Parte terza
8
Castigamatti
«Caro Magni, tu Cesare Forni l’hai mai incontrato?» mi domandò Rosa. Le risposi: «Sì, più di una volta. Ci siamo conosciuti nell’agosto del 1919, quando stava per iniziarsi la campagna elettorale che avrebbe visto la vittoria dei socialisti. Era venuto a trovarci alla Garibaldina su consiglio di suo padre Pietro, un agrario ben più potente di noi, un uomo dal carattere duro, odiato da quelli delle leghe rosse. Lo chiamavano il Padreterno, il Gran sultano, il Testone. E Cesare, uno dei nove figli, ha preso da lui».
«Perché si è presentato alla Garibaldina?» chiese Rosa. Le spiegai: «Voleva incontrare mio padre Ermete e me. Per un motivo che ci espose senza troppi giri di parole: aveva bisogno di soldi da investire nella propaganda della lista dei combattenti. E li andava cercando dagli agrari che la pensavano come lui. Mio padre lo aiutò e quello fu l’inizio di un rapporto destinato a durare molto tempo.
«Cesare è un mio coetaneo, in quel momento avevamo entrambi ventinove anni ed eravamo stati ufficiali al fronte, sia pure in reparti diversi. Sapeva tutto di me e siamo diventati amici. Compresi subito che era un uomo d’azione, ma aveva pure una gran passione per il potere politico. Mi domandò se ero disposto a darmi da fare accanto a lui. Gli risposi di no e Forni si limitò a prenderne atto, senza indagare sui motivi della mia scelta. In compenso gli dissi che ero pronto a finanziarlo ancora, perché la sua battaglia era anche la nostra, intendo della famiglia Magni.
«E tu che cosa sai di Forni?» chiesi a Rosa. La sua risposta mi sorprese: «Ne so parecchio perché una mia zia paterna è stata la sua balia. L’ha visto nascere, ha aiutato la madre a crescerlo ed è rimasta parecchi anni al servizio della famiglia. Era una casa piena di gente. Cesare ha sei fratelli e due sorelle. È lui il più forte della covata, come la sua storia sta dimostrando».
Cesare era nato a Vespolate, in provincia di Novara, il 17 novembre 1890. La sua era una famiglia di fittavoli tra i più potenti della Lomellina, residenti a Castello d’Agogna, un paese sulla strada fra Mortara e Casale, al centro di una tenuta di undicimila pertiche pavesi. Nel 1919 i Forni conducevano dieci aziende agricole, per un totale di trentamila pertiche.
Da ragazzo era stato uno studente svogliato, faticare sui libri non gli piaceva e al terzo anno aveva abbandonato il Politecnico di Torino. Fu la guerra mondiale a forgiarne il carattere. Aveva venticinque anni, si arruolò subito e partì per il fronte. Qui dimostrò di essere un magnifico combattente, prima come ufficiale nell’artiglieria da montagna e poi nelle bombarde, i cannoni da trincea che lanciavano bidoni di esplosivo contro i reticolati austriaci.
Verso la fine del 1918 ritornò a casa con il grado di capitano, un po’ di medaglie e la fama di bravo comandante, sempre davanti a tutti, generoso con i suoi soldati, pronto a soccorrere anche le loro famiglie. Senza rendersene conto, aveva riscattato una gioventù disordinata. La descrisse con poche parole al Duca d’Aosta che durante una visita al fronte dell’Isonzo gli aveva domandato: «Che cosa fate nella vita?». Forni rispose: «Il giocatore di bigliardo e lo studente a tempo perso».
Cesare aveva un aspetto difficile da dimenticare. Alto un metro e novanta, atletico, biondo, occhi azzurri, un volto paffuto, le occhiaie pesanti, le palpebre panciute. Era un cacciatore di donne senza complessi e molto fortunato. Le femmine sembravano il suo unico interesse. Giocava d’azzardo e sniffava cocaina, la droga più diffusa in quel tempo. Nessuno sa immaginare che esistenza sarebbe stata la sua se non avesse incontrato la politica e, soprattutto, il fascismo.
Ad avviarlo alla militanza in camicia nera fu un avvocato di Torino che era stato anche lui ufficiale delle bombarde: Cesare Maria De Vecchi, un casalese di trentacinque anni, destinato a diventare uno dei capi della marcia su Roma. Era un tipo piccoletto, tarchiato, il cranio rasato e due baffi a coda di scoiattolo. Aveva cultura e intelligenza, ma era noto soprattutto per la loquela facile, sempre disposto a pronunciare un discorso con la vociona roboante.
