Via dalla pazza folla
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Via dalla pazza folla

  1. 496 pagine
  2. Italian
  3. ePUB (disponibile sull'app)
  4. Disponibile su iOS e Android
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Via dalla pazza folla

Informazioni su questo libro

Bathsheba Everdene è una donna appassionata, libera, affascinante, che eredita una fattoria nella campagna inglese di metà Ottocento e fa innamorare di sé tre uomini diversi per carattere ed estrazione sociale - il pastore Gabriel Oak, il fattore William Boldwood, il soldato Francis Troy - sconvolgendo gli equilibri dell'intera comunità. Attraverso le contrastate vicende di Bathsheba, Hardy indaga i desideri, le fragilità, i conflitti nascosti dietro l'apparente immutabilità di un paesaggio millenario. Perché, come osserva Sara Antonelli nella preziosa introduzione, "cosa c'è di sobrio e placido nella vita dei personaggi che abitano questo romanzo? Quasi nulla, giacché si accendono di passioni e si infiammano come gli esseri frenetici che si urtano tra le strade di una metropoli". Una storia d'amore e di riscatto, il primo grande successo letterario di Thomas Hardy in una nuova traduzione dell'edizione definitiva voluta dall'autore.

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Informazioni

Editore
BUR
Anno
2015
Print ISBN
9788817076975
eBook ISBN
9788858679746

VIA DALLA PAZZA FOLLA

Prefazione

Dare alle stampe una nuova edizione di questo libro mi fa ricordare che è stato nei capitoli di Via dalla pazza folla, mentre di mese in mese uscivano in una fortunata rivista, che mi sono azzardato a tirare fuori per la prima volta il termine «Wessex» dalle pagine di un volume di antica storia inglese e a dargli un significato fittizio così che potesse essere il nome del distretto un tempo racchiuso in quel regno scomparso. Poiché la serie di romanzi da me prodotta è del tipo che si definisce «di colore locale», i miei testi sembravano richiedere una definizione geografica che desse loro una certa unità paesaggistica. Reputando che l’area di una singola contea non offrisse uno scenario sufficientemente ampio al mio scopo e che un nome inventato avrebbe incontrato opposizioni, ne ho dissotterrato uno vecchio. La regione designata era già nota, ma in modo molto vago, tanto che spesso mi è stato chiesto dove si trovasse anche da persone di cultura. In ogni caso, la stampa e il pubblico hanno accettato di buon grado quest’idea fantasiosa e volentieri si sono uniti a me nell’anacronistica impresa di immaginare una popolazione del Wessex ancora viva ai tempi della regina Vittoria: un Wessex moderno fatto di ferrovie, di un sistema postale, di falciatrici e mietitrici, di ospizi pubblici, di fiammiferi, di braccianti che sanno leggere e scrivere, e di alunni delle scuole nazionali. Non credo di sbagliare quando affermo che, prima di annunciare la sua nascita in questo romanzo, nel 1874, di questo Wessex contemporaneo quale sostituto delle abituali contee non si era mai sentito parlare in narrativa e neppure negli studi correnti, se mai ce ne fossero, e che fino ad allora l’espressione «contadino del Wessex» o «usanza del Wessex» era stata impiegata solo per far riferimento a cose avvenute non oltre la conquista normanna.
