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L’imponente villa in stile Beaux-Arts che si trovava in Riverside Drive, tra la 137a e la 138a Strada, era in perfette condizioni ma sembrava disabitata. In quella serata di giugno, con il temporale che imperversava, nessuno passeggiava sul terrazzo affacciato sull’Hudson e dalle finestre a bovindo non proveniva alcun bagliore. L’unica luce era quella nel portico d’ingresso.
Tuttavia, l’apparenza può ingannare – a volte di proposito. Perché l’891 di Riverside Drive era la residenza di Aloysius Pendergast, agente speciale dell’FBI, il quale teneva alla propria privacy più che a ogni altra cosa.
Pendergast era seduto in una poltrona di pelle nell’elegante biblioteca della casa. Malgrado l’estate fosse cominciata, la serata era fredda e un debole fuoco scoppiettava nel caminetto. L’agente sfogliava una copia del Man’yōshū, la celebre antologia di antiche poesie giapponesi risalente al 750 d.C. Sul tavolino accanto a lui erano appoggiate una teiera di ghisa tetsubin e una tazza di porcellana quasi piena di tè verde. Nulla disturbava la sua concentrazione, solo il crepitio delle fiamme e il boato sporadico di un tuono al di là delle imposte chiuse spezzavano il silenzio.
Sentì un leggero rumore oltre la porta, e subito dopo la figura di Constance Greene si stagliò sulla soglia della biblioteca. Indossava un abito da sera di taglio semplice, gli occhi viola e i capelli scuri, pettinati in un caschetto classico, accentuavano il pallore del suo viso. In mano teneva un fascio di lettere.
«La posta» annunciò.
Pendergast inclinò la testa di lato e chiuse il libro.
Constance si sedette vicino a lui. L’agente sembrava tornato in forma dopo il rientro da quella che definiva «l’avventura in Colorado», ma le sue condizioni mentali erano state per Constance fonte di inquietudine, visti i terribili eventi dell’anno precedente.
Iniziò a selezionare la corrispondenza per lui, mettendo da parte le lettere prive d’interesse: Pendergast non amava perdere tempo con i piccoli dettagli quotidiani. Si affidava a un vecchio e riservato studio legale di New Orleans, da tempo al servizio della famiglia, per il pagamento dei conti e la gestione di parte del suo notevole patrimonio, mentre una banca newyorkese, egualmente prestigiosa, gestiva gli altri investimenti, i fondi e i beni immobiliari. La corrispondenza veniva recapitata a una casella postale che Proctor, autista, factotum e guardia del corpo di Pendergast, controllava regolarmente. Al momento, però, Proctor era in partenza per l’Alsazia, dove vivevano alcuni parenti, e Constance aveva accettato di occuparsi della posta.
«C’è un biglietto di Corrie Swanson.»
«Aprilo, per favore.»
«Ha allegato la fotocopia di una lettera del John Jay College: la sua tesi ha vinto il premio Rosewell.»
«Lo so, ero presente alla cerimonia.»
«Sono certa che Corrie ha apprezzato che ci fossi.»
«Capita di rado che una cerimonia di laurea offra qualcosa di più di una soporifera sfilza di falsità e luoghi comuni sulle noiose note di Pomp and Circumstance1.» Pendergast sorseggiò il tè. «Ma quella è stata diversa.»
«E c’è una lettera di Vincent D’Agosta e Laura Hayward.»
Con un cenno del capo la incoraggiò a proseguire.
«Si tratta di un biglietto di ringraziamento per il regalo di nozze e per la cena. Di nuovo.»
Pendergast chinò la testa di lato mentre Constance metteva da parte la missiva. Un mese prima, la sera precedente il matrimonio di D’Agosta, Pendergast aveva organizzato una cena privata per la coppia, occupandosi personalmente della preparazione di una gran varietà di piatti che aveva accompagnato con vini pregiati della sua cantina. Era stato proprio quel gesto a convincere Constance che Aloysius si fosse ripreso dal recente trauma.
