena penitente. Avrebbe potuto far la selvaggia sulle fiere e mostrarsi per due soldi. Poi le urlava: “Mettiti dentro codesta ciccia, sto mangiando il pane, io!” Ed era adorabile, così bianca e fine sotto la gran cascata di quei capelli biondi; mentre la stizza la prendeva al punto da farle avvampare la pelle, senza che osasse rispondere a suo padre e spezzando il refe con i denti, d’un colpo secco e rabbioso, che scuoteva con un fremito tutta quella nudità di bella figliola.
Poi, non appena fatta colazione, tagliava la corda, scendeva in cortile. La calda pace della domenica addormentava la casa; giù a pian terreno, le botteghe erano chiuse; gli alloggi sbadigliavano dalle finestre spalancate, mostravano le tavole, già apparecchiate per il pranzo della sera, che aspettavano le famiglie andate a farsi venire un po’ d’appetito sulle fortificazioni; una donna, sù al terzo piano, approfittava della giornata di festa per lavare la camera, rimuovendo il letto, spostando i mobili, cantando per ore e ore la stessa canzone, con un tono dolce e lamentoso. E in quella sosta d’ogni attività professionale, in mezzo al cortile deserto e risonante, si impegnavano partite di volano tra Nanà, Paolina e altre ragazzette. Erano cinque o sei, cresciute assieme, diventate oramai le regine del casamento, che si spartivano le occhiate dei signori uomini. Quando uno d’essi attraversava il cortile, si udivano risatelle flautate, e il fruscio delle loro sottane inamidate era come un murmure di vento. Sopra le loro teste vampeggiava l’afosa e pesante aria dei giorni festivi, illanguidita dall’ozio, quasi, e imbiancata dalla polvere sollevata lungo i luoghi di passeggio.
Le partite al volano, però, non erano che un pretesto per svignarsela. Di punto in bianco il casamento ricadeva nel massimo silenzio. Le ragazze erano sgattaiolate in istrada e corse a raggiungere i boulevard esterni. Là, tenendosi tutte e sei a braccetto, occupando la strada quanto era larga, passeggiavano nei loro vestitini chiari, a testa scoperta, i capelli annodati da bei nastri. Con la coda degli occhi vivacissimi lanciavano occhiatine così in tralice. Vedevano tutto, e rovesciando all’indietro, ad ogni scoppio di risa, il collo, mostravano il grasso della gola. In quei grossi scoppi di allegria, ogni qualvolta passava un gobbo o una vecchia sostava ad aspettare il suo cane alla cantonata, la fila delle sei ragazze si spezzava; alcune rimanevano indietro, mentre le altre davano loro energici strattoni, e tutte avevano un gran dimenare di fianchi, si aggomitolavano, si sbracciavano tanto, da richiamare l’attenzione della gente e da far scricchiare il busto sotto le forme nascenti. La strada era loro; vi erano diventate grandi, tirandosi sù le sottanelle davanti alle botteghe; ancora adesso se le tiravano sù, e fino al grosso delle cosce, per riallacciare le giarrettiere. In mezzo alla folla lenta e scialba, fra gli alberi rachitici dei boulevard, scorrazzavano così dalla barriera di Rochechouart alla barriera Saint-Denis, urtando la gente, fendendo i capannelli a zig-zag, voltandosi indietro e gettando qualche parola in mezzo a quelle grandi esplosioni di risate. E le loro vesti svolazzanti si lasciavano dietro l’insolenza della gioventù. Si esibivano così all’aria aperta, in piena luce, con la volgare grossolanità di gente di malaffare, desiderabili e tenere vergini che tornano dal bagno grondanti d’acqua dalla testa ai piedi.
