Marina Bellezza (nuova edizione)
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Marina Bellezza (nuova edizione)

  1. 560 pagine
  2. Italian
  3. ePUB (disponibile sull'app)
  4. Disponibile su iOS e Android
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Marina Bellezza (nuova edizione)

Informazioni su questo libro

Marina ha vent'anni e una bellezza assoluta. Il suo sogno è quello di liberarsi della Valle Cervo, trovare un riscatto da un padre con il vizio del gioco e una madre alcolista, andare in città e diventare famosa, una cantante ricca e ammirata.
Andrea lavora part-time in una biblioteca e desidera al contrario una vita modesta, rilevare una vecchia cascina sulle Alpi biellesi, tornare alle origini, dove aveva cominciato suo nonno tanti anni prima. La loro è una generazione tagliata fuori da tutto e privata di un futuro già divorato dall'indifferenza dei padri. Ma entrambi hanno deciso di disobbedire alle regole di una società che non ha posto per loro con rabbia e tenacia: lei rincorrendo il miraggio della celebrità, lui scegliendo invece di ritirarsi dal frastuono del mondo e immergersi nella natura.
Marina e Andrea si attraggono e respingono come magneti, insieme creano scintille. La loro è la storia di un destino ancora tutto da scrivere, perché bruciano di un amore che vuole essere per sempre. Il secondo libro di Silvia Avallone è un romanzo di formazione contemporanea, ai confini di una società che ha lasciato soli i propri figli.

