
- 312 pagine
- Italian
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eBook - ePub
Il passato è una terra straniera
Informazioni su questo libro
Giorgio, studente modello figlio di intellettuali borghesi, ha ventidue anni e una vita normale e un po' noiosa. Francesco è torbido, misterioso e affascinante. E baro. Le loro vite viaggiano separate fino all'incontro che segnerà il destino di entrambi, trascinandoli in un vortice ubriacante che a poco a poco diventa un'inarrestabile discesa agli inferi. Una storia struggente sull'amicizia e il tradimento, un viaggio doloroso e inquietante in quel tempo fragile e misterioso che separa la giovinezza dall'età adulta.
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Informazioni
Il passato è una terra straniera
PARTE PRIMA
Uno
È appoggiata al banco, è sola e beve una spremuta. Per terra, vicino alle gambe, ha una borsa di pelle nera e non so per quale motivo vengo attirato proprio da questo particolare.
Mi fissa con un’insistenza imbarazzante. Quando i nostri sguardi si incrociano però si gira. Passano pochi secondi e mi guarda di nuovo. Questa sequenza si ripete diverse volte. Non la conosco, e all’inizio mi chiedo se stia guardando proprio me. Ho anche l’impulso di controllare se ci sia qualcuno alle mie spalle, ma mi trattengo. Dietro il mio tavolino c’è soltanto il muro e io lo so bene perché mi siedo lì quasi tutti i giorni.
Adesso ha finito di bere. Poggia il bicchiere vuoto sul bancone, prende la borsa e viene verso di me. Ha i capelli corti e scuri, i modi decisi ma non del tutto spontanei di chi ha dedicato un sacco di tempo a lottare con la timidezza. O con qualche altra cosa, peggiore della timidezza.
È davanti al mio tavolo. Sta lì senza dire niente per qualche secondo, mentre io cerco un’espressione adeguata. Senza riuscirci, credo.
«Non mi riconosci.»
Non è una domanda, e ha ragione: non la riconosco. Non la conosco.
Allora dice un nome, qualche altra cosa e poi, dopo una breve pausa, chiede se può sedersi. Rispondo di sì. O forse faccio un cenno col capo, o un gesto con la mano a indicare la sedia. Non lo so.
Certo, per un tempo indefinito non dico niente. E del resto parlare non è facile. Fino a qualche minuto prima ero lì a fare colazione, come ogni mattina, preparandomi per una banale giornata, quando all’improvviso sono stato preso da un vortice e mi sono ritrovato altrove.
In un posto misterioso e straniero.
Lontano.
Due
Eravamo in quattro, al tavolo. Un tizio magro e triste che faceva il geometra. Poi Francesco, io e il padrone di casa. Si chiamava Nicola, aveva più o meno trent’anni, era grasso, fumava molto e respirava male. Il suo naso ostruito emetteva un rumore ritmico e snervante.
Toccava a lui mischiare e dare carte. Ripeteva ancora il giochetto di farle schioccare, divise in due mazzetti che teneva fra il pollice e l’indice, ma era stanco. E nervoso. Fino a mezz’ora prima vinceva quasi un milione, ma in tre o quattro giri aveva bruciato quasi tutta la vincita. Francesco vinceva, io ero più o meno in pari, il geometra perdeva molto. Stavamo cominciando il penultimo giro di telesina.
«Secca» disse il grosso dopo il taglio. Lo disse con il tono che aveva usato tutta la sera. Da professionista, pensava lui. Un buon modo per riconoscere i polli al tavolo da poker è vedere se hanno un tono da professionisti.
Diede la prima carta coperta e la seconda scoperta. Con un gesto da professionista. Appunto.
Dieci al geometra, una donna a Francesco, un re per me. Lui si servì un asso.
«Cento» disse immediatamente, lanciando in mezzo al tavolo una fiche ovale, color blu elettrico. Subito dopo si inumidì il labbro superiore con la punta della lingua. Giocammo tutti. Il geometra accese una sigaretta mentre il grosso distribuiva di nuovo.
