Capitolo 1
TRIPOLI OCCASIONE MANCATA
A tutto pensava del suo futuro, l’adolescente Francesco Baracca, fuorché alla carriera di eroe.
D’altronde anche gli eroi e i geni condividono i primi momenti dell’esistenza con miliardi di altri esseri umani: nascono, strillano, succhiano il latte, sporcano i pannolini. Poi gattonano, pronunciano le prime parole, rivelano progressivamente le loro attitudini normali o eccezionali.
Tutto questo per sbrigare in poche righe la nascita di Baracca Francesco il 9 maggio 1888 a Lugo di Romagna. Figlio unico di una famiglia ricca, il padre, Enrico, facoltoso possidente, la madre, Paolina, contessa e facoltosa possidente pure lei.
La popolazione rurale è gente tosta, solidale nella povertà . Qui nascono le cooperative di braccianti (un povero più un povero, più un povero fanno tre un po’ meno poveri). Qui nascono le società di mutuo soccorso dove i contadini si tassavano per ricostituire il pollaio falcidiato dalla morìa, le donne andavano a far la «sopa», la zuppa (e tutte le altre faccende domestiche) all’amica che doveva partorire. In certe campagne romagnole c’erano le canne e le rane, si moriva di pellagra, sarebbero diventate paludi di miseria se non si fosse attuata la stessa formula economica: faticare uniti, faticare meglio.
Gran parte delle bonifiche in Italia si devono alle cooperative degli «scariolanti». La domenica, sulle sedie delle osterie, era consacrata al gioco d’azzardo. Si scommetteva su tutto, anche se la targa della prima trappola a motore di passaggio terminava con un due o con un otto.
La politica era sanguigna: mangiapreti spietati, mazziniani fino all’osso, o anarchici scatenati. Ma leali negli affari quando una stretta di mano valeva più di una firma davanti al notaio.
La famiglia Baracca, si diceva, economicamente se la passava più che bene. Da escludere quindi la sorte dei figli poveri: diventare preti o militari. Francesco decise la carriera del soldato per libera scelta, o meglio per le influenze e le suggestioni del momento storico, sociale, di costume.
Se gli alunni di cent’anni dopo impareranno su testi quasi scolastici come confezionare le bottiglie molotov, i ragazzi di allora trovavano sul libro di lettura delle scuole secondarie frasi di questo tenore:
Dinanzi al soldato d’Italia tacciono gli sdegni di parte, si affratellano gli animi…
L’Esercito e la Marina [l’Aeronautica ancora non esiste come arma autonoma, NdR] sono asilo di ogni sentimento nazionale. Se un terremoto, una frana, un incendio, un’inondazione seminano terrore e morte, ecco accorrere l’Esercito e sacrificarsi in silenzio.
Fra questi alati sentimenti, Francesco passa così da un’uniforme all’altra: da quella del collegio di Badia Fiesolana diretto dai Padri Scolopi a quella di allievo ufficiale di cavalleria nella scuola di Modena a quella di sottotenente cavaliere del Piemonte Reale, scuola di Pinerolo.
Informa la madre con scrupolo contabile (scrivendo di Baracca, è difficile stabilire se ha consumato più benzina nei suoi voli di guerra o più inchiostro nelle infinite pagine dei suoi diari e del suo epistolario):
Ho ricevuto per indennità ed equipaggiamento L. 277 e come stipendio di ottobre L. 157, da cui devo togliere L. 44 per la mensa e L. 2 per la barcaccia al teatro di Pinerolo.
Il peggio che gli può capitare nella sua nuova vita è una caduta da cavallo: è il più ovvio fra gli incidenti di mestiere, ma ne parlano tutti i giornali perché avviene alla presenza di Tsi Tsao principe del Celeste Impero.
È il 3 luglio 1910.
Montavo un cavallo irlandese – annota l’instancabile biografo di se stesso – quando saltando una siepe alta, l’animale la supera ma cade rovinosamente sbattendomi a terra. Mi rialzo stordito, la povera bestia fa altrettanto ma resta su tre gambe. Non c’è purtroppo altra soluzione che abbatterla.
Resta un gesto rituale da compiere: versare una lira, stabilita per ogni caduta. I cavalieri del reggimento lanciano il cuore oltre l’ostacolo ma spesso non riescono a lanciare il resto del corpo. Così in cassa si accumulano 440 lire. Serviranno ad acquistare bottoni da polso in argento con gli stemmi del reggimento.
Quando trasferiscono il suo squadrone a Rieti-Roma il nostro non perde un’occasione fra concorsi ippici, ricevimenti, cacce alla volpe, amori corsari con qualche amazzone propensa a cavalcare anche fra le lenzuola.
Si avvicina il settembre 1911 e, con esso finalmente l’occasione per Baracca di mostrare quello che vale, oltre i concorsi e la bella vita. L’Italia dichiara guerra alla Turchia e occupa la Libia.
