
- 368 pagine
- Italian
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eBook - ePub
Acciaio (nuova edizione)
Informazioni su questo libro
Nei casermoni di via Stalingrado a Piombino avere quattordici anni è difficile. E se tuo padre è un buono a nulla o si spezza la schiena nelle acciaierie che danno pane e disperazione a mezza città, il massimo che puoi desiderare è avere un fratello che comandi il branco, o trovare il tuo nome scritto su una panchina. Lo sanno bene Anna e Francesca, amiche inseparabili che tra quelle case popolari si sono trovate e scelte, e in quella sofferta periferia vanno alla ricerca d'identità e di voce. Quando il loro corpo adolescente inizia a cambiare, hanno due sole possibilità: nascondersi e cercare di scomparire agli occhi degli altri, oppure usare quella bellezza come arma per ottenere un nuovo posto, una via d'uscita.
Attraverso gli occhi di quelle due ragazzine che diventano adulte, delle storie di amori falliti e deludenti, e di un'amicizia invincibile che pure non riesce a non fare del male, Silvia Avallone racconta un'Italia operaia, inedita, dimenticata.
Un romanzo d'esordio potente, una storia di formazione cruda e sincera che arriva dritta al cuore del lettore.
Attraverso gli occhi di quelle due ragazzine che diventano adulte, delle storie di amori falliti e deludenti, e di un'amicizia invincibile che pure non riesce a non fare del male, Silvia Avallone racconta un'Italia operaia, inedita, dimenticata.
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Informazioni
Parte seconda
Alghe
12
Il 13 agosto del 2001, a mezzanotte, Alessio si issò in cima a un palo arrugginito della vecchia linea elettrica assicurandosi con l’imbracatura. Ci si era arrampicato sopra come un gatto. Indossava la tuta da lavoro e il solito berretto dei Chicago Bulls. Da quell’altezza vedeva tutto il promontorio e il mare, poco distante, nero e caldo.
Due tralicci più in là, in calzoncini e maniche corte, Cristiano sfoderava il tranciacavi e gli faceva segno di cominciare. Aveva arrotolato le gambe intorno al palo, non si era portato neppure una fune per agganciarsi. Lui non aveva paura di niente. Nel petto il battito alterato e la solita emozione, tredicenne, della bravata.
La notte era pulita. E deserta.
Si fissarono negli occhi, decisi a non lasciare impunito neppure un traliccio. Il cuore di Alessio pompava sangue e cocaina: come sempre con Cristiano, quando si intrufolavano in una proprietà privata per rubare qualcosa.
Erano dentro il recinto spinato della Dalmine-Tenaris, al centro di una distesa rada di canneti, di fronte all’oasi del WWF. Accanto, il gigante dell’Enel proiettava le sue torri in verticale, emetteva luci bianchissime uguali alle stelle. Erano le cose più alte della costa. La luna filtrava i vapori degli acquitrini, diventava una bava. Poi solo sterpaglia, lecci bassi e roveti. Poi il mare, più niente.
C’erano soltanto loro, al lavoro, in mezzo agli impianti. Forse un paio di volpi, qualche cinghiale e tante, tante zanzare. Non si erano portati dietro le torce. L’argento della luna bastava e avanzava: non allarmava le guardie della Dalmine.
Anche da qui, da ovunque, Afo 4 era visibile. La torre dell’altoforno baluginava tranquilla sul promontorio. Faceva la sentinella. E una nave da crociera, illuminata a festa, passava ogni tanto come un sogno.
Poco più avanti, branchi di ragazzi si erano radunati sulle spiagge, come ogni anno, in larghi cerchi intorno al fuoco. Era la settimana di Ferragosto, quasi tutti erano in ferie, e ogni gruppo aveva organizzato la sua spiaggiata lungo la Principessa, con birre e canne. C’erano anche quelli di via Stalingrado, i più tamarri. C’erano Sonia e Jessica che si chiedevano dove fossero finiti quei due, e non potevano immaginare.
Alessio arrotolò il primo fascio di rame e fece ok con le dita. Ci siamo.
Cristiano gli rispose lanciando un enorme cavo nell’aria a mo’ di lazo, fingendo di cavalcare il palo come un toro o qualcos’altro. È un vero cretino, pensò Alessio scuotendo la testa.
Qualche giorno prima, alla mensa della Lucchini, un tale particolarmente furbo si era lasciato scappare che dentro il parco della Dalmine era pieno di rame. L’aveva detto facendo l’occhiolino, a voce alta, senza sapere che chi ascoltava in silenzio, con il rame, aveva parecchia confidenza. «Non l’hanno smantellata tutta, la vecchia linea elettrica.» E loro avevano afferrato il concetto. Di più: lo avevano bruciato sul tempo.
Quella sera, a fari spenti, avevano costeggiato la fabbrica di tubi lungo la strada sterrata del quagliodromo. Avevano cercato il punto esatto, dove il canneto è rado e la palude bassa. Avevano squarciato la rete e si erano inoltrati dentro come animali notturni.
