La camicia di Hanta
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La camicia di Hanta

  1. 176 pagine
  2. Italian
  3. ePUB (disponibile sull'app)
  4. Disponibile su iOS e Android
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La camicia di Hanta

Informazioni su questo libro

Un diario di viaggio, un viaggio in Madagascar, lungo le false piste turistiche, a snidare le bellezze più autentiche, allontanandosi dai miraggi di plastica con cui le guide tentano, in questo caso invano, di nasconderne le immagini più vere. Che a volte, sì, sono anche le più scolorate. Nella scrittura unica di Aldo Busi questo procedere è uno scivolare di parola in parola tra i colori più profondi delle isole, tra dialoghi con conchiglie disposte all'ascolto, incontri con gechi simpatici e bimbette in vendita, dialoghi rivelatori con compagni di turismo che hanno perso ogni contatto con la propria umanità: loro che ricordano solamente l'artificio di un ricordo, sviluppandolo da un rullino di una macchina fotografica. E poi lei, Hanta, la ragazza più bella di Lakana Vezo, "la divinamente bella Hanta, la struggentemente compassionevole Hanta, la dignità fattasi bellezza e donna e persona", il miraggio e il calore di un ricamo su una camicia. Un mirabile insieme di "appunti presi su settantadue fogli di scartafaccio", per chi riesce a guardare, viaggiare e leggere con gli occhi spalancati.

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Informazioni

Editore
BUR
Anno
2015
Print ISBN
9788817081405
eBook ISBN
9788858680261





Volo tempestoso, sia da Milano a Roma che da Roma a Antananarivo o, per farla più breve, Tana: sembra che tutto il mondo occidentale sia preda di una perturbazione stabile in arrivo dall’instabile Giappone. Sarà la Borsa nipponica che crea tanti vuoti d’aria da un emisfero all’altro, e io adoro i passeggeri che vomitano l’anima, un cracker senza sale, per la paura di morire. Che vomitate a fare l’anima? Siete poi così sicuri di averne una e che non sia il vostro vomito l’unico elaborato sotto spirito delle vostre esistenze? Come detesto la gente che mostra di avere questa paura di cadere da diecimila metri più che se non cadesse da dieci centimetri, come se perdendo sé questi mortali perdessero chissà chi o chissà che! A parte che loro stanno volando e i morti no, spesso che differenza c’è fra un apparato digerente fra le nuvole o sottoterra? Questi viventi di straforo sono davvero insopportabili, basta uno scossone e si fanno il segno della croce in massa sporcandosi l’un l’altro di noccioline salate. Non mi dispiacerebbe avere talvolta un paracadute e lanciarmi dal portellone dopo aver fatto brillare a bordo, previa miccia di glicerina in supposta, una bomba anale delle mie. Proprio ieri è venuto a trovarmi Superfluo Amer di Borgosotto che avevo appena ingollato un mezzo chilo di ravanelli crudi col chinotto freddo di frigo e nel vederlo ho mollato una scoreggia così portentosa e ben solfeggiata che neanche Donizetti, e lui, ci conosciamo da quando avevamo otto anni, mi fa, «Le labbra tengono ancora bene, il canto sempre terso e alto, voce tenorile ma ancor fanciulla, l’odore non c’ho neanche il fiato per dire no comment, complimenti».