Otto, un’altra donna, otto, sette.
«Duecento» disse Francesco. Il grosso lo guardò un attimo con un lampo di odio e poi mise anche lui le duecentomila nel piatto. Il geometra andò via. Aveva perso tutta la sera e voleva solo che arrivasse l’ora di chiamare giro. Io giocai.
Dieci, re, dieci. Toccava a me e dissi duecento. Gli altri giocarono e arrivò l’ultima carta. Otto a Francesco, nove per me, un altro nove al grosso.
«Cip» feci io e il grosso disse subito piatto. Aveva incastrato la scala, con tre otto di fuori? Lo guardai in faccia e vidi le labbra serrate, asciutte. Intanto Francesco chiuse le carte, disse che non giocava e si alzò un attimo come per sgranchirsi le gambe.
Significava che potevo andare tranquillo se avevo più di una coppia, perché il grosso non aveva la scala. Non poteva averla, perché il quarto otto era la carta coperta di Francesco. Così chiesi tempo. Per pensare, dissi, ma in realtà volevo solo assaporare la sensazione di ebbrezza che si prova quando si bara al gioco e si è sicuri di vincere.
«Devo venire a vedere per forza» dissi dopo un minuto, con il tono rassegnato di chi pensa di perdere la mano, ma purtroppo è stato invischiato da un giocatore più furbo e più fortunato. Il grosso aveva due assi e io invece tre re. Così mi presi un piatto da quasi tre milioni, cioè più dello stipendio mensile di mio padre, allora.
A quel punto il ciccione era davvero incazzato. Gli seccava perdere, ovviamente. Ma lo faceva imbestialire perdere con uno scemo. Come me.
La mano successiva la vinse il geometra, ma nel piatto c’erano spiccioli. Poi toccò a Francesco dare carte. Mischiò come al solito in modo anonimo, fece tagliare e distribuì.
Prima la carta coperta e poi quella scoperta. Una donna per me, un re al ciccione, sette al geometra, asso per lui.
«Duecento. Questa è la mano che mi rifaccio.»
Il grosso lo guardò con schifo. Dilettante miserabile, diceva il suo sguardo. Mise le duecento e poi giocai anch’io. Il geometra no.
Le carte girarono di nuovo mentre io mi sforzavo di non guardare le mani di Francesco, anche se sapevo che comunque non avrei visto niente di strano. Né io né tantomeno gli altri. Altra donna per me, altro re al grosso, altro asso per lui.
«Se volete giocare con questi assi dovete pagare. Trecento.»
Il grosso pagò senza dire niente, con lo stesso sguardo di prima. Io rimasi a pensare un po’, toccai le fiches che avevo davanti e poi misi i soldi, con aria poco convinta.
Quarta carta. Dieci per me, jack al grosso, sette per Francesco.
«Ancora trecento.»
«Vedo» dissi io.
«Fino a cinquecento» fece il grosso con il suo tono da professionista, inumidendosi il labbro superiore, sforzandosi di controllare l’esultanza. La sua carta coperta era un jack e quella era la sua mano, pensava. Sia Francesco che io andammo a giocare. Io avevo l’aria di chi se la sta facendo addosso e pensa che il gioco sta diventando troppo serio per lui.
Ultima carta. Un altro dieci per me, un altro jack al grosso, donna per Francesco. Che fece un gesto di rabbia incrociando le sue carte. Ovviamente non poteva giocare e così, a quanto sembrava, aveva buttato un milione netto. Disse più o meno una cosa del genere ma il grosso lo ignorò. Aveva un full di jack e re, e stava già godendosi il suo trionfo, senza preoccuparsi dei dilettanti con cui era finito a giocare. Disse piatto e accese una sigaretta. La sua speranza era che la mia carta coperta fosse un altro dieci. In quel caso, avendo anch’io un full, sarei andato a giocare e lui mi avrebbe fatto a pezzi. Che sotto potessi avere la quarta donna del mazzo era evidentemente un’ipotesi che non prendeva neanche in considerazione.
