Sbirritudine
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Sbirritudine

Un poliziotto dentro la mafia più feroce. Una storia vera.

  1. 440 pagine
  2. Italian
  3. ePUB (disponibile sull'app)
  4. Disponibile su iOS e Android
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Sbirritudine

Un poliziotto dentro la mafia più feroce. Una storia vera.

Informazioni su questo libro

UN UOMO CHE HA SCELTO DI RISCHIARE TUTTO IN NOME DELLA GIUSTIZIA. UN THRILLER ISPIRATO A FATTI REALMENTE ACCADUTI. Conosce le loro regole, ma non è uno di loro. Sopporta notti insonni e lunghi appostamenti, inseguendo segreti antichi come l'Italia. La gente lo guarda da lontano, con sospetto. Perché un poliziotto siciliano, in Sicilia, è quasi un controsenso: è un traditore, un terrorista, un matto che si ostina a credere nella giustizia quando nessuno ci crede più. È un uomo destinato a restare solo. Forse per questo ha qualcosa che gli altri poliziotti non hanno: un vero e proprio sesto senso per la mafia. Gli uomini d'onore la chiamano "sbirritudine", e lui ce l'ha all'ennesima potenza: a capo di una squadra investigativa speciale, da anni cerca di scardinare il clan di Fifi Bellingeri, che sta insanguinando le strade di Prezia. Inchiesta dopo inchiesta si avvicina al suo obiettivo, ma ogni volta la cattura sfuma all'improvviso. Interessi personali, collusione, falsi incidenti, truffe: gli ostacoli sono sempre nuovi e arrivano anche dall'alto, perché nel sistema sono tutti d'accordo, come ai tempi del Gattopardo. Ma per lui lottare contro Cosa Nostra non è una scelta, è la vita. Per arrivare fino in fondo dovrà sfidare la legge, i superiori, i mafiosi stessi, disobbedendo agli ordini e vivendo nell'attesa, nascosto e braccato come un predatore. O come un latitante. Perché in una terra di nessuno, in cui Stato e mafia si confondono, assomigliare ai propri nemici è molto più facile di quanto non si pensi.

