
- 324 pagine
- Italian
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eBook - ePub
Goodbye Berlin
Informazioni su questo libro
Quando Tschick arriva nella classe di Maik non passa inosservato. Zigomi pronunciati, occhi da mongolo, non apre bocca e puzza di alcol. Di sicuro non sembra uno con cui fare amicizia. Ma tutto può succedere quando tua madre se ne va per l'ennesima volta alla beautyfarm, alias una clinica per alcolisti, e tuo padre parte in vacanza con la sua segretaria diciottenne. Se poi Tatjana Cosic, la ragazza di cui sei innamorato perso, non ti invita alla sua festa di compleanno… Può anche darsi che ti ritrovi su un'auto rubata accanto a Tschick, per andare in una terra chiamata Valacchia, che forse esiste, o forse no. L'importante è partire.
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Informazioni
Print ISBN
9788817080941eBook ISBN
97888586798451
La prima cosa che sento è l’odore: sangue misto a caffè. La macchina del caffè è sul tavolo, il sangue ce l’ho nelle scarpe. A dire la verità non è solo sangue. Appena il più vecchio ha detto “quattordici”, mi sono pisciato addosso. Sono rimasto per tutto il tempo appollaiato sullo sgabello senza muovere un muscolo. Avevo le vertigini. Ho provato ad atteggiarmi come credevo avrebbe fatto Tschick se avessero detto a lui “quattordici”, ma poi me la sono fatta sotto dalla paura. Maik Klingenberg, l’eroe. Non capisco neppure perché sono tanto agitato. Dopotutto era ovvio fin dall’inizio che sarebbe finita così. Di sicuro Tschick non se l’è fatta sotto.
A proposito, dov’è finito Tschick? L’ultima cosa che ricordo di lui è il salto in mezzo ai cespugli su una gamba sola, in autostrada. Ma a quest’ora credo che l’abbiano beccato. Non vai tanto lontano con un piede fuori uso. Di chiederlo a questi poliziotti, però, non se ne parla. Meglio star zitti, caso mai non l’avessero visto. Chissà, magari non l’hanno visto davvero. E non sarò certo io a mettergli la pulce nell’orecchio. Possono anche torturarmi, se credono. Anche se penso che i poliziotti tedeschi non possano torturare nessuno. In Turchia sì che possono torturarti. E anche alla televisione.
Ma pure starsene chiusi qui, al comando della stradale, pieno di piscio e sangue, con quelli che ti bombardano di domande sulla tua famiglia non è che sia una bella situazione. Alla fine preferirei quasi un po’ di tortura. Almeno avrei una buona scusa per essere agitato.
Meglio tenere la bocca chiusa, ha detto Tschick. E credo che abbia ragione. Soprattutto ora che è andata com’è andata. Ora che anche a me non importa più di niente. Be’, proprio di niente… no. Di Tatjana Cosic, ovviamente, m’importa. Anche se è già da un po’ che non ci penso più. Ma adesso che sono seduto qui, su questo sgabello, e da là fuori, dall’autostrada, arriva il rombo delle auto che passano a tutta velocità e il vecchio poliziotto se ne sta da cinque minuti buoni a trafficare con la macchina del caffè, a riempire il serbatoio d’acqua per poi svuotarlo subito dopo, a premere l’interruttore dell’accensione, a studiare l’oscuro marchingegno dal basso quando anche un deficiente si sarebbe già accorto da un pezzo che la spina non è inserita nella presa della prolunga, ecco… adesso mi viene da pensare a Tatjana. Perché se Tatjana non fosse mai esistita, io non sarei finito qui. Per quanto, a onore del vero, Tatjana con tutta questa storia non c’entra niente. Non è chiaro cosa voglio dire? Be’, mi dispiace. Ci riproverò più avanti. Tatjana in tutta questa storia non compare mai, anche se per tutto il viaggio non ho smesso un solo istante di sognare che potesse vederci. Che potesse vedere quello che vedevamo noi quando eravamo in mezzo al campo di grano. Che potesse vedere come ce ne stavamo là, in cima alla montagna di spazzatura, con quel mazzo di flessibili in mano e sulla faccia l’espressione da perfetti idioti. Per tutto il tempo ho immaginato che Tatjana fosse dietro di noi, alle nostre spalle, e vedesse quello che vedevamo noi e fosse felice per le stesse cose che rendevano felici noi. Ma adesso sono contento che sia stato solo un gioco di fantasia.
