Parte prima
LE REGOLE DEL GIOCO
1
Togliere di mezzo la noia
Alcuni anni fa siamo stati a Las Vegas. Non per giocare alla roulette; non siamo i tipi. No, eravamo là per tenere una conferenza all’International Council of Shopping Centers, che conta 60.000 iscritti.
Dovevamo parlare nella prima mattinata, perciò siamo arrivati la sera prima; e avendo una sera libera, da buoni turisti abbiamo deciso di assistere a uno spettacolo. Un famoso cantante si esibiva in città, così siamo andati a sentirlo: uno con entusiasmo e l’altro con accondiscendenza.
Immaginate l’orchestra di 50 elementi e le macchine che producono fumo colorato. Che spettacolo! Acconciature complicate, ballate suggestive, coriste appese a cavi che penzolano dal soffitto e continui cambi di costume.
Eppure, meno di un’ora dopo, uno di noi si è addormentato.
Svegliatosi di soprassalto, ha detto testualmente:
“A quanto stanno?”.
Sono le tipiche parole di una persona che ama lo sport, e il business. Sport e business si assomigliano molto, non è vero? Sono intensi e divertenti. Sono difficili; sono elettrizzanti. Pongono una sfida continua, che ha al centro la strategia, il teamwork, le finezze e la sorpresa.
E nello sport, come nel business, i giocatori sono lì per vincere.
Un brand manager discute col suo team di come posizionare un prodotto appena sfornato dall’engineering che potrebbe dare un impulso fortissimo alle vendite. Tre ex compagni di corso al college lasciano Wall Street per avviare un microbirrificio o per lanciare una nuova app. Un manager di produzione si sveglia una mattina con una grande idea su come incrementare il rendimento della sua fabbrica. Un direttore delle Risorse umane intervista sei candidati per una posizione che andava coperta tre settimane prima e, finalmente, uno sembra perfetto.
Le persone si danno da fare tutto il giorno, e tutti i giorni, nel tentativo di migliorare la propria organizzazione e la propria vita. Cercando di aiutare i familiari, i collaboratori e i colleghi, i clienti e le comunità in cui operano.
E con il lavoro, le persone danno significato alla propria esistenza. Non tutto il suo significato, naturalmente. Con la profondità e la ricchezza che la caratterizzano, la vita non si riduce certamente al lavoro, ma questo può darle un bel po’ di significato.
Ecco perché le cose si mettono così male quando un’azienda o un team s’impantana in situazioni lavorative improntate a un dinamismo di facciata e (talvolta) alla furia, che non portano a nulla. Non c’è crescita, non c’è successo competitivo. Non c’è nemmeno un tentativo decente di andare in questa direzione.
Non è competizione. Non è divertimento. Non è business.
È solo tedio.
Tuttavia, una realtà di questo tipo è fin troppo comune. Come abbiamo accennato nell’Introduzione, a partire dal 2001 abbiamo intrattenuto sulle tematiche del business più di un milione di persone in tutto il mondo, quasi esclusivamente in sessioni di domande e risposte. Queste persone lavoravano in aziende grandi e piccole, vecchie e nuove, nell’industria manifatturiera e nel gioco d’azzardo, nella distribuzione al dettaglio e nella finanza. Erano imprenditori, dirigenti senior, allievi di MBA e professionisti. In quasi tutte le sessioni, alcuni ascoltatori chiedevano, nella sostanza: “Come mai è così difficile portare tutti dalla stessa parte?”. o descrivevano uno scenario lavorativo in cui ognuno sembra andare per conto suo, con risultati negativi. Ecco un’altra conferma: circa un terzo dei 900 studenti che frequentano la nostra business school, quasi tutti di età compresa tra i trenta e i quarant’anni e titolari di posizioni manageriali in aziende di tutto rispetto, dicono di sentirsi “a un punto morto” della carriera.
Che pasticcio! Eppure, questo dilemma non si può solo risolvere; si può anche prevenire.
Occorrono solo allineamento e leadership.
Sono due aspetti ugualmente importanti; noi affermiamo che l’uno non può esistere veramente senza l’altro.
E non c’è modo migliore di iniziare Vincere sul campo che esaminare entrambi.
ALLINEAMENTO TOTALE E COSTANTE
L’importanza dell’allineamento non è certo una novità per la maggior parte dei lettori di questo libro. Il concetto è presente da tempo nella cultura manageriale, e viene esaltato da guru, professori, esperti e consulenti.
Il problema è che, in realtà, in aziende di tutti i tipi, l’applicazione incessante (e la disciplina) dell’allineamento possono finire ai margini.
Ci si mette di mezzo il lavoro: quell’elenco infernale delle cose da fare.