A Tana vengo assalito subito dai cambisti che fanno concorrenza alle banche presenti nell’aeroporto. Decine di giovani malgasci sono assiepati dietro le facilmente valicabili transenne e fanno cenni d’intesa a tutti i passeggeri appena sbarcati. Noi turisti ci guardiamo l’un l’altro, per capire a chi si stanno indirizzando con quei loro grandi, sdentati sorrisi di benvenuto e chi è il fortunato atteso con tanto affetto e amicizia disinteressati: ma assolutamente nessuno, è chiaro! I più cercano di fare affari offrendosi per i più strampalati, inutili servizi, come portarti il cappello fino all’auto se con te hai solo una sacca e non vuoi il facchino, altri si offrono come guida, guardia del corpo, autisti con auto di qualcun altro; alcuni sono lì a vedere i vasaha, ovvero uomini bianchi ovvero facoltosi per razza, come noi andremmo la domenica allo zoo a vedere l’insolito mandrillo o, ultimamente, all’ipermercato a vedere le confezioni. La mia guida e il mio autista dell’agenzia viaggi mi individuano subito: l’uno si chiama Angelo, assomiglia a Sidney Poitier giovane, l’altro Sofolo, cioè Sufulu, perché in malgascio la o si pronuncia u, magrissimo, biancovestito, non una parola. Si caricano i bagagli circondati da uno sciame di ragazzine e ragazzini che chiedono «Cadeau, m’siè, cadeau», cioè un regalo, cioè l’elemosina, e poi, se non gli dai soldi, accontentandosi precisano «Stylo, m’siè, stylo pour l’école», cioè una biro per la scuola, signore. Birichini, se fosse per la scuola, che ci fate qui a quest’ora del mattino invece di essere sui banchi? Anche in Madagascar, dunque, decine e decine di aspiranti scrittori e scrittrici che non me la contano giusta. Tutti a piedi nudi, oltre che a mano tesa. Ecco lo stratagemma che devo adottare contro i persecutori che mi inviano manoscritti da raccomandare a un editore: gli butterò un’occhiata solo se prima fanno a piedi nudi dieci volte dieci l’isolato, e similmente vestiti di stracci riciclati per suscitare la mia pietà. Dimenticavo, o aspiranti Salgari del Duemila: cercate di farvi venire delle candele belle grasse dal naso fin dentro la bocca. Meno New Age e più Neorealismo, gente! La grande editoria ha i suoi tic.
I miei due zelanti custodi mica mi portano in albergo, si parte immediatamente, la nostra meta finale è la riserva di Barenty, che raggiungeremo fra una decina di giorni, e vedere i lemuri bianchi che saltano sulle zampe anteriori, prima tappa Antsirabe, quanto dista? Centottanta chilometri, ma di strada quasi asfaltata. Militari costeggiano a distanze regolari chilometri e chilometri di periferia. Le risaie, ora improduttive, con al centro capanne e casine di fango e tetti di paglia, sono coperte dalle ninfee color violetto, un’estensione impressionante di arcadica visione, un presepe con collinette remote e guglie, tante guglie di chiesette di missionari, tutto sembra fatto di corteccia di sughero e muschio, e migliaia di statuine frenetiche ai bordi della strada e dentro i laghetti; le statuine fanno il bucato, portano ceste sulla testa, lenze in mano, doppi secchi sulle spalle, cespi di banane, fasci di baguette sotto l’ascella o, accucciate sui talloni, vendono mucchietti di qualcosa, arachidi, limoni striminziti, frutti della passione, viti arrugginite, granchi secchi, insetti fritti, molto a buon mercato le cavallette, con cinquanta lire ti puoi spanciare, volendo; sulle scarpate e sui cespugli sono stesi i bucati a asciugare, un museo di canottiere e pantaloni e camicie e golfini dai colori sbiaditi arrivati qui dai nostri guardaroba smessi e passati ai filantropi locali che qui li rivendono a caro prezzo; il colore della pelle è di un bruno tragico e solare dentro tutti quegli indumenti laceri e bucherellati, vestine e sottovesti cui manca una spallina o che sono senza schiena, senza bottoni, con gli orli a giorno scuciti e penduli; le acque in cui le donne e i bambini sbattono e strizzano e risciacquano sono marrone e spesso vicine agli sfoghi di fogna, che li laveranno a fare, santa pazienza?, pescatori lontani su minuscole imbarcazioni percuotono l’acqua con lance o bastoni acuminati e ogni tanto un guizzo colora l’aria d’argento vivo, e siamo immersi in un romantico vapore azzurro che strozza il respiro: siccome vanno tutti a gasolio e le marmitte sono quel che sono, come pure le auto di quinta mano d’importazione francese, i gas di scarico colorano l’aria di cancro dal tergicristallo fino alle sommità più remote. Si procede a passo d’uomo, che qui non è dei più veloci, e il mio cuore sobbalza dieci volte al minuto perché ho la sensazione che un bambino o un ben più prezioso gallo… c’è un avanti e indietro di pollame e di pulcini che beccano qualsiasi cosa fra una lamiera d’auto e l’altra in movimento… sia finito sotto le ruote, tanto repentinamente si sparpagliano a filo di portiera. Tutti guardano dentro l’abitacolo, quante bocche gentili e gengive sdentate, quante galline a testa in giù dai manubri delle bici, uno mi sbatte un coniglio bianco contro il finestrino offrendomi di comprarlo, il coniglio non fa una piega, deve averci fatto l’abitudine a questi colpi, molti mi fanno un sorriso e un cenno della mano, rispondo allo stesso modo, e dopo un po’ mi rendo conto che, se non smetto, mi verrà o un crampo al gomito o un sinodo in cui aspirare al sacro soglio per sopravvenuta slogatura da saluto papale. Non si potrebbe chiudere i finestrini o darmi una maschera antincenso, per favore?