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Informazioni

Editore
RIZZOLI
Anno
2015
Print ISBN
9788817081351
eBook ISBN
9788858679869

1

È sera e sono a casa. Non sono di servizio, una delle poche volte. In tv c’è Il Gattopardo. Mia moglie lo adora. Tancredi, Angelica e tutto il resto. Io è la prima volta che lo vedo. Preciso identico a quell’altro film: Il Padrino. Un boss vecchio stampo, il mondo che cambia intorno a lui e il problema della successione.
Se fossi vissuto nel 1860, al principe di Salina gli avrei sminchiato la vita. Sono quelli come lui che hanno voluto la mafia, che l’hanno usata, sfruttata e aiutata. Anche loro erano Cosa Nostra.
Io sono un poliziotto. Un poliziotto siciliano. Un controsenso. I siciliani odiano lo Stato: questa camurrìa l’ho sentita troppe volte. Io credo che invece noi lo Stato lo accettiamo eccome. Ne abbiamo due in Sicilia: lo stato italiano e quello di Cosa Nostra. Hai un negozio? Paghi doppio: tasse e pizzo. Cerchi lavoro? Chiedi a conoscenti fidati e ad amici poco raccomandabili. Ti fregano la macchina? Forze dell’ordine e uomini d’onore stanno là apposta.
Mentre mia moglie si commuove per il film, a me mi è acchianàta una raggia che ho voglia di spaccare tutto. Quando sono di servizio l’adrenalina ce l’ho al posto del sangue. Quando stacco invece mi sento male. Rimanere a casa mi fa venire il mal di testa. Fosse per me starei sempre in giro per vedere cosa stanno combinando quelli. Loro, i punciùti, sono là fuori a tramare, a sfirniciàrsi per capire come ti devono fregare. Notte e giorno.
Per chi non è nato qui è difficile capirlo. Qualche anno fa è venuto giù da noi un parente alla lontana, nato e cresciuto in Padania. Come minchia si chiamava? Vabbe’. Mia moglie mi ha chiesto di fargli fare la gita delle bellezze della nostra isola. Ma quello era una taddarìta che non la finiva mai di parlare. Aveva quel tono accondiscendente e arrogante, di quelli che ti compatiscono perché vivi in terra di mafia e la colpa è tua che non ti ribelli. Lo carico in macchina e partiamo. E incomincio: qui è stato ammazzato tizio a colpi di lupara, qui c’era la raffineria di droga più grande mai scoperta al mondo, qui c’hanno messo una bomba… Il parente se n’è voluto tornare al Nord la sera stessa.
Era una testa di buàtta, non poteva capire. Ma che la mafia qui è dappertutto, questo un siciliano lo sente. Noi nasciamo con i cinque sensi regolamentari e in più c’abbiamo quello per Cosa Nostra.
Sei sceso dalla macchina dopo che uno te l’ha inchianàta perché non si è fermato allo stop e tu lo capisci subito se è meglio che non ti avvicini e ti stai zitto. Risali in macchina e te ne torni a casa muto muto. Perché lo senti nello stomaco che quello è pericoloso e che appartiene a qualche famiglia. Questo gli altri italiani non lo capiscono. Sono capaci di tirare subito fuori il CID, la penna e la patente e di finire fidduliàti a coltellate senza neanche avere il tempo di parlare.
A un siciliano che fa il poliziotto, il sesto senso per la mafia gli si affina ancora di più. Gli uomini d’onore la chiamano “sbirritudine”. Io ce l’ho all’ennesima potenza. Anche mio padre era poliziotto. Ha servito a Bonifacio, uno dei paesi più mafiosi nella storia della mafia. Io ci sono nato in questo paese. Ecco perché gli ’ntisi li sento a chilometri di distanza.
Anni fa, a Milano, in un locale ho visto uno, parlava con l’accento milanese ed era vestito come un lombardo doc. Sorrisi, parole e valigetta. Io però mi ero squietato. Non me la raccontava giusta, quello. Sentivo che era uno di loro. Per come si muoveva. Perché loro si muovono diversamente. Hanno un’aria diversa dagli altri, quell’aria là da scanazzati. Ogni gesto è un’offesa. Lo fanno apposta. E tu non te ne accorgi, se non lo sai. Ti disprezzano pure nel modo di prendere la tazzina del caffè. Ti guardano e ti considerano come una cosa inutile. Perché si reputano superiori. Migliori di te. Più sperti e intelligenti. Io ormai lo conosco bene il loro modo di annacàrsi. Camminano piano. Nessuna fretta. Guardano sempre dritto. Non si voltano mai e non si guardano intorno, come se il mondo non esistesse. Le mani sempre in tasca. Mai gesti inutili. Tutto nei loro movimenti è sempre calcolato. Pure la quantità esatta d’aria che respirano. Fanno ogni cosa con lentezza, misurati e controllati. Sono animali a sangue freddo. Quella sera io e il collega gli abbiamo chiesto i documenti e infatti… il milanese doc era un siciliano appartenente a una famiglia “a rischio”. Sembrano uguali a tutti gli altri e invece sono maliùti. Malacarne in tutto e per tutto.