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Informazioni

Editore
BUR
Anno
2015
Print ISBN
9788817074650
eBook ISBN
9788858680629

PARTE PRIMA

Far West

1

Un chiarore diffuso risplendeva da qualche parte in mezzo ai boschi, a una decina di chilometri dalla strada provinciale 100 stretta tra due colossali montagne nere. Era l’unico segnale che una forma di vita abitava ancora quella valle, sul confine nudo e dimenticato della provincia.
Lo vedevano apparire attraverso il parabrezza, simile a un’esca intermittente negli abissi. Poi, alla curva successiva, lo persero di vista.
Rallentarono a un crocicchio circondato dal niente, di fronte al relitto di un ristorante. Due finestre sprangate e un cartello dove sbiadivano MENÙ FISSO e altre parole ormai illeggibili. Uno di loro ricordò di aver festeggiato lì la prima comunione. Vent’anni dopo erano rimasti il tetto e le inferriate. Vent’anni dopo era tutto finito.
Proseguirono, accelerarono di nuovo. Non c’erano lampioni in quel tratto di strada, nessuna rete metallica a proteggerli dai massi che sporgevano minacciosi. I fari sorprendevano frammenti di ripe infestate dai rovi, ogni tanto un casolare caduto a pezzi. Si perdevano anche le indicazioni stradali, lassù, nella notte vuota.
Erano i soli a viaggiare sulla SP 100, tra il fondovalle e l’abbandono. S’inerpicavano tra i dirupi, su per quei tornanti che conoscevano a memoria da una vita, a bordo di una vecchia Volvo station wagon. Le latifoglie, via via che la strada saliva, si facevano sempre più spettrali. Le pareti della valle si stringevano a precipizio sul torrente e dai finestrini abbassati entrava solo il monotono logorio dell’acqua.
La luce riapparve, fioca, seminascosta dalla dorsale di una montagna. La guardarono ancora, ma non dissero niente.
Raggiunsero Andorno. I semafori arancioni pulsavano a intervalli regolari, e la Volvo sfrecciava a novanta all’ora senza rispettare né gli stop né le precedenze.
Dopo il cimitero, dopo quanto restava del campetto da calcio dov’erano cresciuti, la sagoma scalcinata del bar Sirena se ne stava là, ad attenderli con l’insegna spenta. Parcheggiarono. Scesero dalla macchina. Erano uno alto, uno tarchiato e uno con due occhi più neri del petrolio. Si avvicinarono alla porta: dall’interno nessun rumore. La strattonarono lo stesso.
«È chiuso.»
Sebastiano, quello alto, rimase impalato di fronte all’ingresso. Continuò a fissare la porta con sguardo torvo, le assestò un calcio, poi un altro. I tavoli esterni erano accatastati e legati con una corda, come se a qualcuno potesse venire in mente di rubarli. Per terra c’erano dei pacchetti di sigarette accartocciati.
Luca, quello tarchiato, fece il giro dell’edificio e ispezionò il retro.
«Niente, è proprio chiuso.»
«Andiamocene» disse Andrea.
Lui era calmo. I suoi occhi erano implacabili e affondati nell’oscurità.
«E dove?»
La domanda venne subito riassorbita dal buio.
Sebastiano era nervoso, guardava Andrea come se dovesse sfidarlo e aspettava da lui una risposta. Luca tirò fuori dalla tasca il cellulare, si mise a scorrere i nomi della rubrica.
«Non lo so» disse Andrea. Si sistemò il colletto della camicia, si accese una Lucky Strike. La città non faceva per lui, i locali del capoluogo lo avevano sempre messo a disagio. Preferiva quelle montagne spopolate da decenni, almeno lì non si sentiva un estraneo.
Si voltò a guardare in su, tra la Valle Cervo e la Valle Mosso, la luce che resisteva ancora e si appannava nell’umidità della notte. La indicò agli altri annuendo. Loro lo fissarono dubbiosi, poi risalirono in macchina.
Sebastiano mise in moto e riattraversò Andorno. Cambiò strada questa volta, prese la SP 105 per San Giuseppe di Casto. Adesso il chiarore si vedeva meglio. Sembrava più vicino. Non dissero niente, ma decisero di seguirlo. Magari era solo un incendio, ma decisero di seguirlo lo stesso.
A San Giuseppe c’erano un’edicola, un alimentari, una chiesa. Un paio di chilometri e scomparve nello specchietto retrovisore. Erano tutti così i paesi da quelle parti: abbandonati, con le imposte chiuse e le insegne spente. Ma loro non avevano mai pensato di andarsene, anzi: i loro sentimenti, il loro senso dell’orientamento, erano dettati da quelle strade, da quelle montagne.
Poi certe sere, come questa, erano di poche parole. Andrea se ne stava con la tempia appoggiata alla guarnizione del finestrino e guardava fuori. Sebastiano guidava e si godeva la sua libertà, riconquistata dopo nove mesi di arresti domiciliari. Solo per un attimo si chiese cosa avrebbe pensato un giorno di lui suo figlio, da grande.
Località Golzio. Lo stereo era rotto, e loro continuavano a non parlare. A forza di stare a contatto con i boschi e i sassi, avevano contratto il vizio del silenzio. Luca scorreva ancora i nomi della rubrica alla ricerca di una ragazza da chiamare – un’amica, una qualsiasi – però non si decideva.