Nanà stava sempre in mezzo alle altre, con la sua vesticciuola color rosa cui il sole pareva che appiccasse il fuoco. Dava il braccio a Paolina, il cui vestito dai fiori gialli sopra un fondo bianco, picchiettato di fiammelle, spendeva anch’esso. E siccome erano loro le due più attempate, le più donne e le più sfrontate, guidavano la compagnia, impettendosi sotto gli sguardi e i complimenti; le altre, le monelle, facevano coda a destra e a sinistra, cercando di gonfiarsi per essere prese sul serio. Nanà e Paolina avevano, sotto sotto, complicatissimi piani di astuzie, da civette. Se correvano al punto da non riuscire più a tirare il fiato, lo facevano per mostrare le calze bianche e per far svolazzare meglio i nastri delle capigliature. Quando poi si fermavano, ostentando di sentirsi mancare il fiato, col petto tutto sconvolto e palpitante, c’era sempre, inutile dirlo, là nei dintorni, qualche loro conoscenza, qualche giovanotto del quartiere, e allora camminavano languide languide, sussurrando e ridendo, guardando con la coda dell’occhio senza darlo a divedere. Trottavano a quel modo, quelle ragazze, proprio per tali incontri fortuiti, in mezzo alla ressa che gremiva la strada. Giovanotti vestiti della festa, con giacca e cappello tondo, le trattenevano per un istante sull’orlo del marciapiede, a scaramucciare un poco di parole e a tentare di pizzicarle alla vita. Operai di vent’anni, per nulla eleganti nelle bluse bigiognole, parlavano con loro piano piano, le braccia incrociate, soffiandogli nel naso il fumo delle pipe. La cosa non aveva nessuna conseguenza, ché quei monelli erano cresciuti nella strada con loro. Nel numero, però, le ragazze già facevano la scelta. Paolina si imbatteva sempre in uno dei figli della Gaudron, un falegname di diciassette anni che le pagava le mele. Nanà scorgeva da un capo all’altro della strada Vittorio Fauconnier, il figlio della stiratrice, con il quale si sbaciucchiava nei cantucci bui. Né la cosa andava più in là; erano troppo viziosi per commettere sciocchezze senza saperlo. Soltanto, se ne dicevano da levare la pelle.
Poi, quando calava il sole, la gran delizia di quelle mariole era di fermarsi davanti ai saltimbanchi. Arrivavano giocatori di bussolotti, atleti che stendevano a terra sulla strada un tappeto consunto dall’uso. Allora i girelloni si raggruppavano, si formava un cerchio, mentre il saltimbanco, nel mezzo, metteva in moto i muscoli nel maglione sbiadito. Nanà e Paolina rimanevano per ore e ore in piedi, dove la folla era più fitta. Le braccia nude, il collo nudo, i capelli scoperti si scaldavano a quegli aliti appesantiti, entro un gran lezzo di vino e di sudore. E loro ridevano, divertite, senza nessun disgusto, più rosee, e come stessero sul loro naturale mucchio di letame. Attorno si sentivano parole sconce, sudicerie da non dirsi, commenti di ubriachi. Era il loro linguaggio, sapevano tutto, loro, si voltavano indietro con un sorriso, tranquille nella propria spudoratezza, senza che il delicato pallore della pelle di raso si turbasse per nulla.
Una sola cosa le contrariava: imbattersi nei padri, specialmente quando avevano bevuto. Stavano attente e si avvertivano a vicenda:
“Ohi, Nanà,” gridava Paolina a un tratto; “viene papà Coupeau!”
“Ah! bene; è sbronzo, no? Volevo ben dire che non avesse bevuto,” diceva Nanà fuori dalla grazia di Dio. “Io me la svigno, sapete! Non ho nessuna voglia di farmi scuotere giù le pulci... To’! che tombola!... ma perché non si è spaccato del tutto la testa, santo Dio?”
Altre volte, quando Coupeau le arrivava direttamente addosso senza lasciarle il tempo di scappare, Nanà si accoccolava, mormorando:
“Nascondetemi, voialtre! Mi cerca, mi ha promesso di levarmene la voglia, se mi becca ancora a passeggiare”.
Poi quando l’ubriacone era passato oltre, si rimetteva in piedi e tutti la seguivano, mandandosi a male dalle gran risate. La troverà, non la troverà!... Era proprio, per quei due, un giocare a rimpiattino. Una volta, però, Boche era venuto a prendere Paolina per gli orecchi e Coupeau aveva ricondotto a casa la sua Nanà a calci nel sedere.
Imbruniva, frattanto; le ragazze facevano un ultimo giretto e poi, nel bigio crepuscolo, rientravano in mezzo alla folla stanca morta. La polvere nell’aria era più densa e il cielo pesante ne impallidiva. Rue de la Goutte-d’Or si sarebbe detta un angolo di provincia, con le comari sugli usci e gli scoppi di voce che rompevano il tiepido silenzio del quartiere senza carri né carrozze. Le ragazze si trattenevano un momento in cortile, ripigliavano le racchette per dare ad intendere che non si erano mai mosse di lì. Alla fine risalivano in casa, inventando una fandonia qualunque, di cui spesso non si servivano neppure, in quanto trovavano babbo e mamma troppo occupati ad appiopparsi schiaffi per una minestra poco salata o non abbastanza cotta.
