IV
Prima di entrare nella Via Porto, la donna si fermò un poco, guardandosi innanzi, quasi esitasse a procedere. Erano le nove di sera e già la popolarissima strada appariva insolitamente deserta; i radi fanali a gas non poteano che dileguare fiocamente le tenebre; e nella grande ombra notturna si disegnavano bizzarri profili di ammassi pietrosi, biancheggiavano dei monticelli, si rizzavano dei pali di legno. L’opera di demolizione della vecchissima via, era cominciata da un pezzo, ma procedeva con lentezza; l’inverno piovoso ne impediva i costanti lavori e mentre tutti gli abitanti di Via Porto si venian ritirando nelle vie adiacenti, nei vicoli, nei vicoletti, nei fondachi non ancora tocchi, la grande arteria, abbandonata quasi completamente, era un ingombro di pietre, di calce, di rottami, di travi, disselciata, coi suoi fanali strappati e lasciati a giacere, lungo distesi sugli ammassi di terra, coi suoi vecchi marciapiedi diventati dei pantani di melma, d’immondizie, sotto la pioggia. La donna che doveva percorrerla, curva, guardava per terra, innanzi a sé, temendo qualche mal passo, che la facesse urtare contro qualche cumulo di pietre e cadere in qualche fosso pieno di mota: poi, con un piccolo sospiro, sollevando la gonna, si avviò con cautela. Camminava pianissimo e molto curva; ciò non le evitò di sdrucciolare malamente, due o tre volte; ogni volta si fermava, come indecisa di continuare, piccola figura perduta, in quel deserto, in quelle ombre, in quel tragitto così periglioso. Pure lo compì. Scantonò per la terza via a mano diritta e il passo della donna parve si facesse meno incerto, meno pauroso: il corpo, però, non si raddrizzò.
La donna fece pochi passi nella via Sedile di Porto e levò gli occhi in aria: scorse un fanale rosso che pendeva da un balconcino al primo piano e su cui si leggeva, distintamente: LOCANDA DELLA VILLA DI PARIGI. Il portone, non grande, era aperto: nel fondo dell’androne, innanzi a una immagine della Immacolata Concezione, ardeva una lanternina e rischiarava stranamente la figura scolorita della Vergine, sotto cui, sovra un piccolo piano di pietra, erano collocati due vasetti mezzo rotti con fiori artificiali. La donna, passando innanzi a quella immagine pia, si arrestò, tenendovi gli occhi fissi: dopo essersi segnata, dal lieve moto delle labbra, sembrava che dicesse delle orazioni. Le quali non furono molto lunghe. Dopo un novello segno di croce, la donna si staccò dalla figura di Maria e intraprese l’ascensione di una oscurissima scala, a mano diritta. Il terreno, anche sulla scala, era umido e fangoso: la donna si reggeva al muro, strisciandovi contro, in mancanza di ogni altro appoggio. Mentre compiva questa salita, un passo si udì, alle sue spalle: qualcuno entrava nel portone, camminando presto, facendo le scale con una certa sicurezza. Era un uomo alto, giovane, a quanto si poteva distinguere. Passando presso la donna che, faticosamente, saliva, si curvò ad osservarla, curiosamente. Dovette riconoscerla subito, poiché l’uomo si rigettò indietro, come soddisfatto, e disse con una voce forte, ma roca:
– Buonanotte e salute!
– Buonanotte! – mormorò una voce bassa e affannosa femminile.
L’uomo oltrepassò la donna, lasciandosi dietro un puzzo di cattivo sigaro, e sparve dentro una porta aperta, sul primo pianerottolo. La donna non vi giunse che più tardi, estenuata, forse, da un lungo cammino fatto nella giornata a cui quella traversata di Via Porto e quella scala avevano dato l’ultimo tratto. Anch’ella entrò nella porta aperta, al primo piano, e si trovò in una stanza di entrata.