Fuori Tana, tanto vituperata dalle guide per il suo tasso di criminalità e di pericolosità che l’invito a non trascorrervi neppure una notte è perentorio, e dopo il regolare inferno di una miseria apocalittica ma, come dire, composta, aumentano umili soldatini a piedi e appare turrita la maestosa reggia del Presidente della Repubblica: a occhio e croce, se comparato a quanta desolazione umana e urbanistica lo circonda, chi conta qui deve avere una mentalità da orologione d’oro massiccio al polso e bene in mostra fuori dal polsino. L’anziano e malato Presidente della Repubblica al potere da quindici anni – un despota che da sempre in ogni discorso ufficiale professa la democrazia spalleggiato dai suoi figli consumati anchormen, per non dire altro –, ha enormi interessi privati in varie aziende commerciali e nelle industrie estrattive e nella televisione del suo paese, e la cosa non sembra, a differenza che da noi in Italia, suscitare alcun dibattito o recriminazione sulla mancata legge sul conflitto d’interesse o, se suscita qualcosa, lui dev’essere così bravo e scrupoloso da non turbare l’opinione pubblica permettendole di venirne a conoscenza. I dettagli di una ricchezza oligarchica sconfinata, in una democrazia autentica in cui non c’è straccione su milioni che possa vantare di essere più straccione di chiunque altro, sono sempre deleteri ai fini dei discorsi sulla democrazia e i principi liberali che vengono tanto bene in tivù. Questo Presidente dev’essere davvero potente o onnipotente se ha indotto un imprenditore italiano… adesso in prigione e con un’ambasciata tacciata di non stare facendo assolutamente nulla per sbrogliargli la matassa… a falsificare la firma del Presidente stesso per avere sdoganamenti facilitati di materiali idroelettrici, inevitabilmente d’importazione (sono notizie che carpirò qui e là strada e voli facendo, i miei due accompagnatori rispondono alle mie domande di tema politico con una vaghezza e un imbarazzo e una carineria paesaggistica che non ammettono deroghe, come a dire, ma guarda le risaie d’ispirazione indocinese e gli alberi del mango e le anatre selvatiche e le mammelle scoperte, piuttosto).
Ci fermiamo per il pranzo in un’oasi recintatissima, tipo paradiso di concentramento per élite, la cui insegna promette Manja Hotel-Insectes, vale a dire? «Che ci sono farfalle, coleotteri, scarabei, uccellini…», fa Angelo, il cui italiano è ottimo, «Da mangiare come le cavallette?» chiedo, «No, da vedere», «Perché, scusa, fino adesso che cosa abbiamo visto?», «Qui sono specializzati». Eleganti pargoli indiani, la casta più ricca e più odiata del Madagascar, giocano a flipper nello spiazzo, una coppia di anziani turisti francesi sotto un giovane eucalipto tempestato di api regine grosse come cammei sta aspettando di essere servita e perfeziona col cameriere il menu con parigina pignoleria, sembrano seccati che nei dessert non siano compresi i venti alisei, ma da noi arriva una camerierina con grembiulino bianco, unto appena quanto basta per eccitare l’ambra delle dritte gambe che sbucano da un gonnellino di grisaglia memore di antiche suore comboniane, e grandi occhi a mandorla mantenuti pudicamente spaventati per educazione ricevuta, un casto incrocio sino-malgascio dei più graziosi, e arrossisce ancor prima di avere aperto bocca, si incendia quando la apro io e, spazzolandomi la pelata, con malcelata invidia scambiata certo per altro, le dico, «Che capelli magnifici, mademoiselle! Io prendo quelli, se li tagli all’istante», perché sono di quel lucente, luciferino nero corvino che, secondo me, allorché non è risultato di una tinta, è il colore più femminile in assoluto anche in una donna, un irraggiungibile tratto del fuoco che cova in un cratere segreto verso cui le mie dita si allungherebbero d’istinto, se solo potessi: toccarli, ricevere la scossa e ringraziare del privilegio accordato. Mi fanno impazzire, ecco. Con una capigliatura così, fluente, elettrica e nera come l’innocenza sul punto di esplodere in passione e esperienza, ho immaginato io, nell’elaborazione di una novella del Boccaccio, la principessa Alatiel che dovrà, con nemmeno una dozzina di uomini, fare all’amore diecimila volte in quattro anni prima di ritornare vergine, grazie allo stratagemma di un mercante giudeo, alla dimora paterna… Mi sembra che una giovinetta dalla carnagione d’avorio su una coltre rosso amaranto che disannodi tale nera chioma e presenti all’imminente amante in piedi accanto a lei gli altri tre cespugli che iscrivono fra ascelle e pube il triangolo più divino della mortalità sia la sola alternativa a fare un fist-fucking contemporaneamente a un pacioso salumiere svizzero e a un Gauleiter heideriano vestiti di cuoio e borchie in una dark-room leghista di Sesto San Giovanni. Questo, san Giovanni compreso di un sesto di vaselina e il resto di sputo, le trasmetto guardandola con paterna, ambigua e quindi cristiana tenerezza mentre ordino accennando al cameriere intento con la coppia di francesi, «Mi porti quel che c’è ma me lo porti lei, mademoiselle, non lui», e la ragazza fugge via ciabattando a una spanna dal terreno coperto di petali di ibisco rosa che s’alzano al suo passaggio come minuscoli fenicotteri.