Lo capiamo. Il lavoro dovrebbe stare al primo posto, specie nel difficilissimo ambiente economico di oggi. Un cliente lunatico, un collaboratore che necessita di coaching, la nuova tecnologia di un concorrente che vi coglie alla sprovvista, un problema di immagine che scoppia su Twitter. Tutte queste cose possono capitare in una giornata di lavoro, e a volte nella stessa giornata.
Ma se volete eliminare la noia, l’allineamento deve avvenire prima, durante e dopo “il lavoro”. Deve essere costante. Deve far parte del “lavoro”.
Allora dobbiamo chiederci quali sono, esattamente, i fattori da allineare.
Sono la missione, i comportamenti e le conseguenze.
La missione specifica la destinazione di un’organizzazione: dove state andando e perché; e, cosa non meno importante per il successo di una missione, quali implicazioni avrà la sua realizzazione per la vita di ciascun collaboratore.
I comportamenti descrivono, be’, dei comportamenti: le modalità con cui devono pensare, sentire, comunicare e agire i dipendenti per fare sì che la missione non si riduca a una targa magniloquente appesa al muro dove prende polvere e alimenta lo scetticismo.
Le conseguenze danno concretezza al sistema. Stiamo parlando di promozioni e di bonus concessi (o negati) in funzione del contributo fornito dai dipendenti alla realizzazione della missione e all’esibizione dei comportamenti desiderati.
Forse questi elementi vi appaiono scontati; come abbiamo detto, il tema dell’allineamento non è certo nuovo. O forse è esattamente l’opposto. Come abbiamo anche detto, il vero allineamento è una rarità.
In un caso o nell’altro, possiamo garantirvi una cosa: quando c’è l’allineamento, non si corre più a vuoto. C’è un progresso vero; ecco cosa accade quando si levano di mezzo la noia e la routine.
L’ALLINEAMENTO IN AZIONE
Racconti di capacità trasformativa dell’allineamento si trovano senza dubbio in tutti i settori, ma nessuno offre la quantità di esempi messa a disposizione dal private equity (PE). Pensateci. Qualunque azienda che entra nel mirino di una società di private equity è sottovalutata quasi per definizione. Ha problemi di leadership o è intrappolata in un mercato in cambiamento; è un’azienda familiare che non ha pianificato la successione o una divisione di una grande azienda che è stata trascurata, lasciata orfana dalla casa madre. In ogni caso, l’organizzazione ne risente.
Capita spesso che le società di PE abbiano fortuna, trovino un gioiello nascosto, lo ripuliscano e lo rivendano di lì a poco con un’enorme plusvalenza, o acquistino un’azienda di successo da un’altra società di PE, che deve venderla per soddisfare le aspettative finanziarie dei suoi investitori. Ma sono casi marginali. Il più delle volte, le società di PE acquistano l’azienda in difficoltà e si mettono a cercare dei bravi leader; e, pressoché invariabilmente, il loro primo compito, e il più importante, è mettere a posto l’allineamento.
Prendete il caso della conglomerata olandese VNU.
Nel 2006 VNU ha chiuso un decennio di risultati decorosi, anche se non spettacolari. Nella lettera annuale agli azionisti, il CEO Rob Van den Bergh sosteneva di essere soddisfatto dell’azienda e definiva VNU, proprietaria di asset come The Hollywood Reporter e la società di indagini commerciali Nielsen, “in buona salute”. Il private equity, tuttavia, ci ha visto un’opportunità non sfruttata ed è subentrato un consorzio di sei aziende che l’ha rilevata per dodici miliardi di dollari, mettendovi a capo David Calhoun, un veterano del business.
In una carriera prestigiosa che l’aveva portato alla vicepresidenza di General Electric a soli quarantacinque anni, Dave aveva gestito molte grandi aziende, ma nessuna con un portafoglio altrettanto affollato di prodotti e di brand. “Quando sono arrivato io, la missione era ‘Primeggiare nell’intelligence di mercato’” ricorda Dave. “Suonava bene, ma in pratica voleva dire coltivare al meglio il proprio orticello. Non c’era l’ombra di un significato complessivo.”
Dave e il suo team si sono messi immediatamente al lavoro per modificare quello stato di cose. Hanno abbandonato il nome VNU, ribattezzato Nielsen l’intera azienda e messo in chiaro che Nielsen – la nuova Nielsen – aveva un fine coerente: misurare quello che guardavano e che acquistavano i consumatori. Nielsen sarebbe stata la migliore azienda del mondo nella conoscenza delle abitudini televisive e di acquisto dei consumatori di tutto il pianeta.
Non è una missione eccitante?
Le migliori missioni sono così: stimolanti, ispiratrici e pratiche.
È stimolante, perché fa pensare: “Wow! Mi piace l’idea di provarci!”.
È ispiratrice, perché fa pensare: “Magnifico! So che possiamo farcela se ce la mettiamo tutta”.
È pratica, perché fa pensare: “OK, suona ragionevole. Mi metterò a lavorare con il mio team per realizzarla”.