«Vorrei capire dov’è che stiamo andando» disse.
Nessuno gli rispose. I boschi erano masse scure dove i rami s’intricavano tra loro. Sebastiano non smetteva di domandarsi se Mathias avrebbe dato retta a lui o a quella stronza di sua madre. Andrea invece pensava a suo padre, si convinceva di essere abbastanza adulto per affrontarlo a muso duro. Tutti fissavano i dirupi sepolti nel buio, una terra di nessuno. Piccoli paesi diroccati tra le rocce. Cento, duecento abitanti.
Continuavano a inseguire la luce lassù che non prometteva niente, così minima adesso da assomigliare alla fiamma di una candela.
Continuavano a rimuginare, a risalire la strada deserta, a inabissarsi in quella voragine di abeti e di sterpi senza sapere come fare a trovare un biliardo, un bar aperto, a far accadere qualcosa dentro quel silenzio.
Poi, in una frazione di secondo, quando Sebastiano si voltò verso i sedili posteriori per chiedere ad Andrea se gli accendeva la sigaretta, quando Luca si girò anche lui per raccogliere l’accendino che era caduto ad Andrea, proprio in quella frazione di secondo, qualcosa accadde davvero.
Spuntò a velocità folle da un cespuglio. Si materializzò in mezzo alla strada. Ma anziché attraversarla, rimase ferma. Ed era viva. Era enorme. E non si schiodava. Rimaneva lì, come se una forza oscura l’avesse pietrificata.
Due cerchi gialli s’illuminarono nella notte, rifransero la luce dei fari come specchi, solo che i ragazzi non riuscirono a vederli. E prima che potessero capire, prima che Sebastiano si voltasse finalmente e d’istinto affondasse il piede sul freno, la Volvo la investì in pieno.
L’urto fu devastante. Fu lo schianto feroce di un corpo fatto di lamiere contro un altro corpo ancora più duro. I fari si spensero insieme al motore. Luca si ritrovò con la faccia contro il parabrezza e il cuore in gola, Andrea finì incastrato tra i sedili anteriori. Il silenzio si era fatto abissale, come il buio pesto in cui erano precipitati. Sebastiano continuava a stringere il volante tra le mani.
Ci fu un istante di panico, in cui tutti e tre ansimavano senza riuscire a fare altro, con gli occhi sbarrati. Poi si resero conto che la Volvo era morta in mezzo alla strada.
«Puttana troia» gridò Sebastiano. E cercò gli altri con lo sguardo.
Erano paonazzi, con la tachicardia così forte che sembrava potessero sentire l’uno il cuore dell’altro. Erano vivi.
«Cosa è stato?» chiese Luca.
«Qualunque cosa fosse» disse Andrea, «è ancora là fuori.»
Questa semplice constatazione bastò a farli rimanere inchiodati ai sedili.
«E se abbiamo ammazzato uno?»
«Uno?»
Ammutolirono, paralizzati dall’idea delle conseguenze.
Poi Sebastiano si riscosse, tirò un pugno sul volante.
«Ma che cazzo dite? Io in galera non ci torno.» Fece per rimettere in moto: «Non parte…».
Si sporse a guardare avanti, attraverso il vetro sporco di pioggia e di moscerini. Si accorse che il cofano si era accartocciato. Allora spalancò la portiera, furioso.
Scesero anche gli altri. Il buio si agitava nel vento, tra le ripe, tra i boschi, come una creatura viva. Il lato sinistro del cofano, irrecuperabile, sembrava rinserrato in se stesso. Uno dei fari non esisteva più. Ma non era facile capire; non filtrava altra luce laggiù se non quella minima della luna.
Andarono a vedere, anche se speravano non ci fosse niente da vedere. Eppure c’era: una macchia distesa sull’asfalto, a una decina di metri sulla linea continua che divideva la carreggiata, che si muoveva.
Sebastiano si avvicinò per primo mentre gli altri restavano a distanza. Si piegò leggermente, poi di scatto fece un balzo indietro.
«Merda!»
«Cos’è?»
La strada era vuota, i cellulari non prendevano.
«Accendi i fari, subito!» gridò Sebastiano, sconvolto.
Andrea era rimasto in silenzio, congelato da quella scena notturna che non aveva alcun senso, eppure stava capitando.
Sebastiano continuava a sporgersi e a ritrarsi, come se non avesse ancora trovato il coraggio di guardare. Luca girò la chiave nel cruscotto con le mani che sudavano, e il motore non partiva.
Andrea si avvicinò a Sebastiano, poi alla sagoma scura e inerte che stava lì, nel bel mezzo della provinciale. Si piegò sulle ginocchia per osservarla, per capire chi o cosa fosse, ma in quel momento Luca riuscì a mettere in moto, e il faro destro si accese all’improvviso, accecandolo.
In certi momenti non pensi a niente, non sai niente e non sei nessuno.
In certi momenti, a ventisette anni, puoi conoscere una cosa sola, la più importante, la più vera di tutte. La paura.
Quando Andrea riaprì gli occhi, vide sotto di sé una mole spaventosa, bruna e insanguinata. E quando perse l’equilibrio, e involontariamente la urtò con un piede, quella emise un grido straziante, disumano e umano insieme, e prese a tremare in tutto il corpo.
«È vivo…»
Lei, la ragazza che guidava sola in mezzo alle risaie a bordo di una Peugeot 206 cabrio, e che adesso rallentava all’incrocio di Carisio guardandosi intorno, stava cercando un motel in cui non era mai stata.