Il Gattopardo è a metà. Io sono sdivacato sul divano. Mia moglie è sulla sedia. Anna si mette sempre lì quando guarda un film o legge un libro che le interessa. Anche quando parla con i nostri figli. Non sta mai in piedi o sul divano o chissà dove. Si mette sulla sedia. È concentrata e ti presta la massima attenzione. Io a casa sono sempre un cataplasimo. Sono stanco per le troppe ore passate a baliàre qualche mafioso. È lei che ha cresciuto i nostri figli. Io c’ero solo le volte che il lavoro me lo permetteva, cioè mai. Se i ragazzi non sono finiti a fare cazzate è merito suo. Me la racconto dicendomi che io tengo a posto il mondo fuori e lei quello in casa. Ma so che non è vero. Io lì fuori ho assicutàto mafiosi tutto il giorno. Questo è quello che fa un poliziotto. Invece di stare con la famiglia sta con i mafiosi. Passa tutto il giorno con questi pezzi di fango e cerca di non sporcarsi troppo.
Finito il corso di addestramento a Roma potevo scegliere. Andare al Nord o restare al Sud. Il Nord era come andare in Europa, fare un viaggio nel futuro di mille anni e vivere un sogno. Così almeno la vedevano i miei colleghi. Uno di loro mi aveva chiesto pure chi caspita me lo faceva fare di schierarmi in prima linea. E come glielo spiegavo? Lui il sesto senso non ce l’aveva e non capiva che il Nord era già stato colonizzato. La Sicilia ha sicilianizzato l’Italia. L’ha infettata con il morbo di Cosa Nostra. Ecco perché ho deciso di tornare giù. Giù o su era lo stesso.
Anna è sempre lì che si sciroppa ’sto film di trine e minchiate. Io invece non riesco a staccare. Ormai il lavoro me lo porto a casa, nella testa. La sera mangio pasta con mia moglie e i nostri figli e penso a Carmelo Pasta, detto Pino Vastedda, anni trentasette, uomo d’onore appartenente alla famiglia Collica del mandamento di Santa Margherita, coniugato con Rosa Finazzo, figlia di Francesco Finazzo, detto “Cicco ’u Mulunaro”, sessantaquattro anni… Non stacco mai. Penso a loro tutto il giorno. La notte in sogno li catturo. E la mattina quando mi sveglio loro purtroppo sono fuori.
Pubblicità. Mio figlio rientra. Ciao pa’. Ciao ma’. È un adolescente. È già tanto che ci saluti. Sua madre gli chiede cosa ha fatto e dove è stato. Lui dice niente, lo sai, il solito. Mi guarda. Io lo guardo. Muti tutti e due. Io alla sua età neanche mi sognavo di diventare sbirro.
Ricomincia il film. Il principe di Salina rifiuta di fare il senatore per il Regno d’Italia. Lo farà suo nipote, che è la stessa cosa. Tutto cambia perché deve restare com’è. La mafia aveva vinto già allora.
Dalla sedia, mia moglie mi controlla. Vuole capire se mi sono addormentato. Non gliel’ho detto che ormai non dormo più di due, tre ore a notte, e mai di fila. Voglio evitare sciarre in famiglia.
Lei va a dormire. Buonanotte amore. Buonanotte a te. Chiude la porta. Anna, quante te ne ho fatte passare. Lo so. Non è facile la vita con me. Ma finché resisto, il mio lavoro me lo devo assuppàre solo io.
Cambio canale a ripetizione. Tanto non c’è niente. Mi aspetta una notte bella lunga. L’insonnia è un muro. Ti puoi inventare il cazzo che vuoi. Leggere, contare e spararti tisane a raffica. Il muro se ne sta lì e neanche ti guarda.
È come durante gli appostamenti. Anche lì il tempo non passa mai. Chiuso in macchina tutta la notte. Se accanto hai un amico, un collega fidato, non c’è nulla da dire: vi conoscete già troppo. Il silenzio ve lo portate tutt’e due da casa. Se invece di fianco hai qualcuno che conosci poco, la prima ora ti passa tranquilla a discutere della famiglia, dei turni, di dove hai prestato servizio. Può capitare di parlare di sport, ma è sempre notte fonda e dopo un po’ ti rompi di discutere di undici stronzi che guadagnano una barca di soldi e non fanno altro che correre dietro a una palla. E così si scivola nel silenzio. Un’ora. Due. Tre. Al buio. E allora pensi. Minchia quanto pensi. Guardi la sagoma della villa che tieni sotto sorveglianza e ti chiedi che ci stai a fare lì in macchina con uno sconosciuto seduto accanto. Pensi a tua moglie sola a casa e ai tuoi figli che non conosci. Poi, io penso a mio padre che se n’è andato quando ero un ragazzino. E maledico quei bastardi che dormono come dei bambini dentro quella villa monumentale davanti a me. E lì mi viene voglia di scendere dalla macchina e tornare a casa.
Domani aspetto una telefonata. Anzi, la telefonata. «A mezzogiorno ti chiameranno», così mi ha detto. «Puntualità, mi raccomando.» Vaffanculo. Più puntuale di così. Sono le undici della sera prima e sono già seduto accanto al telefono.
Mi stinnìcchio sul divano e metto su un canale qualunque. Perché tra dieci minuti mi chiederò di nuovo come è iniziato tutto. Ogni sera ricomincio così. Come un condannato a morte.