Ed ecco lo zuccherino. Vi ricordate cos’abbiamo detto a proposito delle conseguenze? Una missione ben formulata fa sapere a tutti i dipendenti cos’hanno da guadagnarci. Quella di Nielsen va esattamente in questa direzione. Promette una crescita – crescita dei prodotti, crescita dei servizi, crescita globale – con tutte le opportunità di carriera che ne derivano.
Un altro esempio, sintetico ma illuminante, di creazione della missione che ci viene dal PE riguarda Nalco, la conglomerata industriale che è stata oggetto di un buyout nel 2007. Nel 2008, i nuovi proprietari hanno chiamato a dirigerla Erik Fyrwald, che ha ereditato 12.000 dipendenti, un fatturato di quattro miliardi di dollari, un cash flow eccellente, una crescita minima e una missione che si poteva parafrasare in questi termini: “Siamo nel business dell’acqua, che bello”.
Erik ha trascorso i primi novanta giorni visitando le business unit di Nalco e incontrando i suoi clienti, alla ricerca, per così dire, della formula magica con cui rivitalizzare l’azienda attraverso la promozione del cambiamento e la costruzione di un vantaggio competitivo.
L’ha trovata, a sorpresa, in un prodotto che Nalco aveva sviluppato sei anni prima: un sistema di ottimizzazione dell’utilizzo dell’acqua potabile denominato 3D TRASAR. Ne erano già stati dati in locazione commerciale 4.000, ed Erik ha scoperto ben presto che i clienti lo apprezzavano molto, perché faceva risparmiare acqua e aiutava a prevenire le multe dell’EPA (Environment Protection Agency, l’agenzia del governo USA che si occupa della salvaguardia dell’ambiente, n.d.t.) molto più dei prodotti concorrenti.
Erik ha riferito la sua scoperta ai colleghi del gruppo dirigente, che si è dato l’obiettivo di concedere in locazione 20.000 impianti entro due anni. Quel target ambizioso ha galvanizzato a sua volta l’intera organizzazione. L’R&D si è rifocalizzata sul miglioramento delle caratteristiche del prodotto, creando 26 innovazioni brevettate per soddisfare i bisogni dei clienti e frenare i tentativi di emulazione dei concorrenti. Il team delle vendite ha introdotto nuovi corsi di formazione, nuovi obiettivi e nuovi incentivi. Nello stesso tempo, è stato costruito in India un nuovo centro di assistenza per il 3D TRASAR, presidiato da 40 water doctors, tecnici assunti per monitorare le unità operative distribuite in tutto il mondo, identificando e risolvendo i problemi ancor prima che i clienti ne avessero cognizione.
È nata così la nuova missione dell’azienda: “Forniamo acqua potabile ai clienti di Nalco con modalità che ne accrescono il successo economico e rendono il mondo più sostenibile”.
Quella missione ha spinto Nalco a raggiungere l’obiettivo di dare in locazione 20.000 impianti nel giro di due anni? La risposta è sì.
“Quasi da un giorno all’altro i nostri dipendenti hanno capito perché venivano a lavorare” spiega Erik. “Erano felici di aiutare i nostri clienti ad avere successo, contribuendo nel contempo a salvare il mondo. Vedevano un futuro ricco di promesse. Non potete immaginare quante idee di qualità hanno cominciato a tirar fuori.”
È il bello di una missione ben formulata: focalizza e galvanizza tutti quanti.
Ed è a questo punto che i comportamenti diventano importanti.
Importantissimi.
Se la missione è la destinazione di un’azienda, i comportamenti sono il suo mezzo di trasporto, il mezzo che la porterà laggiù.
Sappiamo tutti come non si realizza questa connessione, non è vero? Un’azienda enuncia, per esempio, una missione che parla di focalizzazione sul cliente ma nella vita reale i suoi operatori di frontline odiano i clienti. OK, forse non li odiano nel vero senso della parola, ma li prendono in antipatia perché ostacolano in qualche modo i loro progetti, come essere a casa entro le cinque. Oppure ha una missione che blatera di velocità nell’accesso al mercato ma i suoi manager hanno, diciamo, un’elevata tolleranza per la burocrazia. Oppure ancora, incentra la sua missione sull’innovazione, ma i senior manager demansionano o licenziano chiunque si assuma un rischio e fallisca.
Così non va bene.
Va bene quando l’allineamento tra missione e comportamenti è totale. In un’azienda che mette al centro la focalizzazione sul cliente, i dipendenti trasudano empatia. Danno ai clienti il loro numero del cellulare, in modo che li possano contattare anche fuori orario. Prendono le lamentele sulla qualità del servizio come un fatto personale. Se fosse per loro, si porterebbero a casa ogni prodotto e lo proverebbero personalmente per essere sicuri che funzioni...