Il mercato nero del rame: questo sì che era in piena espansione. Adesso, ogni tanto alzavano la testa per accertarsi che dalla Dalmine non uscisse nessuno. Era tutto deserto e silenzio. Lo fu per un’oretta buona.
Poi Cristiano notò qualcosa muoversi nella vegetazione. Si irrigidì. Veniva verso di loro. Anche Alessio si fermò.
Un’auto procedeva lenta in mezzo al canneto con gli abbaglianti spianati. La polizia!, fu il primo pensiero di entrambi. Seguirono il rumore dei pneumatici sulla ghiaia e il profilo dell’auto che parcheggiava non troppo distante. Trattennero il fiato.
Il motore si spense, ma nessuno usciva. Trattennero il fiato per altri due minuti. Tesi, acquattati. Altri due minuti. Si spensero i fari. Ecco: adesso l’auto cominciava a ondeggiare. Piano, come una culla. Avanti e indietro, come una sedia a dondolo.
Alessio sorrise, sentendosi sciogliere la tensione di colpo. Cristiano li mandò a cagare con la mano. Ma proprio stasera? Con tutto il mare che c’è, proprio qui?
Poco male. Di sicuro non erano sbirri e nemmeno li avrebbero chiamati. Avevano ben altro da fare, beati loro. L’auto pulsava tranquilla, il parabrezza cominciava ad appannarsi.
Era una strana compagnia.
Intanto, Alessio e Cristiano ripresero a tranciare e a sudare. La maglietta gli si appiccicava addosso. L’umidità saliva dal mare, impastava bocca e narici, trasformava l’aria in acqua.
Laggiù, sulla statale, file di auto incolonnate avanzavano a passo d’uomo verso il porto. Da quell’altezza Cristiano poteva vederle: un serpente di fari gialli e motori accesi. I turisti ansiosi di imbarcarsi per l’Elba con la prima nave del mattino. Non li invidiava per niente, quegli sboroni di città che domani avrebbero raggiunto l’isola per festeggiare il Ferragosto in albergo, sotto l’ombrellone di un lido bianchissimo.
Quello dei turisti era un altro mondo, un’altra vita, affollata e normale. Qui c’era l’adrenalina, c’erano persino due che facevano l’amore. E le guardie in agguato, le zanzare, chili e chili di rame, ovvero un sacco di soldi da fare.
Cristiano guardò il suo amico di sempre, il suo migliore amico, che balzava giù e arrotolava un grosso cavo con la melma alle ginocchia. Lo guardò con un sorriso speciale.
Perché sì. Perché, quando avevano dodici anni, s’infilavano nei cantieri sull’Aurelia e aspettavano che un operaio si allontanasse. Dicevano: «Vai a pisciare, stronzo». E se quello si allontanava sul serio, dicevano: «Uno, due, tre». Poi schizzavano dentro la cabina incustodita di una motopala o di un escavatore, quegli arnesi mastodontici che avrebbero guidato per tutta la vita.
Alessio sollevò la testa e lanciò un’occhiata all’auto.
«Sempre là stanno?» Li indicò. «Complimenti!»
Si asciugò con il braccio il sudore sulla fronte e respirò a pieni polmoni una boccata di salmastro. Gli veniva da ridere.
Rubare il rame in piena notte: è una cosa da raccontare alle ragazze. Alessio sapeva com’erano fatte, sapeva che a un certo punto del racconto sarebbe spuntato sul loro volto quel sorriso particolare. Le labbra severe, ostinatamente chiuse eppure, in filigrana, già pronte al bacio. Per quel bacio lui avrebbe fatto qualsiasi cosa, per quel genere preciso di ragazze che si innamorano dei farabutti, e poi sposano un impiegato di banca.
Lui comunque – tentò di sorridere – era in cima a un traliccio e, francamente, si divertiva come un bimbo. Quanto si diverte, allo sportello, un impiegato di banca? E se un giorno, per caso – ma quel giorno doveva pur arrivare – avesse incrociato Elena per strada, glielo avrebbe detto davvero: «Brava, fai bene, sposati il rospo bavoso dell’Unicredit. Sai, io sono fiero di quello che sono. Perché mi spacco il culo, però sono vivo».
Finalmente l’auto accese il motore, poi i fari, e lentamente scomparve scricchiolando sul selciato.
«È stato un piacere!» rise Cristiano.
Alessio fece finta di applaudire.
Si guardarono in faccia: facevano schifo. Guardarono l’orologio. C’era poco da scherzare. Allora giù a tranciare con le mani spaccate, le gambe atrofizzate, la soddisfazione assoluta di aver già accumulato una quantità industriale di rame.
Andarono avanti così, appesi con le cesoie in mano, per cinque ore. All’alba avevano una tale voglia di urlare che si sentivano scoppiare i polmoni. Non avevano quasi fiatato, per paura delle guardie, per paura che uno dei camionisti addormentati sul volante, nel parcheggio d’ingresso della Dalmine, si svegliasse e cominciasse a suonare il clacson.
Quando smontarono erano un bagno di sudore e avevano le braccia a pezzi. Ormai, neppure più i fari di un’auto dispersa. Il niente del niente. Tra poco gli operai di turno sarebbero usciti e altri, da tutta la Val di Cornia, sarebbero arrivati con i pullman, le auto, per il turno successivo.