Non mi rivelerò a nessuno in nessun senso, è del tutto superfluo asserire di essere sessuale con gusti contrari a ogni normativa da stato etico in un paese di maschi così ineffabili, improbabili come folletti più ossa che ciccia, potrei usarne uno al massimo come broche da spalla, un pappagallino umano da esibire mentre faccio il giro porgendo il piattino dopo un numero da bipede giocoliere ariano col suo pigmeo millepiedi alato perché anticamente incrociato con una cinciallegra cinese, dirò che sono sposato e fedele alla madre dei miei figli o che, se non vado a puttane, è perché soffro ancora pene d’amore per una donna crudele ma insostituibile. Dirò che in verità viaggio per dimenticare, ecco la ragione dei tanti prepagati: per non incorrere nelle ire degli osti cui, immemore di tutto, non salderei il conto. Farò come se, farò finta, nessuna delle mie nature è ormai più vera di questa, che non lo è. Che sollievo fare l’eterosessuale, e doppio perché né lo sono né lo faccio, e triplo perché, facendo l’eterosessuale astinente, non devo niente a nessuno e a nessuna, ricevo l’applauso per una recita senza aver dovuto studiare la parte, è tutto già così predisposto a puntino, allunghi la mano e te la ritrovi piena di rassicuranti luoghi comuni che ispirano solo consenso e complicità vuoi negli esseri umani vuoi negli altri insetti in generale. Inoltre devo aggiornare la mia sincerità: un tempo mi era facile ribadire che amavo scopare con gli uomini e non con le donne, perché era VERO. Ma oggi… Sarebbe come asserire che dell’anguria ti accontenti delle scorze, cibo prediletto dal porco, con la differenza che a me le scorze dell’anguria non piacciono affatto, nemmeno in mostarda. E di un uomo, da prendere, non c’è altro. Se non forse, e per l’appunto, la donna che trascura. Finirò per essere considerato un puttaniere e un rovinafamiglie patentato, lo sento. Ovunque giro lo sguardo, c’è uno sguardo di donna trascurata, dalla selvaggia alla civilizzata, e io sono così adorabile, il naturale patrono delle afflitte.
Improvvisamente la mente svolazza e trova pace e divertimento e, purtroppo, anche donne che ci stanno subito se non sto attento. Mi è sempre piaciuto fare il galante con le donne, fargli complimenti se se li meritano e soprattutto se sono fuori luogo, mi piace rimbambirle fino a rincretinire io, dar loro un fulmineo sogno romantico di poca spesa, farle pensare che sto pensando a quella cosa lì tra le anime delle loro cosce, una che tira in avanti e una che tira indietro, dargli la speranza di dirmi di no prima che arrivi il mio, secco, se sbagliano precipitandosi e mi prendono in parola, una parola che non ho mai dato ma fatto vagheggiare da consumato criminale del desiderio. Un aquilone una volta a terra non è niente, tienilo alto! Già, la graziosa camerierina timorata di Dio! Ovviamente i fenicotteri, non solo quelli minuscoli dei petali di ibisco rosa, si alzano in volo solo se sentono l’odore di aringa affumicata che emana dalla sua, si fa per dire, sottoveste di vecchio nylon. Solo con un’ascella potrebbe resuscitare un dinosauro addormentato mentre si china e mi depone davanti il piatto. Frescura di grazia e puzzetta d’antico. Resistibile, ma faccio finta di no, mi alleno. Tiro su col naso in un’estasi teatrale e, quasi sbadatamente, mi fiondo con metà guancia nei suoi capelli, senza che lei se ne avveda, Angelo deglutisce senza espressione, la camerierina ciabatta via, sulla prima cucchiaiata c’è una farfalletta caduta nella zuppa, buona anche quella. A metà tempo sospiro rassegnato con l’aria di uno con la testa tra le nuvole. Ormai sento di avere in pugno ogni pubblico del mondo. Fuchi, api, millepiedi, coccinelle, uomini e donne: tutto ciò che non ammette evoluzione.