Avrebbe dovuto trovarsi lì, trecento metri prima del casello, invece vedeva solo un edificio in costruzione e una fila di container arrugginiti.
Fece inversione dentro un distributore di benzina, provò a infilarsi in una laterale. Il buio era così intenso da disorientare anche uno del luogo, a maggior ragione lei che aveva preso l’autostrada così poche volte.
Poi vide una freccia intermittente illuminare una direzione nella notte, seguita dalla parola NEVADA a cui mancavano due lettere. Non poteva più sbagliarsi. Affondò il piede sull’acceleratore, avvertì le ruote slittare sul selciato, ma aveva troppa fretta per procedere con cautela.
Il Nevada si trovava dall’altra parte dell’oceano, era lo Stato dei neon e dei casinò che aveva visto in televisione. Lì, invece, lungo il confine amministrativo tra Biella e Vercelli, c’era una palazzina solitaria di quattro piani, con tutte le tapparelle abbassate. E nient’altro.
Entrò nel parcheggio. Nugoli di moscerini sbattevano contro le luci deboli dei lampioni. Fece manovra e spense la radio che proprio in quel momento trasmetteva Someone Like You di Adele. La sua canzone preferita, quella che un giorno, in diretta, di fronte a milioni di telespettatori, avrebbe dedicato a lui, e a lui soltanto.
Quando scese dalla macchina si accorse di avere freddo. Non indossava quasi niente. Cercò di correre, ma i tacchi affondavano nella ghiaia ed era impossibile camminare più veloce di così.
Temeva che lui se ne fosse già andato. Controllò l’orologio: erano le otto passate. Temeva che non l’avesse aspettata, e aveva poco tempo per convincerlo, anzi per costringerlo a seguirla.
Il Galà della Canzone sarebbe cominciato tra meno di un’ora, a quaranta chilometri da lì, e lei voleva ad ogni costo che lui fosse presente, sotto il palco, ad applaudirla. Almeno quella sera.
Entrò nella hall spalancando la porta. Dal bancone della reception il custode e due forestieri si fermarono a guardarla, impietriti come di fronte a un’apparizione. Lei invece non considerò nessuno, non fece domande. Si diresse d’istinto nel corridoio sulla sinistra. La moquette era consumata e livida, la tappezzeria alle pareti scolorita.
Scese alcuni gradini, avvertì un odore cattivo di muffa, di biancheria da lavare, ed evitò di chiedersi quale genere di uomo potesse trovare rifugio in un motel a ore, a ridosso di uno svincolo autostradale. Poi sbucò in una saletta fiocamente illuminata, e le si bloccò il cuore.
Tutti i tavoli erano vuoti eccetto uno. E lui c’era.
Stava seduto in compagnia di una donna su cui lei non volle fermare lo sguardo. Sorseggiava un drink, sorrideva parlando sottovoce. Sbarbato, ben vestito nel suo completo fumé, affascinante come nessun altro.
Anche se non aveva l’aria di chi aspetta qualcuno con ansia, anche se non si era ancora accorto di lei che lo fissava dall’ultimo gradino delle scale, e anche se stava tenendo la mano di quella ragazza di vent’anni più giovane, lei si sentì invadere da una gioia improvvisa e spudorata.
Attraversò la saletta correndo, sbattendo la borsa tra le sedie e i tavoli. Gli si gettò addosso, si arrampicò quasi sulle sue spalle.
Era da più di sei mesi che non lo vedeva.
«Papà!» gridò.
E Raimondo Bellezza sorrise, stringendola tra le sue enormi braccia.
«Tesoro, ce l’hai fatta…»
La sua accompagnatrice si presentò allungando la mano. Lei non gliela strinse né la degnò di uno sguardo.
«Quanto ti fermi?» gli chiese subito.
«Oh, venti, venticinque minuti…»
«Ma come?! Non vieni a sentirmi cantare? Inizia alle nove… Ti prego!»
Raimondo si sistemò il nodo della cravatta di seta. Portava un anello d’oro al mignolo sinistro, con un topazio al centro.
«Lo sai che non posso, dobbiamo ripartire subito… Ma ti abbiamo aspettata, hai visto?»
Lei affondò il viso tra le pieghe della sua giacca, si rintanò nel suo petto. Gli si era seduta sulle ginocchia come quando era bambina, e non accennava a staccarsi da lui che le accarezzava la testa e rideva, allegro, affabile, come un uomo che della vita ha conosciuto solo il lato piacevole.
«Cosa prendi?» le disse per distrarla. «Un prosecco, lo vuoi?»
La sua fidanzata, che forse era addirittura più giovane di lei, e portava le unghie lunghissime, acuminate e laccate di fucsia, era rimasta in silenzio a guardarli, visibilmente scocciata.
«Un Negroni, allora? Cosa preferisci? Non fare la stupidina, andiamo…» insisté suo padre. «Uno champagne? Lo vuoi uno champagne?»
«Sì…» mugugnò lei.
«Lo sapevo» Raimondo fece l’occhiolino alla sua compagna, «mia figlia è sempre stata chic, cosa credi? Ha preso da me… Scusi...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Marina Bellezza
  4. Parte prima. Far West
  5. Parte seconda. Cowboy vs Cinderella
  6. Parte terza. Eldorado
  7. Nota dell’Autore
  8. I numeri di pagina si riferiscono all’edizione cartacea.
  9. Copyright