Una donna sedeva presso una tavola sgangherata e al chiarore di un piccolo lume a petrolio, dalla palla di cristallo verdastro, tutto unto, lavorava macchinalmente a una lunga calza di cotone rosso. Era una donna sulla cinquantina, enormemente grassa, con una grossa testa su cui si erano già fatti radi i capelli: il suo corpo non aveva più forma precisa, umana, femminile: era una massa di grasso, spalle larghissime, petto e ventre riuniti, fianchi amplissimi, braccia corte e goffe, mani rotonde, rossastre, dalle dita fiacche che si muovevano intorno ai ferri della calza. Anche il volto della donna, grosso, gonfio, con un doppio mento, con le guancie che affogavano il naso e i già piccoli occhi, era di un brutto colore vinoso, a chiazze: una espressione dura, indifferente, si distendeva su quel viso. Quando la donna udì rumore di passi, guardò verso la porta, senza curiosità , e crollò leggermente la testa, avendo riconosciuto la donna che entrava. Costei si accostò alla tavolaccia che, insieme a due sedie zoppe, formava il solo mobilio di quella stanza di entrata, e salutò, sempre a voce bassa, dove ancora restava il fiato corto della scala fatta:
– Buonanotte! donna Carminella.
– Buonanotte a voi! – rispose il donnone, con aria indifferente, senza neppure fissare colei che la salutava.
– Mi avete conservato il letto? – richiese l’altra, con non so quale timidezza.
– Ve ne sono quanti ne volete di letti, – borbottò donna Carminella. E soggiunse, subito, aspramente:
– E voi, avete portato i cinque soldi?
– Sissignora, sissignora, li ho portati, – rispose subito la donna, mettendo la mano in tasca.
– E cavateli, – disse donna Carminella, sogguardando con aria di diffidenza.
dp n="214" folio="214" ? Dalla tasca della gonna la donna cavò, ad uno ad uno, i cinque soldi e li depose, dopo averli novellamente contati, sovra un tavolino, a cui si appoggiava, sempre un po’ ansimante, la colossale padrona della locanda. Allora si vide, nel cerchio di luce del lume a petrolio, la mano della donna che deponeva i soldi: una mano lunga, scarnissima, dalla pelle indurita e grigiastra, su cui si disegnavano, molto grosse, violacee, le vene della mano dalle dita nodose, contratte, tremanti. La mano si ritirò, sparve, la donna restò in piedi, nell’ombra. Donna Carminella prese i soldi, li contò, li guardò ad uno ad uno, li fece anche saltare sulla tavola; poi, li intascò e soggiunse, quasi a dare una certa spiegazione:
– È impossibile fare credenza, capite? Qui si stenta giorno e notte, e che si ricava? Poco o niente. Se dovessimo far credenza, saremmo morti.
– Avete ragione, avete ragione, – mormorò l’altra, con un sospiro umile. – Vi è molta gente stasera?
– Così, così, – borbottò il donnone, sospirando anch’essa, cioè ansimando, ammansita un poco. – Ma siamo troppi. Vi sono troppe locande. Ve ne sono a quattro soldi, a tre soldi, proprio delle cantine, dei sotterranei, capite? Ancora un poco e vi saranno locande a due soldi, uomini e donne nella stessa stanza, e non se ne vergognano!
– Gesù! – disse l’altra, sonnolenta.
– Qui siete tutte donne, in una stanza, lo potete dire. Il timore di Dio, prima di tutto! Ci dormireste, voi, in una stanza dove si corica un uomo?
– Io preferirei dormire nella strada, sulle pietre, – soggiunse la donna, con un brivido di orrore nella voce.
dp n="215" folio="215" ? – E perciò pagate cinque soldi! – esclamò trionfalmente donna Carminella. — Se volete andare, potete: sapete che è la terza stanza, la migliore.
– Chi vi è, stasera? – interrogò timidamente l’altra.
– Da voi? Vi è donna Fortunatina, sapete, la butterata, quella che sta a mezzo servizio: nel suo letto ho permesso che tenesse le sue due bambine. Che ci volete fare, un po’ di carità ci vuole! Si stringeranno. Mi son presi solo cinque soldi; il mio cuore è troppo tenerello. Nel secondo letto, vi è una nuova, una giovane. Non la conosco. Si chiama Maddalena Sgueglia. È malata, pare. Ha una tosse, una tosse! Speriamo che vi lasci dormire. Gli altri due letti sono vuoti.
– Io vado, buona nottata! – disse la donna avviandosi.
– Buona nottata! Ho da vegliare come sempre. Faccio giorno notte e notte giorno. Dormo domani, io! Quel sonno che non mi va né per l’anima, né per il corpo.
– Non potreste dormire? – osservò dolcemente la donna, che voleva ingraziarsela.