Guadarono la melma con gli stivali di gomma e sulle spalle gli ultimi cavi arrotolati. Raggiunsero la macchina e riempirono il bagagliaio, i sedili posteriori, ovunque ci fosse un buco, fino all’orlo. Poi, a fari spenti e con gli ammortizzatori compressi dal peso, costeggiarono di nuovo la statale.
Un cartello nero a caratteri arancioni indicava la “zona artigianale”. Indicava. Perché di recente qualcuno, un genio, aveva annerito la “a”, la “r”, la “t”, la “g” e la “i”. L’indicazione era più fedele al reale, adesso.
Alessio guidava con calma, attento alle buche e ai sassi. Rumore di ranocchi, di insetti simili a elicotteri, e quelle maledette zanzare che entravano dai finestrini abbassati insieme alla polvere.
Era tutto un grattarsi i polpacci.
Quando finalmente superarono la Dalmine, Alessio ingranò la quarta e poi la quinta. Sollevò un gran polverone di terra e si voltò verso Cristiano con un sorriso galattico.
Cristiano gli rispose tirando un pugno contro il parabrezza. Un pugno felice, di vittoria. Accese lo stereo: I’m blue, da ba dee da ba die, a palla, I’m blue, if I was green I would die. Le casse tornarono a ruggire, e allora cacciarono la testa fuori dai finestrini, insieme. E insieme gridarono forte, sull’Aurelia deserta, contro le colline.
«Tremila lire al chilo, moltiplicato per?»
«Qualcosa come…» Alessio diede un’occhiata nello specchietto retrovisore.
«Qualcosa come mezza tonnellata!» esultò l’altro voltandosi a controllare il malloppo.
A conti fatti, in una notte, si erano intascati in due lo stipendio Lucchini di un mese.
«Gli abbiamo smantellato anche il culo, e manco una sirena è scattata!»
«Quelli dormivano, o si sparavano un porno…»
«Ale, guardami.» Al semaforo si fissarono negli occhi stanchi e lucidi. «Domani sera si va al Gilda, non sento seghe.»
Quella di Alessio era la sola auto a vagare nella città addormentata.
Si sentirono un po’ ladri, quando scesero in via Stalingrado e le portiere fecero un gran fracasso, chiudendosi. Non risero per niente quando, con lo sguardo attento alle finestre nel timore di vederne una accesa, stivarono il rame in garage.
Sgattaiolarono attraverso il cortile, poi ciascuno s’infilò in punta di piedi nel proprio condominio. Su per le scale si sentivano solo uomini russare, e un neonato piangere. Era come invadere un regno straniero. E quello che piangeva era il figlio di Cristiano, nell’appartamento della sua ex ragazza.
Si fermò alla porta, vi accostò l’orecchio: fin tanto che lei non si fosse alzata per prenderlo in braccio, lui sarebbe rimasto lì ad ascoltarlo piangere. Sentì qualcosa nel petto di forte e di sciolto. Forse avrebbe voluto bussare. Ma non ne era capace. E scivolò nel buio divorando di corsa altre tre rampe di scale.
Alessio ci mise tutto l’impegno possibile per non fare rumore. Si era preoccupato di togliersi le scarpe e aveva preferito non accendere la luce. Tentò di raggiungere la sua stanza a tentoni.
Ma gli andò male.
Sbatté contro una sedia in cucina. Il rumore era rimbombato, irreale, in tutte le stanze dell’appartamento. Tempo zero, il clic di un interruttore della luce si era sentito fin lì. Bestemmiò dentro di sé. E sua madre si presentò, la faccia gonfia di sonno, proprio di fronte a lui.
Sandra stava in piedi, rigida come il bastone di una scopa, davanti alla figura immobile di suo figlio alle sei del mattino. In tuta da lavoro, sporco in faccia, in condizioni paragonabili solo a un soldato nel Vietnam in Apocalipse now.
«Adesso mi spieghi» cominciò. Staccò le labbra incollate dal sonno, e sotto la pelle trasparente della fronte un muscolo si tese. Le uscì una voce non sua, e non riuscì a completare la frase.
Alessio guardava sua madre: la donna in vestaglia, le spalle incurvate, era invecchiata, sì, era pallida e sfibrata, quella donna con gli occhi pieni di tristezza, che adesso chiudeva le palpebre per non vedere.
Non se ne era ancora accorto, che sua madre era una donna con troppe preoccupazioni e troppo stanca per reggere anche le sue cazzate. Bastava quel disgraziato di suo padre, bastava il mondo bastardo a farle male. Lui avrebbe dovuto, forse, renderla felice.
«Mamma» trovò il coraggio, «torna a letto e per favore non chiedermi niente. Ti giuro che non devi preoccuparti.»
Sandra contin...
Indice dei contenuti
- Copertina
- Copyright
- Parte prima - Amiche del cuore
- Parte seconda - Alghe
- Parte terza Ilva
- Parte quarta Elba
- Indice
- Marina Bellezza - Primo capitolo