2

Si è messo a piovere. Spengo la tv e vado alla finestra.
Con i colleghi del commissariato di Prezia, la notte ci divertivamo a trovare tutti i modi di dire “piove” in siciliano. Sbrizzìa, quando la pioggia è a spruzzi. Pìsuli pìsuli, leggera ma continua. Sciacanìa, quando viene giù a cascata torrenziale. Ce n’erano pure altri, ma non me li ricordo.
Ha già smesso. Era solo una sbrizzìata. Apro la finestra ed esco in balcone. Il paese di Bonifacio dorme. Visto così è un paese uguale a mille altri del Veneto o del Trentino. Ma la verità è che noi non siamo italiani. Parliamo una lingua diversa. Pensiamo diversamente. E non siamo più neanche siciliani. Siamo siculo-italiani. Come gli afroamericani negli Stati Uniti. Solo che lì gli africani ce li hanno portati a forza come schiavi. A noi ci hanno lasciato fare gli schiavi a casa nostra. La Sicilia è una colonia, una delle più antiche dell’Occidente. La Sicilia è sempre stata la colonia d’Europa, e ha i problemi dei paesi coloniali. Leggi, istituzioni, strade, colture: tutto imposto da altri. E poi ci chiedono perché siamo così. Dopo duemila anni di schiavitù vorrei vedere.
Quando mi sono arruolato non pensavo queste cose, ero tutto chiacchiere e mi allattariàvo come un padreterno con la divisa. Rientro dentro casa. Sono stanco. Stanco di non dormire. Quando non ce la faccio più chiudo gli occhi e mi rifugio nella tomba di mio padre. Mi rintano sottoterra accanto a lui. La bara è piccola, ma ci entriamo. Non mi giro a guardarlo. Respiro e basta, al buio. Quando ho ripreso fiato torno su e riapro gli occhi.
Era un poliziotto come me. Però era diverso da come sono io. Lui non ha mai messo in discussione gli ordini. Li ha eseguiti pure quando gli hanno detto di fare il piantone alla salma di un padrino. Nientemeno che a Ezio Cantisàno, capomafia di Bonifacio. Un funerale di Stato gli hanno fatto a quel bastardo. E mio padre se n’è dovuto stare lì a vedere sfilare davanti al tabùto del boss tutti quelli che lui avrebbe voluto arrestare. Capidecina, politici, capimandamento, imprenditori, picciotti, preti e uomini d’onore. Se n’è stato lì tutto il giorno, così come gli era stato ordinato.
La sera, tornato a casa, ha spaccato il tavolo della cucina con un pugno. Mia madre non ha detto una parola e l’ha aiutato a raccogliere i pezzi di legno. La prima e ultima volta che l’ho visto incazzato. Io al suo posto, al funerale, avrei piazzato microspie e telecamere dappertutto e avrei provato a incastrare quei porci, ma soprattutto i miei superiori conniventi.
Non abbiamo mai parlato molto. Di lui mi ricordo i silenzi. Stava sempre zitto. Adesso penso che era incazzato almeno quanto lo sono io, solo che si controllava meglio. Quando è morto, il silenzio tra me e lui si è fatto ancora più forte.
Mi ributto sul divano. Questa nottata è sversa. Mio figlio si alza e va in bagno. Butta un occhio nel salone. Chissà che pensa di me. Mi dico sempre che non devo ripetere l’errore che mio padre ha fatto con me. E intanto il silenzio tra noi cresce.