Nanà era operaia, adesso, e guadagnava quaranta soldi al giorno da Titreville, la casa di rue du Caire dove era stata come apprendista. I Coupeau non volevano che cambiasse perché restasse sotto la sorveglianza della Lerat, che era da dieci anni la prima maestra del laboratorio. La mattina, quando la ragazza usciva tutta sola con un’arietta quanto mai graziosa, le spalle infoderate nel vecchio giubbetto nero troppo stretto e troppo corto, sua madre guardava l’ora dell’orologio a cuculo e la Lerat aveva l’incarico di verificare l’ora del suo arrivo, che poi riferiva a Gervasia. Le davano venti minuti per andare da rue de la Goutte-d’Or a rue du Caire, tempo più che sufficiente, in quanto quelle ragazzette hanno davvero gambe da cerbiatte. Alle volte Nanà arrivava all’ora esatta, ma così rossa e così trafelata da lasciar supporre che dalla barriera fosse giunta là in dieci minuti, dopo essersi prima gingillata per la strada. Più spesso arrivava con sette od otto minuti di ritardo e fino a sera si mostrava tutta moine per la zia, le faceva occhi supplichevoli, cercando in tal modo di commuoverla perché non fiatasse. La Lerat, che compativa la gioventù, mentiva ai Coupeau, ma faceva a Nanà predicozzi interminabili, parlandole della sua responsabilità e dei pericoli che una ragazzina correva a indugiare troppo per le strade di Parigi. Anche lei, santo Iddio, aveva subito le sue persecuzioni, e quante! E covava la nipote con gli occhi accesi da continue preoccupazioni oscene, tutta rinfocolata all’idea di sorvegliare e di custodire l’innocenza di quella povera gattina. “Vedi,” le ripeteva “bisogna che tu mi dica tutto tutto. Io sono troppo buona con te; non mi rimarrebbe che da buttarmi nella Senna, se ti capitasse qualche disgrazia. Capisci, piccina mia? Se qualche uomo ti parlasse, tu mi devi ripetere tutto quanto, senza dimenticare neppure una parola... Eh! non ti hanno ancora detto proprio nulla? me lo giuri?”
Nanà rideva allora di un risolino che le storceva la bocca in modo assai curioso. No, no, gli uomini non le dicevano mai nulla, a lei, camminava troppo in fretta. E poi, che cosa le avrebbero dovuto dire? Non aveva proprio nulla a che vedere con loro. E spiegava i suoi ritardi con l’aria più ingenua di questo mondo; si era fermata a guardare certe figure, oppure aveva accompagnato Paolina che sapeva un mucchio di storielle. Potevano pedinarla, se non le credevano; anzi, lei non lasciava mai il marciapiede di sinistra e tirava diritto, tanto che sorpassava tutte le altre ragazzine come una carrozza. Per dire il vero, un giorno la Lerat l’aveva sorpresa in rue du Petit-Carreau, con la testa in aria, che rideva con altre tre fioriste, tre vere poco di buono, perché un uomo si faceva la barba a una finestra; ma Nanà era andata in collera, giurando e spergiurando che proprio in quel momento stava entrando dal fornaio della cantonata a comperarsi un panino da un soldo.
“Oh! io vigilo, non abbiate timore,” diceva la vedova ai Coupeau. “Rispondo di lei come di me stessa. Se uno sporcaccione volesse anche soltanto darle un pizzicotto, mi ci metterei piuttosto di mezzo io.”
Il laboratorio di Titreville era uno stanzone all’ammezzato, con un largo banco posto sopra due cavalletti, che occupava tutto lo spazio in mezzo. Addossati alle quattro pareti prive di ogni altro mobile e rivestite di una carta grigio sbiadito che dagli strappi mostrava la semplice imbiancatura a calce, correvano tutto intorno degli scaffali ingombri di vecchi cartoni, di pacchi, di modelli, di scarti colà dimenticati sotto un fitto strato di polvere. Sul soffitto, il gas aveva messo come un intonaco di fuliggine. Le due finestre erano così larghe che le lavoranti, senza lasciare il banco, vedevano passar la gente sul marciapiede di fronte.
La Lerat, per dare il buon esempio, arrivava per prima. Poi la porta sbatteva per un quarto d’ora, e tutte quelle petulanti di fioriste entravano alla rinfusa, sudate, spettinate. Una mattina di luglio, Nanà giunse per ultima, cosa che, del resto, era abituale.
“Be’, sarà una gran bella cosa quando avrò la carrozza!” disse, e senza nemmeno togliersi il cappellino, una calottina nera che lei chiamava il suo berretto e che era stanca di rimettere a nuovo, si avvicinò alla finestra, sporgendosi a guardare giù a destra e a sinistra.
“Che cosa guardi?” le domandò la Lerat, insospettita. “Ti ha forse accompagnata tuo padre?”