Non avrei mai immaginato che un tale uso del termine all’interno di un romanzo moderno potesse oltrepassare i capitoli di queste specifiche cronache. Ma è stato subito ripreso altrove, e il primo a farlo è stato l’ormai defunto «Examiner» che, nel numero del 15 luglio 1876, intitolò uno dei suoi articoli Il bracciante del Wessex, che si scopre essere un trattato non sull’agricoltura durante l’Eptarchia, bensì sui moderni contadini delle contee del nostro sudovest.
Da quel momento l’appellativo che avevo pensato di riservare agli orizzonti e agli scenari di un paese in parte sognato e in parte reale, è stato usato sempre più per definire nella pratica una provincia, e il paese sognato si è lentamente coagulato in una regione utilitaristica in cui le persone possono arrivare, trovare alloggio e da lì scrivere sui giornali. Chiedo tuttavia a ogni bravo e idealistico lettore di dimenticare tutto questo e di rifiutarsi fermamente di credere che esistano degli abitanti di un Wessex vittoriano oltre i confini di questi volumi in cui sono descritte le loro vite e conversazioni.
Il villaggio chiamato Weatherbury in cui si svolgono gran parte delle scene di questa storia sarebbe, forse, arduo da collocare in una località tutt’ora esistente per un esploratore che fosse privo di aiuto – anche se all’epoca relativamente recente in cui è stato composto il racconto sarebbe stato abbastanza facile rintracciare una realtà sufficientemente conforme alle descrizioni sia dello sfondo sia dei personaggi. La chiesa è rimasta, per sua grande fortuna, non rimodernata e intatta* e così alcune delle case più vecchie. Ma l’antica birreria che in passato caratterizzava la parrocchia negli ultimi venti anni è stata demolita, e così molti dei cottage col tetto di paglia e gli abbaini una volta impiegati come abitazioni. La vecchia casa giacobita della nostra eroina ha avuto bisogno, nella storia, di una strega che la spostasse di un miglio o più rispetto alla sua posizione attuale; pur con questa differenza, il suo aspetto è tuttavia stato riportato come appare ancora oggi alla luce del sole e della luna. Il gioco dei prigionieri, che fino a poco tempo fa pareva godere di una vitalità inalterata davanti ai ceppi consunti della gogna, per quanto ne so oggi potrebbe essere completamente sconosciuto alla nuova generazione di scolari del luogo. L’usanza di divinare con la Bibbia e la chiave, il prendere sul serio un biglietto di San Valentino, la cena della tosatura, i camicioni e la festa del raccolto sono anch’essi pressoché scomparsi al pari delle antiche abitazioni; e con loro si dice se ne sia andato anche molto di quel piacere di sbronzarsi cui il villaggio un tempo era notoriamente dedito. Alla radice di questo mutamento c’è stata la recente sostituzione della classe degli abitanti stanziali dei cottage, che aveva perpetuato le usanze e la giocosità tradizionali, con una popolazione di braccianti per lo più itineranti, che ha causato l’interruzione della continuità storica locale; un evento fatale per la conservazione delle leggende, del folklore, di strette interrelazioni sociali ed eccentricità individuali più di qualunque altra cosa. Giacché la condizione indispensabile per la sopravvivenza di tutto questo è il legame con la terra di uno stesso posto da una generazione all’altra.
T.H.
1895-1902
* Purtroppo non è più così (1912). (N.d.A.)