Anche qualcuno dei suoi camerati lo giudicava un parolaio fanfarone. Quando diventò famoso come quadrumviro di Mussolini, Gabriele D’Annunzio gli regalò un ritratto al veleno: “Teschio baffuto, nullità tonante”. Ma si racconta che il poeta gli riservasse anche un appellativo più volgare: “Un cazzo coi baffi”. In compenso De Vecchi era un monarchico blindato. E sembra che Vittorio Emanuele III si fidasse molto di lui. Gli voleva bene e in privato lo chiamava “Barbison”, Baffone.
De Vecchi portò Forni nella prima commissione esecutiva del fascio di Torino. Ma a Cesare non piaceva fare il burocrate di partito e nell’agosto del 1919 se ne tornò in Lomellina. Qui stava per cominciare la campagna elettorale per il voto di novembre. I socialisti erano certi di stravincere, ma ebbero la sorpresa di imbattersi in un avversario che non avevano previsto.
La Rosa mi spiegò: «Pensavano che Forni fosse soltanto il figlio viziato di una famiglia di ricchi fittavoli, con due uniche passioni: il poker e le prostitute. Invece scoprirono un comandante spavaldo, dal temperamento focoso, sempre pronto a gettarsi in uno scontro o in una provocazione violenta. Ma anche un uomo onesto, capace di esporsi in prima persona, ostile alle mediazioni e ai compromessi, facile a intestardirsi».
I socialisti si accorsero presto che era un nemico di quelli duri. Conobbero di quale pasta fosse Forni alla fine dell’agosto 1919, quando con qualche amico sfondò il portone del municipio di Mortara. Voleva esporre il tricolore che il sindaco si era rifiutato di mettere al balcone nel corso di una cerimonia dell’Associazione mutilati di guerra. La bandiera rimase lì per qualche tempo, su ordine del primo cittadino che disse: «Chi l’ha esposta, venga a ritirarla. Così lo vedremo in faccia». Forni fece passare una settimana, poi di notte andò a riprendersi il tricolore e lasciò al suo posto un bandierone rosso con al centro una testa d’asino.
“Il Proletario” classificò Forni come “un torbido esempio dell’arditismo mussoliniano”. E in effetti Cesare si gettò subito nella campagna elettorale del novembre 1919 per la lista dei Combattenti, capeggiata da Mussolini che aveva fondato a Milano il primo fascio. Percorse la Lomellina paese dopo paese, attaccava manifesti e tentava qualche comizio. Incontrò l’ostilità della truppa socialista e la ripagò con gli interessi.
In ottobre Forni decise che anche i combattenti dovevano avere un loro giornale. Nacque “Il Trincerista”, con la redazione a Mortara. E molti borghesi restarono a bocca aperta nel leggere il programma politico dei forniani. La Rosa mi disse: «A tutti sembrò di sinistra estrema. Via i prefetti, abolizione del Senato di nomina regia, taglio immediato e progressivo dei capitali superiori alle centomila lire, graduale passaggio della ricchezza nelle mani dei Consigli elettivi del lavoro, frantumazione del latifondo, abolizione della burocrazia militare e del corpo di Stato maggiore».
Non mancava la polemica aspra con i socialisti del Psi, anzi del Pus, giudicato il focolaio dell’infezione italiana. “Il Trincerista” scriveva: “Il Pus è nient’altro che una bottega, anzi una baracca da saltimbanco, sfrutta il proletariato, lo tiene nell’ignoranza, lo ubriaca di parole e di scioperi”.
Forni aveva dalla sua il coraggio e la forza fisica. I socialisti non osavano attaccarlo perché avrebbero rischiato grosso. L’11 novembre 1919 ci fu uno scontro a Mortara, nel salone della società sportiva Costanza, in occasione di un dibattito organizzato dai combattenti. Come facevano sempre, i socialisti si erano presentati in forze per il contraddittorio, ma ebbero la peggio. Il deputato socialista locale, Egisto Cagnoni, l’idolo dei braccianti lomellini, un oratore incendiario, venne ferito alla testa e a una mano da Forni che maneggiava un bastone da passeggio con la nervatura d’acciaio.
Come ho già ricordato, le elezioni vennero vinte dai socialisti. E il successo li rese più aggressivi. Il 17 novembre, mentre usciva dalla prefettura di Pavia, Forni fu preso di mira da una sassaiola organizzata da un gruppo di attivisti del Psi che poi tentarono di circondarlo. Lui si fece largo senza fatica e si diresse tranquillo verso la stazione ferroviaria. Alle spalle gli urlavano: «Abbasso Forni il pazzo!». Senza immaginare che proprio quel matto sarebbe diventato il loro castigamatti.