La donna scorse le poche lettere rimaste, mise da parte le più importanti e gettò le altre nel fuoco.
«Come procede il progetto?» le chiese Pendergast, versandosi un’altra tazza di tè.
«Molto bene. Proprio ieri ho ricevuto un pacco dalla Francia, dall’Ufficio anagrafe di Digione, e sto cercando di integrarlo con il materiale arrivato da Venezia e dalla Louisiana. Quando avrai tempo, ho un paio di domande da porti su Augustus Robespierre St Cyr Pendergast.»
«La maggior parte di quello che so proviene da racconti orali della storia di famiglia: favole, leggende e alcuni episodi raccapriccianti sussurrati a bassa voce. Mi farebbe piacere condividerne una parte con te.»
«Una parte? Speravo mi raccontassi tutto!»
«Temo che negli armadi della famiglia Pendergast ci siano alcuni scheletri che nemmeno tu dovresti conoscere.»
Constance si alzò sospirando. Mentre Pendergast tornava al suo libro di poesie, la donna uscì dalla stanza e attraversò la sala dei ricevimenti, dov’erano allineate diverse teche piene di oggetti bizzarri, per entrare in un lungo ambiente buio con pannelli di quercia alle pareti. Un grande tavolo di legno occupava quasi per intero la stanza. L’estremità più vicina era ingombra di giornali, vecchie lettere, rapporti di censimento, fotografie e incisioni ingiallite, trascrizioni del tribunale, memoriali, ristampe di giornali da microfiche e altri documenti, tutto sistemato in pile ordinate. C’era anche un computer portatile, il cui schermo emanava un bagliore incongruo in quell’oscurità.
Alcuni mesi prima, Constance si era assunta l’incarico di ricostruire la genealogia della famiglia Pendergast. Lo aveva fatto per soddisfare la propria curiosità, ma anche per aiutare Aloysius a riscuotersi dal proprio stato. L’impresa si era rivelata complessa e faticosa, eppure straordinariamente affascinante.
All’altro capo del lungo stanzone, una porta ad arco immetteva nell’atrio che si apriva sull’ingresso principale della residenza. Qualcuno bussò proprio mentre Constance era sul punto di sedersi.
La donna si fermò, perplessa: gli ospiti erano rari all’891 di Riverside Drive, e non arrivavano mai senza preavviso.
Toc. Un altro colpo, seguito dal rombo di un tuono.
Lisciando le pieghe dell’abito, Constance si diresse all’entrata. Esitò per un breve istante davanti alla pesante porta senza spioncino.
Niente più colpi, perciò si decise ad aprire i due chiavistelli prima di socchiudere con cautela l’uscio.
La figura che si stagliava contro la luce del porticato era quella di un giovane uomo. Aveva i capelli biondi fradici di pioggia incollati alla testa e i suoi lineamenti delicati, spruzzati di gocce, erano indubbiamente nordici, a giudicare dalla fronte alta e dalle labbra cesellate. Indossava un completo di lino talmente zuppo da aderirgli al corpo.
Ed era legato con corde spesse.
Constance deglutì, facendo per accostarglisi. Ma gli occhi spenti non notarono il movimento, continuando a fissare il vuoto senza battere ciglio.
In piedi, a tratti illuminata dal bagliore dei lampi, la figura oscillò leggermente, poi, come un albero abbattuto, cominciò a inclinarsi piano, fino a schiantarsi faccia in avanti sulla soglia.
Constance arretrò cacciando un urlo. Pendergast si precipitò al suo fianco, seguito da Proctor. La afferrò e la spostò per inginocchiarsi accanto al ragazzo. Lo girò per una spalla in posizione supina, poi gli scostò i capelli dalla fronte e controllò il battito cardiaco.
«È morto» disse in un sussurro forzatamente controllato.
«Mio Dio!» esclamò Constance con voce strozzata. «È tuo figlio Tristram!»
«No, è Alban, il suo gemello» disse Pendergast.