I

Descrizione del fittavolo Oak. Un incidente

Quando il fittavolo Oak sorrideva, gli angoli della bocca si allungavano fino a trovarsi a una distanza irrilevante dalle orecchie; gli occhi si riducevano a due fessure, con attorno delle rughe divergenti che si diramavano dal viso come i raggi nel disegno infantile di un sole nascente.
Il suo nome cristiano era Gabriel e nei giorni feriali era un giovane di buon senso, dai modi spigliati, l’abbigliamento appropriato e generalmente di buon carattere. La domenica era un uomo dalle idee fumose, piuttosto incline a procrastinare e ostacolato nei movimenti dagli abiti buoni e dall’ombrello. Insomma, era una persona che moralmente sentiva di appartenere a quell’ampio territorio di neutralità laodicea collocato a metà strada tra i fedeli che fanno la comunione e la sezione ubriachi; ovverossia, andava in chiesa, ma iniziava segretamente a sbadigliare quando la congregazione giungeva al credo di Nicea e pensava a quel che ci sarebbe stato per cena quando avrebbe dovuto ascoltare il sermone. Per valutare il suo carattere sulla scala dell’opinione pubblica, diremo anche che quando i suoi amici e detrattori avevano la luna storta, era considerato un uomo pessimo; quando erano di buonumore uno abbastanza per bene; quando erano di altri umori un individuo la cui forza morale era una sorta di miscela sale e pepe.
Dal momento che per avere una domenica doveva moltiplicare per sei un giorno feriale, la variante in abiti lisi era quella che meglio caratterizzava Oak: l’immagine mentale che ne avevano i suoi vicini, i quali se lo figuravano sempre vestito a quel modo. Portava un cappello basso di feltro, allargato alla base e ben calcato sulla testa per assicurarlo contro il vento forte, e un pastrano come quello del dottor Johnson; le estremità inferiori erano avvolte da semplici gambali di pelle e da stivali esageratamente larghi che assicuravano a ciascun piede un ampio accomodamento, tanto che, chiunque li avesse indossati, avrebbe potuto starsene in piedi nel letto di un fiume per un giorno intero senza sentire l’umidità – l’artigiano che li aveva fatti era un uomo così coscienzioso che tentava di compensare i difetti del taglio con una dimensione e una resistenza generose.
In guisa di orologio il signor Oak portava con sé quella che potremmo definire una piccola sveglia d’argento. In altre parole, era un orologio quanto a forma e finalità, ma una piccola sveglia quanto a dimensioni. Di qualche anno più vecchio di suo nonno, questo strumento aveva la particolarità di andare troppo avanti o di non andare per niente. La lancetta più piccola, inoltre, di tanto in tanto girava a vuoto attorno al perno; di conseguenza, sebbene i minuti fossero scanditi con precisione, non si poteva mai essere certi dell’ora cui appartenevano. Alla peculiarità di fermarsi Oak poneva rimedio con colpetti e scossoni, e fuggiva le nefaste conseguenze degli altri difetti grazie al confronto e allo studio ripetuto del sole e delle stelle, e premendo la faccia contro il vetro delle finestre dei vicini, fino a intravedere all’interno l’orario sui segnatempo dal quadrante sbiadito. Va detto che, essendo il taschino di Oak scomodo da raggiungere, a causa della posizione un po’ troppo alta nella cintura dei pantaloni (che d’altra parte era collocata a un’altezza irraggiungibile sotto il gilet), l’orologio doveva necessariamente essere estratto piegando il corpo da un lato, comprimendo bocca e viso in una massa indistinta di carne rubizza a causa dello sforzo, e quindi tirato su per la catena come un secchio dal pozzo.
Ma quegli individui meditabondi che una particolare mattina di dicembre — assolata e straordinariamente mite — lo avessero incontrato mentre attraversava uno dei suoi campi, si sarebbero soffermati su altri aspetti di Gabriel Oak. Sul suo volto avrebbero notato che molte sfumature e rotondità della giovinezza erano giunte intatte fino alla maturità – nei suoi anfratti più segreti si ravvisavano addirittura le vestigia del bambino. Se solo si fosse preso il disturbo di esibirle, la sua altezza e la larghezza delle sue spalle ne avrebbero fatto un uomo di statura imponente. Ma alcuni individui, non importa se di campagna o di città, hanno un modo di fare che è imputabile più alla testa che al fisico o ai nervi, e che li induce a sminuire la loro corporatura nel momento stesso in cui la mettono in mostra. Inoltre, per via di un placido riserbo che non avrebbe sfigurato in una vestale e che pareva avergli impresso sul volto il fatto di non avere grosse pretese sul mondo, Oak camminava senza vanagloria e in modo impercettibilmente curvo, anche se non così tanto da piegare le spalle. Se si fosse trattato di un individuo che affidava il proprio valore più alle apparenze che alla capacità di portare gli anni, sarebbe stato un difetto, ma non era questo il caso di Oak.