Cesare ritornò a Torino. E qui visse il periodo più disordinato della sua vita. Di nuovo il gioco d’azzardo, anche nei casinò. Le donne illuse da lui e le puttane delle case di tolleranza. Gli affari senza costrutto e finiti male. I tanti debiti. La cocaina. A salvarlo fu il vecchio Forni. Pagò tutte le cambiali del figlio e lo costrinse a ritornare in Lomellina. Da quel momento emerse un nuovo Cesare, destinato a un futuro avventuroso e imprevedibile.
«Adesso devi raccontarmi del piccolo Forni della tua città» mi incitò Rosa. «Come si chiama? Passerini, Passerotti, Passerone?»
Finsi di irritarmi: «Non scherzare con il fuoco! Si chiama Giovanni Passerone. È un tipo dalla mano dura e molto convinto della propria importanza. Se sapesse che lo sbeffeggi, se la prenderebbe non con te, ma con me».
«E che cosa potrebbe farmi?» domandò Rosa, alzando le spalle. «Manganellare una povera maestra elementare, per di più vedova di guerra? Del resto, immagino che non sappia nulla di noi due…»
Le replicai: «Passerone sa sempre tutto. Del resto conosce la mia famiglia e anche me. Non mi ha mai proposto di entrare nelle sue squadre, forse perché mi considera un ganimede senza principi e troppo anziano per far parte della truppa che comanda. Ho cinque anni più di lui, e Passerone preferisce i ventenni che gli obbediscono senza discutere e vanno all’assalto a testa bassa».
Rosa osservò: «Dunque non sei diventato uno dei suoi squadristi». «No. È venuto a cercarmi alla Garibaldina, ma come aveva fatto Forni si è limitato a chiedere un aiuto finanziario per la sua guerra contro i socialisti. Dopo aver sentito come la vedeva mio padre Ermete, ho accettato di dargli del denaro, come hanno fatto tanti altri proprietari di aziende agricole. Posso considerarmi un contribuente di Passerone e mi ritengo un fascista in borghese, senza l’obbligo di manganellare gli avversari. Certo, se il fascismo vincerà noi agrari ne avremo molti vantaggi. Del resto nessuno mette mano al portafoglio se non è sicuro di ricevere qualcosa in cambio. E adesso ti racconterò come un giovanotto di venticinque anni, senza arte né parte, è diventato un capo squadrista.»
Il fascio di Casale Monferrato nacque ventisette giorni dopo la grande vittoria socialista nelle elezioni comunali e il trionfo del sindaco Rampini. Mi sono domandato più volte se tra i due fatti ci fosse stato un rapporto di causa ed effetto, ma non ho mai saputo darmi una risposta.
È possibile che la minaccia di un governo proletario della città, che avrebbe di certo vessato i ceti più abbienti, avesse spinto una parte della borghesia a decidere di dar vita a uno strumento di difesa dei propri interessi. Tuttavia nessuno informò mio padre Ermete e me di quanto stava per accadere.
Quel che avvenne il 20 novembre 1920 sorprese tutta la città. In via Filippo Mellana, a Palazzo Lanza, si trovarono quattordici uomini. Il più conosciuto era De Vecchi, arrivato apposta da Torino. Gli altri tredici erano tutti giovani di fegato che avevano combattuto nella guerra mondiale e si sentivano pronti a opporsi alla marea montante del nostro bolscevismo.
Se ci rifletto oggi, a tanti anni di distanza, resto sempre colpito dal numero molto esiguo dei primi squadristi della mia città. Quando li confronto con la folla di socialisti che riempiva piazza del Cavallo per festeggiare la conquista del comune, mi sembrano dei nani così pazzi da assalire un gigante. Ma era questa la loro forza: andare in pochi contro tanti. L’arma più grande di cui disponevano era l’assurdo coraggio. I socialisti non si aspettavano di averli addosso. Per arroganza, per ignavia, per eccessiva presunzione li sottovalutavano e li irridevano. Ma proprio questo atteggiamento li avrebbe persi.
Quel 20 novembre era un sabato freddo e umido, con un velo di nebbia a coprire le colline sulla destra del Po. E tutto si svolse in un paio d’ore. De Vecchi nominò segretario del nuovo fascio un ex capitano del genio di trent’anni, Vladimiro Abrate. Insieme a lui venne scelto chi avrebbe dovuto guidare il primo nucleo di squadristi del Monferrato. E tutti furono d’accordo nell’indicare Giovanni Passerone.
Era nato a Casale nel 1895 e in guerra, a vent’anni, aveva fatto parte degli arditi, oggi diremmo dei commandos o delle forze speciali. Si era battuto bene e gli austriaci lo avevano ferito due volte, alla spalla sinistra e alla gamba destra. Risultato: due medaglie d’argento e la promozione a tenente, con la possibilità di diventare ufficiale di carriera. In città non lo conosceva quasi nessuno, ma presto avrebbero imparato tutti che tipo di uomo fosse.