Andai a vedere e, appunto, sotto avevo l’ultima donna. Così il mio full vinceva sul suo e lui abbandonò il tono professionale per chiedere come fosse possibile un cazzo di culo rotto del genere.
Segnammo sul foglietto dei debiti, dove il grosso era ormai alla bancarotta, e giocammo ancora forse per una quarantina di minuti. Senza che succedesse più niente di particolare. Il geometra recuperò qualcosa e il professionista perse ancora diverse centinaia di migliaia.
Alla fine della partita ero il solo a vincere. Francesco mi diede quasi quattrocentomila lire, il geometra staccò un assegno di un milione e poco più. Il grosso, sul suo di assegno, scrisse ottomilioniduecentomila.
Ce ne andammo tutti e tre e, sulla porta, io assicurai che ero a disposizione per la rivincita. Lo dissi con il sorriso trattenuto del pivello che ha vinto un sacco di soldi e vuole comportarsi come si deve. Il grosso mi guardò senza dire niente. Aveva un negozio di ferramenta e, sono sicuro, in quel momento avrebbe voluto spaccarmi la testa con una chiave inglese.
Per strada ci salutammo e ognuno andò via per conto suo.
Un quarto d’ora dopo Francesco e io ci incontravamo davanti all’edicola chiusa della stazione. Gli restituii le sue quattrocentomila e andammo a prendere un cappuccino in un bar di pescatori.
«Hai sentito che rumore faceva il grasso?»
«Che rumore?»
«Il naso, era insopportabile. Cazzo, ci pensi dormire nella stessa stanza con lui? Russerà come un maiale.»
«E infatti la moglie lo ha lasciato dopo sei mesi di matrimonio.»
«Se ti richiama che facciamo?»
«Torniamo, gli lasciamo vincere due o trecentomila lire e poi addio. Debito d’onore pagato e vaffanculo.»
Finimmo i nostri cappuccini, andammo fuori davanti alle barche e accendemmo le sigarette mentre il cielo si schiariva. Fra poco saremmo andati a dormire e qualche ora dopo avrei incassato i due assegni, in banca. Poi avremmo diviso la vincita.
Il giorno prima Giulia e io avevamo litigato e lei mi aveva detto che così non poteva continuare; che forse era meglio lasciarci.
Voleva provocare una reazione. Voleva che io dicessi che no, non era vero; magari era solo un momento di crisi che dovevamo superare insieme, e tutto il resto.
Io invece risposi che forse aveva ragione. Avevo un’espressione un po’ dispiaciuta, ma niente di più. Era una faccia di circostanza. Mi dispiaceva che lei fosse triste, avvertivo un leggero senso di colpa ma volevo solo che quella conversazione finisse per potermene andare via. Lei mi guardava senza capire. Io la guardavo ed ero altrove, ormai.
Ero altrove da tempo.
Lei si mise a piangere in silenzio. Io dissi qualcosa di banale per attutire il disagio e il peso di quella estraneità dolorante.
Quando finalmente salì sulla bicicletta e se ne andò, provai solo una sensazione di sollievo.
Avevo ventidue anni e, fino a pochi mesi prima, nella mia vita non era successo quasi nulla.
Tre
C’è una canzone di Eugenio Finardi che parla di un tipo che si chiamava Sansone. Giocava da dio a pallone, aveva gli occhi verdi, la pelle scura. La faccia di uno che non ha avuto mai paura.
La descrizione di Francesco Carducci.
Era famoso come calciatore – sempre capocannoniere nel campionato universitario – e come idolo delle ragazze. Anche di qualche mamma annoiata, per la verità. Si diceva. Aveva due anni più di me ed era fuori corso a filosofia. Non ho mai saputo quanti esami gli mancassero, se avesse scelto una tesi e cose del genere.
Ci sono molte cose che non ho mai saputo, di lui.
Fino a una notte nelle vacanze di Natale del 1988 la nostra conoscenza era stata del tutto superficiale. Qualche gruppo di amici in comune, qualche partita di calcio, un saluto al volo negli incontri casuali per strada.