Rimase ancora per un attimo vicino al cadavere, poi balzò in piedi con uno scatto felino e scomparve sotto la pioggia.
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2
Pendergast percorse correndo Riverside Drive e si fermò all’angolo, controllando entrambe le direzioni dell’ampio viale. Stava piovendo forte, poche auto e nessun pedone in vista. Il suo sguardo si posò sul veicolo più vicino, a circa tre isolati di distanza: era una Lincoln Town Car nera, come se ne vedevano a migliaia per le strade di Manhattan.
La luce sopra la targa era spenta, perciò riuscì a distinguere soltanto che era di New York.
Si lanciò all’inseguimento.
L’automobile proseguì senza accelerare, superando una serie di semafori verdi e allontanandosi sempre di più. Quando le luci divennero arancioni, poi rosse, il veicolo procedette oltre a velocità costante.
Continuando a correre, Pendergast tirò fuori il cellulare e chiamò. «Proctor, prendi la macchina. Sono su Riverside Drive, direzione sud.»
La Town Car era quasi sparita; riusciva a vedere soltanto la luce fioca e tremolante dei fanali posteriori, che però svanì appena l’autista svoltò all’altezza della 126a Strada.
Pendergast correva ancora a tutta velocità, con la giacca nera che svolazzava dietro di lui e la pioggia che gli sferzava il viso. Scorse di nuovo la Lincoln, ferma a un semaforo dietro due automobili. Prese il cellulare e compose un numero.
«Ventiseiesimo distretto. Agente Powell.»
«Sono l’agente speciale Pendergast, dell’FBI. Sto inseguendo una Lincoln nera, targa di New York, diretta a sud su Riverside Drive, all’altezza della 124a. L’autista è sospettato di omicidio. Ho bisogno di rinforzi per fermare il veicolo.»
«Dieci-quattro» comunicò l’agente via radio; per aggiungere subito dopo: «Abbiamo una pattuglia in zona, a due isolati di distanza. Ci tenga informati sulla posizione».
«Chiedo anche assistenza aerea» aggiunse Pendergast, ancora correndo.
«Signore, se è soltanto un sospettato…»
«È un obiettivo prioritario per l’FBI» lo interruppe. «Ripeto, un obiettivo prioritario.»
Una breve pausa, poi: «Uno dei nostri mezzi si sta alzando in volo».
Mentre Pendergast metteva via il telefonino, la Lincoln sterzò e sorpassò le vetture in coda, poi salì sul cordolo e tagliò il marciapiede immettendosi in Riverside Park, dove recise una fila di aiuole schizzando fango, prima di imboccare la rampa di uscita della Henry Hudson Parkway contromano.
Aloysius richiamò la polizia per comunicare la posizione del veicolo e subito dopo telefonò a Proctor; dopodiché tagliò per il parco, superò una bassa staccionata e corse tra le aiuole di tulipani senza perdere di vista i fanali della Lincoln, che sbandava verso la carreggiata tra lo stridore di pneumatici delle altre vetture.
Saltò oltre il muretto di pietra che delimitava la strada e, mezzo correndo mezzo scivolando, avanzò lungo il terrapieno, tra rifiuti e vetri rotti, nel tentativo di intercettare la corsa del veicolo. Cadde, ruzzolò e scattò di nuovo in piedi, bagnato fradicio, con la camicia bianca appiccicata al petto e il fiato corto. La Lincoln fece un’inversione a U e si lanciò a tutta velocità nella sua direzione. La sua mano scattò alla Les Baer, ma trovò la fondina vuota. Allora si guardò intorno, e quando si ritrovò i fari puntati addosso, scartò di lato. Dopo che la macchina lo ebbe superato, si rialzò e la seguì con lo sguardo fino a vederla scomparire, inghiottita dal fiume di vetture.
Un attimo dopo, una Rolls-Royce d’epoca accostò al marciapiede; Pendergast aprì la portiera posteriore e salì...