Aveva appena raggiunto quella fase della vita in cui, quando si parla di qualcuno, “giovane” smette di essere il prefisso davanti a “uomo”. Era nel periodo più luminoso della crescita maschile, poiché la mente e l’emozione erano accuratamente separate: aveva superato la fase in cui per effetto della gioventù le due si mescolano indiscriminatamente in forma di impulso, e non aveva ancora raggiunto il momento in cui esse si riuniscono in forma di pregiudizio a causa di moglie e famiglia. In altre parole, aveva ventotto anni ed era scapolo.
Il campo in cui si trovava quella mattina scendeva lungo un crinale chiamato Norcombe Hill. Su una sporgenza di questa collina passava la strada tra Emminster e Chalck-Newton. Gettando distrattamente lo sguardo oltre la siepe, Oak vide scendere dal pendio dinanzi a lui un carretto con le sospensioni a molla, dipinto di giallo e decorato con vivacità, tirato da due cavalli e con accanto un carrettiere che procedeva tenendo la frusta perpendicolare. Il veicolo era stracolmo di oggetti domestici e piante da interno, e in cima a tutto sedeva una giovane donna attraente. Gabriel era intento a osservare da non più di mezzo minuto quando il carretto si fermò proprio davanti ai suoi occhi.
«La sponda di dietro è saltata, signorina» disse il carrettiere.
«Be’, ecco cos’era allora» rispose la ragazza con una voce dolce ma non troppo profonda. «Salendo ho sentito un rumore ma non avevo capito cosa fosse.»
«Torno indietro a prenderla.»
«Vai» rispose lei.
I cavalli rimasero consapevolmente immobili mentre i passi del carrettiere si attutivano sempre più con la distanza.
La ragazza sedeva in cima al carico senza fare un movimento, circondata da tavoli e sedie dalle gambe rovesciate, riparata alle spalle da una panca di rovere e adornata sul davanti da vasi di gerani, mirti e cactus, e da un canarino in gabbia, provenienti, con ogni probabilità, dalle finestre della casa che aveva appena lasciato. C’era anche una gatta che dal coperchio semiaperto di un cesto di vimini guardava all’esterno con gli occhi mezzi chiusi, sorvegliando con affettuoso interesse gli uccellini dei paraggi.
La bella giovane attese pigramente al suo posto, e l’unico suono che si percepiva in tutta quella calma era il saltellare su e giù del canarino sui ballatoi della sua prigione. Poi la ragazza guardò attentamente verso il basso. Non l’uccellino e neppure la gatta, bensì un pacco oblungo avvolto nella carta che giaceva tra i due. Si voltò per capire se il carrettiere fosse di ritorno. Poiché non si vedeva ancora, i suoi occhi tornarono al pacchetto, mentre i pensieri sembravano intenti a scrutare quel che c’era dentro. Infine se lo portò sulle ginocchia e lo scartò; dall’involucro emerse un piccolo specchio girevole con cui prese scrupolosamente a contemplarsi. Socchiuse le labbra e sorrise.
Era un bel mattino e il sole illuminava di un bagliore scarlatto la sua giacca cremisi, donando una morbida luminosità al suo viso rosato e ai capelli scuri. I mirti, i gerani e i cactus che le stavano attorno erano verdi e vigorosi, e in questa stagione priva di fogliame conferivano a tutto l’insieme di cavalli, carretto, mobilio e ragazza un fascino tipicamente primaverile. Cosa la spingesse a indulgere in una recita come quella al cospetto delle rondini, dei merli e dell’inosservato fittavolo che costituivano i suoi unici spettatori – se il suo sorriso iniziasse in modo artificiale, così da saggiare le sue doti in quest’arte –, nessuno lo sa. Di certo terminò con un sorriso vero. Arrossì davanti a se stessa e, vedendo arrossire il suo riflesso, arrossì ancora di più.
Cambiare il luogo abituale e l’occasione appropriata di una simile scena — dall’ora della toeletta in camera a quella di un viaggio all’aperto – assegnò a un gesto così ozioso un’originalità che intrinsecamente non possedeva. Era un’immagine delicata. La proverbiale fragilità femminile era uscita alla luce del sole per farsi ammantare di una freschezza primigenia. Per quanto incline alla magnanimità, nell’osservare la scena Gabriel Oak non poté evitare una deduzione cinica. La ragazza non aveva avuto alcun bisogno di guardarsi allo specchio. Non si era aggiustata il cappello né sistemata l’acconciatura né appianata una fossetta né compiuto un gesto qualunque che giustificasse la necessità di prendere lo specchio. Si era esaminata semplicemente come un bel prodotto della Natura di genere femminile, mentre i suoi pensieri vagavano probabilmente verso tragedie lontane e tuttavia plausibili, in cui comparivano d...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Copyright
  4. Introduzione di Sara Antonelli
  5. Bibliografia essenziale
  6. VIA DALLA PAZZA FOLLA