Fino a quella notte, nelle vacanze di Natale del 1988, ci eravamo soltanto sfiorati.
C’era una specie di festa a casa di una ragazza, figlia di un notaio. Alessandra. I genitori erano in montagna e la casa, grande e lussuosa, era libera. Si beveva, si chiacchierava, qualcuno negli angoli si faceva una canna. Soprattutto si giocava a carte. Le feste di Natale per molti significavano una serie interminabile di partite a carte.
Nel grande salone c’era un tavolo di baccarat, mentre nel soggiorno si giocava a chemin de fer. Nelle altre stanze, appunto, si beveva e si fumava. Tutto molto simile a tante altre situazioni così. Tranquillo.
Poi il mondo, il mio almeno, ebbe un’accelerazione improvvisa. Come le astronavi dei cartoni animati o dei film di fantascienza, che partono con una specie di botto e schizzano fino a scomparire fra le stelle.
Avevo buttato qualche soldo al baccarat e poi ero andato nella stanza dove giocavano a chemin de fer. Francesco era a quel tavolo. Io avrei voluto sedermi ma non avevo abbastanza soldi. C’erano ragazzini più piccoli di me che andavano a queste serate con mazzetti di banconote arrotolate e libretti degli assegni. Io avevo trecentomila lire al mese dai miei genitori e guadagnavo qualcosa dando lezioni private di latino. L’idea di giocare forte – e vincere, naturalmente – mi attirava, ma non potevo permettermelo. O non avevo abbastanza coraggio. O probabilmente tutte e due le cose. Così spesso mi accontentavo di guardare.
In giro per la casa c’erano almeno una sessantina di persone, ogni tanto suonava il campanello e ne arrivavano altre, da sole o più spesso a gruppi. A volte erano completamente sconosciuti anche alla padrona di casa. Quel tipo di serate funzionava così, con il passaparola. Anzi, uno dei divertimenti notturni nelle vacanze di Natale era proprio passare da una festa all’altra, magari infilarsi a casa di sconosciuti, mangiare, bere e andare via senza salutare. Funzionava così e di solito non c’erano problemi. Anch’io l’avevo fatto parecchie volte.
Così quella sera nessuno fece attenzione ai tre tipi che si aggiravano per la casa senza essersi nemmeno tolti i giubbotti. Uno di loro entrò nel soggiorno dove si giocava a chemin de fer. Era piuttosto basso, massiccio, con i capelli tagliati cortissimi, l’espressione ottusa. E cattiva.
Diede uno sguardo rapido a me e agli altri che erano in piedi e non giocavano. Nessuno di noi lo interessava e si avvicinò al tavolo per guardare in faccia i giocatori. Vide subito quello che cercava, uscì velocemente dalla stanza e meno di un minuto dopo rientrò insieme agli altri due.
Ce n’era uno che sembrava una specie di copia del primo, in grande. Era piuttosto alto, massiccio, anche lui con i capelli cortissimi. Non era rassicurante. Il terzo era alto, magro, biondo, piuttosto bello ma con qualcosa di malato nei lineamenti o nell’espressione. Fu lui a parlare. Diciamo così.
«Pezzo di merda!»
Tutti si voltarono. Anche Francesco, che dava le spalle alla porta e si accorse dei tre solo in quel momento. Ci guardammo tutti qualche secondo, per capire chi cercassero. Poi Francesco si alzò e si rivolse al biondo, parlando con tono tranquillo.
«Non fare cazzate, qui dentro. C’è un sacco di gente.»
«Pezzo di merda. Esci con noi, se no spacchiamo tutto.»
«Va bene. Lasciami prendere il giaccone e vengo.»
Erano tutti immobili, paralizzati dallo stupore e dalla paura. Quelli nella stanza e altri che si intravedevano nel corridoio, dietro i tre. Anch’io ero immobile e pensavo che adesso sarebbero usciti di casa e lo avrebbero massacrato. Forse già per le scale. Mi sentivo umiliato. Ricordo che pensai, in una frazione di secondo e con assurda lucidità, che ci si doveva sentire così quando s...
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