– Voi scherzate! È impossibile. Se non faccio la guardia io, chi la fa? Possono succedere tante cose. Dio lo sa! – disse, infine, misteriosamente, donna Carminella.
– È vero, buona nottata, buona nottata!
Ancora, se ne andava.
– Il soldo pel caffè, me lo lasciate? – chiese la grossa femmina.
La donna esitò un poco.
– Veramente... non potrei...
– Ma che, volete crepare? Meglio il caffè che il pane. Un soldo di caffè, la mattina, vi accomoda lo stomaco.
dp n="216" folio="216" ? La donna crollò il capo, come poco convinta: cercò per un certo tempo in tasca, ne tirò fuori un altro soldo e lo consegnò alla donnona. Costei, di nuovo, se lo studiò: poi se lo gettò in tasca, con soddisfazione: quella piccola industria della tazza di caffè le stava molto a cuore. E diede dei chiarimenti.
– Corrono tante monete false... – soggiunse, – domani mattina avrete una tazza di caffè, che vi consolerà . Buona nottata!
No, nella locanda della Villa di Parigi gli uomini non dormivano nelle stesse stanze delle donne, come in quasi tutte le locande, a tre e a quattro soldi la notte, del quartiere Porto: la Villa di Parigi conservava quest’ultimo lembo di decenza. Ma per raggiungere le stanze ove le povere donne che non avevano casa e, sopratutto, non avevano otto, dieci lire mai tutte insieme, per affittare un basso e sovra tutto, sovra tutto, non avevano né uno stramazzo né una sedia da mettere in questo basso, dovevano ricorrere a questa miserabile, sudicia, immonda e talvolta infame ospitalità notturna. Per raggiungere queste stanze, le donne vecchie e giovani, zitelle e maritate, note ed ignote, bisognava che attraversassero due stanze ove dormivano uomini. Le due grandi stanze dei maschi possedevano solo quattro letti ognuna e una sedia, accanto al letto, non altro mobilio: delle funi circondavano, in alto, questi letti, delle funi a cui erano sospesi dei lenzuoli di tela grezza che formavano tenda e dividevano, sempre per la decenza, un letto dall’altro. Ma non tutte queste tele giungevano a separare completamente i letti, troppo corte, troppo strette: altre erano mezze sollevate, rigettate indietro, non curandosi quegli uomini di celarsi agli altri ospiti notturni. Un lumicino fioco ardeva nella prima stanza della locanda; un altro ne ardeva nella seconda: e s’intravvedeva, al loro piccolo chiarore, l’abbandono, simile alla morte, di coloro che erano venuti a cadere là , immersi in un sonno di piombo, dopo una giornata di vagabondaggio o di lavoro, di fame, di stenti, forse dopo una giornata di vizio. Come cadaveri giacevano su quei sozzi e duri letti, ravvolti nelle coperte grigiastre e sporche che migliaia di corpi avevano coperto, ravvolti nelle aspre e male odoranti lenzuola, col capo immerso nel magro guanciale, come cadaveri, buttati lì, in un torpore, donde solo il respiro affannoso di qualcuno, il russar grave di qualche altro, il russare stridulo di un terzo, dava segno di vita, rompendo il silenzio. Vi era, nell’aria, un cattivo odore umano di corpi sporchi, di fiati graveolenti, di fiati malati, di tabacco fetido, fumato nelle pipe di creta e, malgrado il freddo di quella notte d’inverno, un tepore malsano, era nelle due camere, ove otto uomini dormivano.
La donna, per attraversare quelle due stanze, per recarsi alla terza ove si trovava il letto che le era destinato, insieme a due altri ospiti femminili, parve che avesse ritrovato un vigore che le mancava. Mentre per Via Porto, per le scale, aveva un’andatura lentissima, fermandosi a ogni passo, invece passando per quelle due stanze abitate da otto uomini dormienti, ella quasi quasi corse, rigida, fra le due file di letti, senza voltare la testa né a dritta né a sinistra. E malgrado che ella tentasse camminare leggermente, per non fare accorgere nessuno del suo passaggio, qualcuno si svegliò, si udirono scricchiolare gli assi di uno o due letti, sotto i pesanti corpi che si rivoltavano; uno di questi uomini, forse quello giovane, che aveva salutato la donna nella scala e che essendo gi...