Il poliziotto prende un fazzoletto di carta verde dal dispenser e me lo passa. Cosa devo farci? Pulire il pavimento? Si stringe il naso fra due dita e mi guarda. Ah! Devo soffiarmi il naso. Mi soffio il naso e lui sorride. Ha un’espressione bonaria. A questo punto posso anche togliermi la tortura dalla testa. E ora dove lo metto, il fazzoletto? Mi guardo intorno e ispeziono il pavimento. Tutta la stazione di polizia ha il linoleum grigio per terra, identico a quello dei corridoi che portano alla nostra palestra. Ha anche un po’ lo stesso odore. Piscio, sudore e gomma. Rivedo Wolkow, il professore di educazione fisica, che attraversa il corridoio, scattante, in tuta da ginnastica, settant’anni, tiratissimo: forza ragazzi! Hop, hop! Sento il ritmo cadenzato dei suoi passi sul pavimento, le risatine lontane che arrivano dagli spogliatoi delle ragazze e incrocio il suo sguardo torvo che punta da quella parte. Vedo le finestre alte, le panche, gli anelli che scendono dal soffitto e che nessuno usa mai. Vedo Natalie e Lena e Kimberley entrare dalla porta laterale della palestra. E Tatjana, con la sua tuta verde. Vedo il loro riflesso sfocato sul pavimento, gli immancabili leggings lucidi, le felpe. E vedo che ultimamente metà delle ragazze si presenta a lezione con addosso il maglione di lana e che almeno in tre esibiscono un certificato di esonero firmato dal dottore.
Hagecius-Gymnasium, Berlino, ottava classe.
«Credevo quindici» dico, e il poliziotto scuote il capo.
«No, quattordici. Quattordici. Cos’ha quella macchina del caffè, Horst?»
«È andata» dice Horst.
Voglio parlare con il mio legale.
Forse è questo che dovrei dire ora. È la frase perfetta per certe situazioni. Lo sanno anche i sassi. Lo dicono sempre nei telefilm. Voglio parlare con il mio legale! Già, ma se lo dico io, questi si ammazzano di risate. E poi non credo nemmeno di sapere cosa significhi veramente. Ma mettiamo pure che io dica davvero vorrei parlare con il mio legale e loro mi chiedano: «Con chi vorresti parlare, scusa? Con il tuo legale?» io cosa cavolo rispondo? Io, un legale, non credo neppure di averlo mai visto. E non so neppure perché dovrei averne bisogno. Per di più non so neanche che differenza c’è fra un legale e un avvocato. O un pubblico ministero. A naso, un legale dovrebbe essere qualcosa tipo un giudice, solo che sta dalla mia parte e ne capisce più di me di legge. Ma qui, in questa stanza, tutti ne capiscono più di me di legge. Soprattutto i poliziotti. Certo, potrei anche chiedere se adesso mi serve un avvocato o roba del genere. Ma scommetto che se lo chiedo al più giovane, quello si volta verso il collega e grida: «Ehi, Horst! Amico mio! Vieni qua! Il nostro eroe vuole sapere se ha bisogno di un legale! Ma guardalo. Sanguina come un agnello sgozzato, molla una pisciata da competizione, e vuole parlare con il suo legale!» Ah, ah, ah. E ovviamente si ammazzano dalle risate. No, credo di avere già abbastanza problemi. Non c’è bisogno che vada anche a buttarmi in pasto alla loro ironia. Quel che è stato, è stato. Basta. E poi neanche un legale può cambiare le cose. Solo un malato di mente potrebbe arrischiarsi a mettere in dubbio che siamo nella merda fino al collo. E io cosa potrei dichiarare in mia difesa? Che sono rimasto tutta la settimana a casa a mollo in piscina e se non ci credete chiedetelo alla donna delle pulizie? Che quei maiali sono piovuti dal cielo? Davvero, non c’è molto che possa dire o fare a questo punto. A parte pregare la Mecca e cagarmi nei pantaloni, non mi rimangono grandi alternative.
Il poliziotto più giovane, che sembra essere piuttosto gentile, scuote il capo e ripete: «Macché quindici. Quattordici. A quattordici anni sei già perseguibile legalmente.»
Probabilmente ora dovrei sentirmi dilaniato dai sensi di colpa, provare un rimorso bruciante e cose del genere, ma la verità è che non provo proprio un bel niente. Ho solo le vertigini. Mi abbasso per grattarmi il polpaccio. Non lo trovo. Una strisciata di fanghiglia viscida e rossiccia mi rimane attaccata alla mano. Non è mio il sangue, ho detto prima, quando me l’hanno chiesto. Ce n’era così tanto dappertutto, di sangue, che credevo davvero che fosse di qualcun altro. Ma se questo sangue non è mio, dov’è finito il mio polpaccio?