Passerone aveva il fisico giusto per diventare un capo squadrista. Era alto, magro, muscoloso, ma segaligno, il volto dominato da un naso lungo con una piccola gobba in cima. Anche dall’aspetto si capiva che non si trattava di un tipo conciliante. L’espressione era arcigna, da duro sempre pronto a scatenarsi, un soggetto coriaceo difficile da mandare al tappeto. Infine era un uomo di poche parole. In un’epoca dove andavano di moda i discorsi interminabili, a lui non piaceva concionare: preferiva agire.
All’inizio gli uomini di Passerone erano davvero pochi, una dozzina o poco più. Ma si fecero subito conoscere con azioni di disturbo ai danni dei comizi socialisti. Dipinsero di bianco, rosso e verde i muri del centro di Casale Monferrato e strapparono il vessillo del Psi dal balcone del municipio. A metà gennaio andarono alla stazione ferroviaria ad aspettare Umberto Terracini, che allora aveva venticinque anni e doveva incontrare i socialisti della città. Si trattennero dal manganellarlo, però lo insultarono e lo coprirono di sputi. Il 21 gennaio 1921 Passerone si presentò nel paese di Cella Monte per inaugurare il fascio locale. I socialisti lo accolsero tirando una bomba a mano. Ne seguì una sparatoria con qualche ferito.
Erano soltanto le prime scintille di un incendio ben più vasto. A intuire quel che sarebbe accaduto furono i proprietari agricoli. Disponevano di un giornale, “La Terra”, finanziato da chi si rendeva conto della necessità di fare blocco per ricacciare nell’angolo i socialisti. A contribuire c’era anche mio padre Ermete. La sera di Natale del 1920 mi chiarì il proprio punto di vista. E le sue parole non le ho più dimenticate.
Mi disse: «Caro Edoardo, abbiamo un patrimonio da difendere: la nostra azienda agricola. Ed è giusto che i soldi guadagnati onestamente servano a sostenere chi sta dalla nostra parte. Lo abbiamo fatto con il comandante Passerone e con il Forni di Mortara. Lo faremo ancora, se risulterà necessario. Ma tu devi stare fuori da queste squadre in camicia nera. Il tuo tributo alla patria l’hai già pagato al fronte, rischiando ogni giorno la vita. Adesso tocca ai più giovani di te. Noi staremo con loro, ma senza gettarci in battaglie che potrebbero costarci care».
Quando lo raccontai alla Rosa, lei sospirò: «Tuo padre è un uomo saggio e non vuole esporti a dei rischi. Quando il fascismo vincerà, tu non avrai nessun riconoscimento speciale, ma il comandante Passerone non dimenticherà che l’hai aiutato in un momento ancora difficile per gli squadristi della vostra città».
La guardai un po’ sorpreso: «A letto sei una sporcacciona, ma per il resto della giornata sei una donna molto avveduta. Mi auguro soltanto che i socialisti di Mortara non scoprano che sei l’amante di un agrario finanziatore degli squadristi…».
Lei sbuffò: «Non corro questo pericolo. I socialisti di Mortara hanno ben altro per la testa. Vogliono il potere e ritengono di essere una forza imbattibile. E quelli della tua Casale sono anche più sciocchi. Leggi che cosa scrivono sul loro giornale» mi disse porgendomi un numero di “Bandiera rossa”.
All’inizio del febbraio 1921, il foglio socialista pubblicava un’incauta invettiva contro “i quattro gatti spelacchiati del Fascio di combattimento casalese”. Le loro forze “fanno ridere. Non devono romperci i corbelli se non vogliono imbattersi nelle nostre rappresaglie”. Il proclama si concludeva con un incitamento molto rischioso: “Sotto, da bravi, egregi signori fascisti, fatevi avanti se avete del fegato!”.
«Sono dei matti, quelli di “Bandiera rossa”!» esclamai. Rosa scosse la testa: «Sono peggio che matti. Non si rendono conto di correre incontro al suicidio con gli occhi chiusi».
9
Abbasso le tasse!
Una sera del febbraio 1921 dissi alla Rosa: «Sai che cosa sta incendiando la mia città?». Lei alzò le spalle, come se non le importasse nulla di quanto stavo per raccontarle. Si stiracchiò, poi saltò fuori dal letto, andò a lavarsi e infine si sedette in cucina. Era fresca come se avesse dormito a lungo. E soltanto un po’ di rossore sulle guance testimoniava l’ardore che aveva messo, ancora una volta, nel fare l’amore.
Qui voglio ricordare un de...