“Nemmeno per sogno,” rispose Nanà senza minimamente turbarsi. “Non guardo nulla, io!... Guardo, ecco, che fa un bel caldo. Davvero, c’è da farci buscare qualche malanno a farci correre a questo modo.”
Quella mattina il caldo fu davvero soffocante. Le lavoranti avevano abbassato le persiane e spiavano dagli interstizi l’andirivieni giù in strada. Poi si erano finalmente messe al lavoro, una fila di qua, una fila di là, ai due lati del banco, in capo al quale stava, tutta sola, la Lerat. Erano otto, e ciascuna aveva davanti l’orciolo della colla, le pinzette, gli altri arnesi e il cuscinetto per stampigliare. Sul banco c’erano pezzi di fil di ferro, rocchetti, ovatta, carta verde e carta marrone, foglie e petali ritagliati nella seta, nel raso, nel velluto. In mezzo, nel collo di una grossa bottiglia, una fiorista aveva infilato un mazzolino da due soldi, che dal giorno prima appassiva appuntato al suo corsetto.
“Non sapete?” disse Leonia, una bella bruna, curvandosi sul suo cuscinetto, dove stampigliava petali di rosa. “Quella povera Carolina ne passa di guai con quel giovane che veniva ad aspettarla la sera.”
Nanà, intenta a ritagliare sottili strisce di carta verde, esclamò:
“Perdio! un uomo che le fa le corna tutti i giorni!”
Tutto il laboratorio fu subito in preda a una malcelata ilarità, tanto che la Lerat dovette fare la faccia scura.
“Proprio una ragazza a modo, sei, figliuola mia! Hai dei modi di dire proprio per la quale! Lo riferirò a tuo padre, vedremo se ne sarà contento.”
Nanà gonfiò le gote, come se trattenesse una grande risata. Buona, quella! proprio a suo padre, sì! ne diceva di ben peggio, lui! Ma Leonia, tutto a un tratto, buttò là a voce rapida e bassissima:
“Ohi! attente! la padrona!”
Ed ecco infatti entrare la signora Titreville, una perticona asciutta asciutta, che di solito se ne stava in negozio, giù a terreno. Le lavoranti ne avevano un gran timore, perché non scherzava mai. Fece piano piano il giro del bancone; adesso, tutte le lavoranti vi stavano sopra curve, silenziose, indaffarate. Trattò un’operaia da acciabattona e la costrinse a ricominciare di bel nuovo una margherita. Poi se ne andò con la stessa aria rigida e severa con la quale era entrata.
“Uh! uh!” le soffiò dietro Nanà in mezzo alle mormorazioni di tutte le ragazze.
“Signorine, dico sul serio, signorine!” ammonì la Lerat, tentando di assumere un’aria severa. “Non mi costringete a prendere qualche provvedimento...”
Ma nessuna le dava retta; di lei non avevano proprio la minima soggezione. Si mostrava sempre troppo tollerante, solleticata da quelle ragazzine dagli occhi ch’erano tutto un luccichio di bramosia e ch’ella usava prendere in disparte a una a una per cavar loro di bocca qualche indiscrezione su quel che pretendevano da loro i loro amanti, e facendogli perfino il giuoco delle carte, se appena rimaneva libero un cantuccio del bancone. La pelle, per indurita che fosse, le fremeva tutta, la sua carcassa di gendarme trasaliva in una convulsa gioia da comare quando riusciva a fargli abbordare certi argomenti. Si formalizzava soltanto se osavano chiamare le cose col loro proprio nome; purché non si dicesse pane al pane, con lei si poteva dire tutto quel che si voleva.
Nanà, bisogna riconoscerlo, là dentro aveva modo di perfezionare un’educazione proprio coi fiocchi! Nessuno nega che ne avesse attitudini eccellenti, ma il bazzicare ogni giorno con tutte quelle ragazze già irretite dalla miseria e dal vizio la perfezionava, diciamo. Stavano là l’una accosto all’altra, e si corrompevano insieme; proprio la storia del paniere delle pere quando c’è una pera guasta. Davanti alla gente, si sa, si trattenevano, cercavano di non apparire tanto impudenti, di non adoperare un linguaggio così nauseante; posavano, insomma, a signorine come si deve; ma quando si parlavano all’orecchio, nei cantucci, non avevano più nessun riguardo e ne dicevano di cotte e di crude. Non c’era caso che due si trovas...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. INTRODUZIONE
  4. CRONOLOGIA
  5. PREFAZIONE DELL'AUTORE
  6. I
  7. II
  8. III
  9. IV
  10. V
  11. VI
  12. VII
  13. VIII
  14. IX
  15. X
  16. XI
  17. XII
  18. XIII
  19. BIBLIOGRAFIA