Tripoli bel suol d’amore. Partono i marinai, i bersaglieri, i Lancieri di Trieste, altri squadroni a cavallo, ma è destino, scrive Baracca «che io resti qua a Rieti, con la stufa nel salotto e l’attendente che scalda l’acqua per il tè». Si annoia, si sente inutile ma almeno la contessa mamma si mette il cuore in pace.
Baracca viene trasferito a Roma dove alterna la passione dei cavalli a quella per l’opera lirica (ha visto una memorabile Bohème e una deliziosa Lucia di Lammermoor) ma la vita nella capitale è dispendiosa e il nostro si trova ben presto a corto di denaro.
«Ho pagato 50 lire per due box destinati ai miei cavalli e ho avuto la sgradita sorpresa di trovarmi trattenute sullo stipendio 80 lire di foraggio e biada […] c’è poi la nota del sarto ma per ora c’è da pagare solo il paletot.»
Ha ricevuto l’offerta per il suo purosangue Eclaireus. Gli propongono 7000 lire e sarebbero un toccasana per suoi magri bilanci. «Ma credo che non lo venderò. Dove trovarne uno migliore per la caccia e i concorsi?»
A questo punto è forse assalito dal dubbio di offrire alla contessa mamma l’immagine di un bellimbusto che furoreggia fra cacce alla volpe, premi ippici, teatri, tè danzanti e batte pure cassa per pagare il paletot. E allora mette in chiaro: «Ogni mattina mi sveglio alle sei per essere pronto alle sette a cavallo e giostrare per quattro ore nella splendida campagna romana istruendo gli squadroni di reclute».
E aggiunge (ma questa, come tra poco vedremo, sarà una pietosa bugia):
Sapessi mamma quanto mi rincresce frequentare questi ambienti altolocati e non parlare correttamente il francese e nulla l’inglese. Ma per ora non trovo assolutamente il tempo di studiare… Lo farò in estate e chiederò a papà di finanziarmi un viaggio all’estero.
È abbastanza sconcertante questo ritratto di Baracca prima maniera, un po’ fighetto con gli speroni, molto mammone e inguaribile grafomane.
Sta di fatto che nella Roma della Belle Époque, quel giovane col bavero rosso del «Piemonte Reale», comincia a sedurre una vastissima platea femminile. Sguardo penetrante ma dolce, «ti mira fisso negli occhi, come quando sul suo aereo punta e spara», dirà una delle tante ammiratrici. Zigomi alti, naso forte e diritto, sfoggia un sorriso a dieci carati, ma senza esagerare, sotto due baffetti alla Clark Gable di cui avrebbe anche potuto fare a meno (ma la moda del tempo esige questo vezzo, come anni dopo, i baffi a manubrio, il pizzetto, le basette a cespuglio o favoriti).
È poi è alto, decisamente oltre la media – celebre la sua foto, nella quale regge bene al cospetto di quello stangone del re-aviatore Alberto del Belgio – ma cavalca divinamente tra fantini di bassa statura (ha imparato da bambino, come un piccolo cow-boy, lungo le rive del Senio).
Figlio dei suoi tempi, ma soprattutto della sua terra, insomma un perfetto «sangue romagnolo», Francesco rivela il tipico Dna di tanti conterranei entrati nella storia (ultimo Raul Gardini) che mixano aplomb, irruenza sportiva, mondanità e propensione alla baracca (nomen omen) con gli amici.
Nell’appartamento in via Palestro che divide con altri ufficiali, Francesco fa gazzarra spesso e volentieri fino a notte tarda. Tanto che la proprietaria si vede costretta a sbattere fuori lui e i suoi colleghi. Ma il giovane cavaliere, abituato a saltare fossi e siepi in sella ai suoi adorati purosangue, non si scompone di fronte a uno sfratto. Il babbo Enrico è abituato a sganciare bigliettoni, per quel figliolo in divisa adorabilmente scapestrato. E dunque casa nuova, nuovo affitto, mentre continua il tourbillon tra veglioni, concerti lirici e concorsi ippici.
***
Intanto pian piano si affaccia una nuova, segreta passione. Tanti suoi colleghi ufficiali di cavalleria frequentano i primi improvvisati corsi di pilotaggio e svolazzano sui trabiccoli (tutti francesi, di marca Voisin, Blériot, Nieuport).
Sono trascorsi appena una dozzina di anni dal primo volo dei fratelli Wright che riuscirono a staccarsi da terra per dodici secondi e già gli strateghi degli alti comandi gongolano nel vedere la nuova invenzione al servizio delle loro farneticazioni di guerra. Le studiano tutte. Persino – in attesa delle mitragliere – dardi d’acciaio con cui lacerare le fragili ali avversarie e dei ganci appesi a una fune per bloccare l’elica del nemico sottostante. Una grottesca derivazione dalla pesca con l’amo.