Alzo la gamba dei pantaloni e guardo giù. Ci metto un secondo per rendermi conto di cosa è successo. Se fossi stato costretto a sorbirmi una scena del genere al cinema, giuro che mi sarei sentito male. E infatti mi sento male. Mi sento male in questa stazione di polizia, e la cosa per certi versi è perfino rassicurante. La mia immagine riflessa sul linoleum mi viene incontro velocissima per poi esplodermi in faccia in una miriade di frammenti. E svengo.
2
Il dottore apre e chiude la bocca come una carpa fuori dall’acqua. Passano un paio di secondi prima che escano le parole. Il dottore urla. Perché urla, adesso? Urla alla donna piccola. Poi s’intromette quello in uniforme. In uniforme blu. Un poliziotto, che però non conosco. Sta discutendo con il dottore. Com’è che so che quello è un dottore? Ah, porta il camice bianco. Certo, potrebbe anche essere un fornaio. Ma dalla tasca del camice sbucano una piccola torcia di metallo e uno stetoscopio. E cosa vuoi che ci faccia un fornaio con lo stetoscopio? Ausculta i panini? No, dev’essere per forza un dottore. Ora il dottore indica la mia testa e sbraita. Allungo le mani sotto le lenzuola e mi tasto le gambe. Sono nude. Sento però che non sono più appiccicose di piscio e sangue. Ma dove mi trovo?
Sono supino. Sopra di me è tutto giallo. Lancio un’occhiata da un lato: grande finestra scura. Dall’altro: divisorio di plastica bianca. Ospedale, direi. Il che spiega il dottore. Anche la donna piccola indossa il camice e ha un blocchetto per scrivere. Ma quale ospedale? Il Charité, forse? No. Non so. Una cosa però è certa: non sono a Berlino. Potrei chiedere dove siamo, ma nessuno mi degna di uno sguardo. Troppo presi ad azzuffarsi. Al poliziotto non piace che il dottore gli urli contro, così gli risponde urlando ancora più forte. Interessante. Questo ti fa capire chi ha il coltello dalla parte del manico. Non c’è ombra di dubbio che ce l’abbia il dottore. Mi sento stanco, spossato, ma al tempo stesso anche stranamente felice. Anzi, mi sento così pervaso di felicità che mi addormento senza dire una parola. La felicità, scopro più tardi, si chiama Valium e te la somministrano in dosi massicce per via intramuscolare.
Quando mi risveglio, la stanza è inondata di luce. In mezzo alla grande finestra splende il sole. Qualcuno mi gratta le piante dei piedi. Di nuovo il dottore. Uno diverso, però. Anche lui accompagnato da un’infermiera. Niente poliziotti. Ma il modo in cui questo dottore mi gratta i piedi non è affatto piacevole. Perché diavolo me li gratta così?
«È sveglio» osserva l’infermiera senza troppo entusiasmo.
«Ah, aha.» Il dottore mi guarda. «Come ti senti?»
Provo a dire qualcosa, ma dalla bocca mi esce solo un “Pfff”.
«Come ti senti? Lo sai come ti chiami?»
«Pfff-feh?»
Che cavolo di domanda è? Credono forse che sia deficiente? Guardo il dottore e lui guarda me. Poi si china e mi spara un fascio di luce negli occhi con la sua torcia tascabile. Cos’è? Un quarto grado? Devo dare le mie generalità o cosa? Non sarò mica finito in una di quelle cliniche segrete dove torturano la gente? E se anche fosse, non potrebbe smetterla un istante di tirarmi su le palpebre o fingere almeno di essere interessato alla mia risposta? Certo, non si può dire che gli stia rispondendo a tono, anzi, in verità non gli rispondo affatto. Perché mentre sono lì che ragiono se è meglio che dica Maik Klingenberg o solo Maik o magari Attila il flagello di Dio – è così che si presenta mio padre al telefono quando è stressato, dopo che per tutto il giorno gli sono piovute addosso solo notizie funeste e si è appena sparato due Jägermeister uno dietro l’altro – insomma, mentre sono lì che penso se in una situazione del genere convenga di più starsene zitti o vuotare il sacco, il dottore ha già cominciato a parlare d’altro e tra un “quattro milligrammi qui” e un “tre milligrammi là” cado di nuovo in un sonno profondo.