Metto il volume della tv a zero e guardo solo le immagini. Mi piace vederla senza audio. In sala-ascolto ho sentito troppe conversazioni tra mafiosi fissando un muro bianco. Dopo che gli hai piazzato le cimici in casa stai lì per delle ore a seguire quello che dicono. Parlano e parlano. Della scuola dei figli. Degli anniversari di matrimonio dei genitori. Di quella macchina là che è una bellezza. Impari a conoscere le inflessioni, le indecisioni, quando hanno paura e si quartìano o quando sono eccitati e fanno pomata al telefono con gli amici. Ho orecchio per queste cose perché quando ero ragazzino lavoravo in una piccola stazione radio locale.
Mio padre è morto che avevo tredici anni. Divorato dal di dentro. Mia madre era a pezzi per il dolore, piangeva dalla mattina alla sera. Io invece cominciai a pazziare e a fottermene del mondo intero. Frequentavo i più sfasciati del paese, gli scoppiati e gli schifiàti. Avevo un giro di amici che il più presentabile aveva già scontato almeno un anno di galera o era così tossico che ti prendevi uno sballo solo a respirargli vicino.
A un certo punto lasciai la scuola e mi misi in testa di fare il dj. Andava di moda. Trovai lavoro a Radio Bonifacio Special e in poco tempo ero diventato una specie di celebrità. Lavoravo da mezzanotte alle quattro. Mettevo dei pezzi dance e mi sentivo arrivato. Ero il signore della notte. Impostavo la voce fumandomi tre sigarette di fila prima di cominciare a trasmettere. Le pareti della saletta erano ricoperte da cartoni di uova per insonorizzare l’ambiente, ma avevano usato cartoni sporchi pieni di gusci rotti, albume e merda di gallina. La puzza faceva vomitare. Non mangiai più uova per anni. Ma nonostante le cautele la vecchia che abitava accanto non faceva che picchiare col suo bastone contro la parete. Diceva che con quella musica avevamo fatto venire un infarto al marito e che ora cercavamo di ammazzare lei.
Io all’inizio ero quasi digiuno di musica, ma mi ero fatto fare un corso intensivo da un ragazzo di Bonifacio che faceva il militare a Sigonella, vicino a Catania, alla base militare americana. Era lui che mi forniva i dischi giusti quando tornava in licenza. Grazie alla mia voce roca, al bastone della vedova Piscitelli e alla musica made in USA, la trasmissione funzionava. La gente mi telefonava pure dai paesi nei dintorni per chiedermi un pezzo o un consiglio per avvicinare le ragazze. Alcuni mi venivano a trovare in radio a fine serata. Birra su birra e poi di corsa in macchina fino alla spiaggia. Lì incontravamo altri sfasciallìtti come noi e facevamo a pugni. Mi aveva preso così. Spaccare la faccia alla gente e farla piangere era il mio modo di piangere.
Una sera mi chiamò uno in radio e mi chiese un brano melodico napoletano. Gli risposi che io Mario Merola l’avrei proibito per legge. Dopo mezz’ora quello mi si p...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Copyright
  3. 1
  4. 2
  5. 3
  6. 4
  7. 5
  8. 6
  9. 7
  10. 8
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  22. 20
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  32. 30
  33. 31
  34. 32
  35. 33
  36. 34
  37. 35
  38. 36
  39. 37
  40. 38
  41. 39
  42. 40
  43. 41
  44. 42
  45. 43
  46. 44
  47. 45
  48. 46
  49. 47
  50. 48
  51. 49
  52. 50