Ma è uno specifico episodio, forse, la molla che spinge Baracca a passare dalla sella al seggiolino di pilotaggio. Accade la mattina dell’8 giugno 1911. Cecchino (è il brutto soprannome che la mamma Paolina gli ha dato) sta andando al trotto nell’ippodromo di Tor di Quinto, quando improvvisamente sente sopra la testa l’acuto di un motore imballato. È il biplano Farman di Raimondo Marra – pilota romano fra i primi temerari delle macchine volanti – che sta disputando il «circuito del Tevere» una sorta di rally dell’aria che consiste nel ripetere quattro volte il percorso da Centocelle a Monterotondo passando per Tor di Quinto.
Il velivolo è in difficoltà , perde rapidamente quota, evita per un pelo i fili della tranvia Civita-Castellana, rimette il muso al cielo poi stalla e rovina al suolo. Francesco dà un colpo di speroni e accorre sul luogo dell’incidente. Marra è privo di sensi fra i rottami dell’aeroplano. Baracca, insieme al fratello dell’aviatore riescono a estrarlo dall’abitacolo, ma le sue condizioni sono disperate. Ha perso molto sangue Morirà sull’auto del fratello che corre a clacson spiegato verso l’ospedale.
La tragedia finisce sulle prime pagine dei giornali. Francesco ne è profondamente turbato, ma allo stesso tempo la curiosità , la voglia di sfida e l’ammirazione per i primi aviatori che osano il volo, cominciano ad avere l’effetto di una droga.
***
«Aviatori che osano il volo.» A questo punto è indispensabile parlare dell’infamia che colpì tutti i piloti che si affrontarono nei cieli d’Europa.
Avrebbe senso una legge che vietasse ai poliziotti di indossare il giubbetto antiproiettile? O che proibisse ai costruttori di dotare le loro auto di cinture e airbag?
Ebbene durante la Guerra mondiale i generali di tutti gli eserciti vietarono tassativamente agli aviatori di usare il paracadute, appena inventato e collaudato. Motivo incredibile: avrebbe indebolito il loro spirito aggressivo.
Il paracadute dunque era pronto nel 1915 per salvare molte vite. Ma gli stati maggiori preferirono inchiodare i piloti ai loro velivoli anche quando si tramutavano in bare. (Con i nostri occhi sbigottiti abbiamo assistito in diretta televisiva alla tragedia delle Torri Gemelle, centrate dagli aerei dei terroristi e incendiate. Lo spettacolo più agghiacciante era rappresentato da quei corpi che precipitavano dai piani alti, raggiunti dalle fiamme. La morte nel vuoto era preferibile alla morte nel fuoco.)
Francesco Baracca in tante lettere agli amici aveva confessato l’ossessione di morire bruciato o di vivere gli ultimi istanti nel disperato lancio dall’aereo. E lasciava intendere di aver già programmato un altro tipo di morte.
Altro odioso particolare. Il paracadute potevano indossarlo soltanto gli osservatori degli aerei biposto. Da essi non dipendevano le sorti dell’aereo. Anzi benvenuti a terra sani e salvi con la preziosa documentazione fotografica.
Erano i piloti che – oltre a combattere fino all’ultimo respiro – avevano il compito di riportare a terra per quanto possibile un apparecchio che costava molti soldi.
Anche per questo la loro vita non valeva la seta di una possibile salvezza.
Capitolo 2
COME TI PILOTO IL VALZER
È una calda sera d’estate 1912. Il sole al tramonto colora di pastello Montmartre, l’Arco di Trionfo, Notre Dame. Dall’ultimo «balcone» della Tour Eiffel, si godono la cartolina di Parigi le solite coppiette che, come vuole tradizione, cercano un momento romantico sul palcoscenico più alto della città .
La Tour Eiffel ha soltanto ventitré anni di vita, (è stata tirata su per l’Expo universale dell’89) ma in quel lasso di tempo ha già visto salire attraverso le sue gigantesche nervature d’acciaio milioni di turisti da ogni parte d’Europa.
È quasi coetaneo della torre, giusto un anno più vecchio, il giovane in camicia che in un discreto francese fa domande alla sua ragazza, mentre le cinge protettivamente le spalle.
«Qu’est-ce que c’est? (che cos’è quello… e quello… e quello).»
«Montparnasse, Place de l’Étoile, Palais-Royal», risponde lei paziente, prima di voltarsi verso di lui, e appoggiargli dolcemente un bacio sulle labbra. Poi, con voce morbida, in buon italiano gli chiede: «Ma non sei stufo, François, di guardare il mondo dall’alto?».
«Pourquoi? Con te, Marcelle, è la prima volta che lo guardo… E spero di farlo ancora, domani, fra un mese, sempre.»
«Mi porterai sul tuo aereo?»
«Sì, te lo prometto. Appena mi daranno il permesso.»
E la ment...