3
Degli ospedali si può dire tutto, tranne che non ci si sta bene. Io ci vado sempre volentieri, all’ospedale. Gran cazzeggio tutto il giorno e ogni tanto una visitina delle infermiere. Le infermiere sono giovanissime e incredibilmente gentili. E indossano quegli striminziti camici bianchi che trovo assolutamente fantastici e che lasciano sempre intravvedere la biancheria intima di sotto. In verità non so come mai li trovo fantastici. Perché se vedessi una andare in giro per strada con uno di quei camici addosso, direi che le manca qualche rotella. Ma in ospedale no. In ospedale è diverso. In ospedale sono perfetti. Io almeno la penso così. È un po’ come nei film di mafia, dove ci sono sempre due gangster che si squadrano per un’eternità prima di sputar fuori una parola. «Ehi!» Un minuto di silenzio. «Guardami negli occhi!» Cinque minuti di silenzio. Nella vita reale un dialogo del genere sarebbe assurdo. Ma in un film di mafia, cavolo se funziona!
La mia infermiera preferita è libanese e si chiama Hanna. Hanna ha i capelli corti e neri e indossa biancheria intima normale. Ecco un’altra cosa che trovo fantastica: la biancheria intima normale. Quell’altra biancheria intima finisce sempre per mettere tristezza. Almeno addosso alla maggior parte delle persone. Se non hai il fisico di Megan Fox, il risultato può essere addirittura devastante. Non lo so. Forse sono un pervertito. Ma a me la biancheria intima piace normale.
Hanna non è un’infermiera diplomata. Sta ancora studiando.
Credo che faccia il tirocinio o qualcosa del genere, e quando viene da me si affaccia appena sulla soglia, bussa con due dita sullo stipite della porta – cosa che trovo molto, molto garbata – e ogni giorno mi chiama con un nomignolo diverso. All’inizio era solo Maik, poi Maiki e addirittura Maikipaiki. E non è finita qui. Sono diventato Michael Schumacher, Attila il flagello di Dio, lo sterminatore di maiali e per finire il nostro leprottino malato.
Ecco, solo per questo vorrei poter restare un altro anno in questo ospedale.
È Hanna che mi cambia le bende. Le medicazioni fanno un male cane e ad Hanna dispiace. Glielo si legge in faccia.
«L’importante è che tu ti sia divertito» mi dice quando ha finito e io le rispondo che forse un giorno la sposerò. Ma lei ha già un fidanzato. Peccato. Ogni tanto passa anche solo per farmi un saluto. Non viene mai a trovarmi nessuno qua dentro. Quindi se lei ha un po’ di tempo si siede sul bordo del mio letto e ci facciamo una bella chiacchierata. Da persone adulte. Chissà perché mi riesce più facile parlare con ragazze grandi come Hanna invece che con quelle della mia età. Bah, è un mistero. Se qualcuno però ha la risposta mi faccia pure una telefonata. Io, davvero, non so spiegarmelo.
4
Il dottore è meno loquace e meno divertente. «È solo un pezzo di carne» dice, «muscolo» dice, «non va male. Ricresce. Forse rimarrà un piccolo avvallamento o una cicatrice», e poi «vedrai, così sarai più attraente.» Tutti i giorni le stesse, identiche cose. Tutti i giorni controlla la fasciatura e ti propina le solite frasi, che rimarrà una cicatrice, che non va male, che dopo sembrerà che sono stato in guerra. «Sarà come se fossi stato in guerra, giovanotto. E alle donne certe cose fanno una discreta impressione.» Ammicca. E questo mi fa pensare che vorrebbe essere una battuta, ma io non la capisco e anche se alla fine mi fa l’occhiolino e quasi sempre glielo faccio anch’io, quella benedetta battuta proprio non riesco a capirla. Ma sto comunque al gioco. In fondo non mi costa niente. Lui aiuta me e io aiuto lui.
Col tempo le nostre conversazioni migliorano, soprattutto perché si fanno più serie. Nel senso che diventano dialoghi veri. Non appena mi rimetto in piedi e sono in grado di camminare con le stampelle, mi manda a chiamare nel suo studio dove, cosa piuttosto eccezionale, c’è solo una grande scrivania e niente stipetti colmi di medicine o ferri da lavoro, e lì ci mettiamo a sedere uno di fronte all’altro come due consumati manager aziendali che cercano di strapparsi a vicenda il migliore dei contratti. Sulla scrivania troneggia un busto umano di plastica con tutti gli organi rimovibili. L’intestino crasso è praticamente identico al cervello e la vernice che colora lo stomaco si sta arricciando e sfogliando.
«Devo parlarti» esordisce il dottore, con l’attacco più banale che io conosca. Così aspetto che cominci a parlare, ma qu...
Indice dei contenuti
- Copertina
- Copyright
- Dedica
- 1
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- 10
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