Chissà come ce l’ha, la mancata novizia meticcia, gliela immagino giallo ocra come il becco di un pellicano, poco bombata, anzi, a filo di lama e più lunga del normale, con un pesciolino argento che si dibatte pronto a essere inghiottito e moltiplicato, e addio.
12 aprile, Pasqua, Antsirabe. Tutte le stradine, oggi, portano a una chiesetta di lamiere e cemento armato inoltrata fra fogne a cielo aperto e campi, centinaia di donne e bambini col loro straccio della festa sciamano dentro e fuori le funzioni religiose di un villaggio dove incontriamo una famiglia di turisti italiani, i coniugi Pollastri, dall’accattivante inflessione emiliana, con le due figlie grandicelle che fino a Ifati, un ottocento chilometri da Tana, faranno il mio stesso itinerario, sono tutti e quattro ben pasciuti, lei, la moglie, muta e vigile, col marsupio, che si tiene stretto come un cilicio alla vita, fa da cassaforte ambulante, lui, di un grasso che non cola, fermo come marmo, parla e parla radioso, nessuno di loro quattro ha fatto l’antimalarica, non si vede una zanzara che è una in giro, esultano, io invece non so quanti vaccini mi hanno iniettato tutti d’un colpo, tanto che a volte vacillo dagli scompensi improvvisi della pressione, ma lui non mi ascolta, già invasato dall’eccitazione di poter raccontare tutto, me compreso, ai dipendenti non appena farà ritorno alla sua fabbrichetta di Carpi. Fotografa ogni cosa, anche le cacche delle mosche alternandole ai mucchietti delle sue due bambinone in posa. Dice, da entusiasta fedele praticante, «Finalmente, grazie alla santa Pasqua, abbiamo visto l’autentico Madagascar in un colpo solo. Chiesa stracolma, cantavano, erano tutti felici. Lei l’ha visitata?», io, «No, no, sto andando a un laghetto incantato che si trova sul cammino. Vado lì per via della leggenda sui due amanti trasformati in sponde perché si potessero guardare sempre e toccarsi mai. Sa, versione ritoccata dai missionari, pedagogia dell’astensione sessuale degli altri… Le chiese a me mi stanno sui coglioni». Quasi casca all’indietro, la moglie gli ha dato un colpo in avanti con entrambe le braccia più il marsupio in mezzo.
Fra viottoli scoscesi e pozzanghere profonde mezzo metro, visita con mancia a artigiano che costruisce piccoli giocattoli, preminentemente risciò, qui chiamati pousse-pousse, con materiali di scarto ospedaliero e urbano, le ruote sono fatte coi tubicini delle flebo e i raggi delle ruote con gli aghi delle siringhe, la capote con le scatole di sardine pitturate, le stanghe con carta e colla di pesce, il freno a mano con i ganci delle bottiglie del latte e tanti piccoli dettagli con i sigilli delle bottiglie di plastica, un tormento di pazienza e di abilità. Uno strazio multicolore che mi lascia il cuore sgonfio e a terra. Mi spiega la guida che qui non si butta via niente, che tutto ha il suo valore, che niente è mai veramente inutilizzabile, a parte l’infinito. Anche un fagiolo cui accadesse di non venire metabolizzato e di essere cagato fuori intero rientra nel circolo della vita, cioè del commercio. Ma oggi è festa comandata, Cristo è risorto, i bimbi sono vestiti di pizzo bianco, anche i due maialini che sguazzano nel recinto sotto la capannuccia coperta da un banano sembrano più bianchi e in ordine del solito, e piccoli r...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Copyright
  4. Testo
  5. Bibliografia