Capitolo sesto
Il grande conduttore
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«Che fai, m’accanni? e io come resto, a chi me rivolgo? … poi dici de me, allora anch’io me chiudo in casa e me drogo perché Elsa sta male, perché le cose nun girano come me pare… così è da vigliacchi, nun vedi che me viene spontaneo de chiamà te, si me succede qualcosa?»
Questo perché gli ho confessato una mia tentazione di suicidio: una delle tante, ipocrite. Ipocrite perché non le provo quando c’è lui. L’unica cosa per cui vale la pena vivere è il suo corpo; gli perdono tutto appena si spoglia. A Elsa hanno tolto dei noduli alle mammelle, se ne va in giro con una fascia elastica che la fa assomigliare a una salsiccia. «Je vojo bene più che a una persona», e ride ricordando quella volta che aveva mangiato una vespa e le si erano gonfiate tutte le guance («pareva un porcospino»), e quando da cucciola leccava la cocaina per terra sicché era sempre fatta – «i cani so’ così, s’adattano a tutto, te vonno bene comunque, nun ciànno rancori… co’ tutto che mi’ padre ’a menava voleva uscì sempre co’ lui, era sempre il suo padrone… poi quando so’o so’ bevuto, in tre giorni s’era scordata… magari domani se scorda pure de me, mannaggia… maledetto me che pe’ queste cose me stranisco subito».
«Vorrei essere lei» m’è scappato, e dopo ho dovuto spiegarglielo, che quando lui salta un appuntamento è come quando promette a Elsa di portarla fuori e non lo fa – che quando invece arriva puntuale, o addirittura in anticipo, il cuore mi batte a mille, entro in agitazione e se avessi la coda scodinzolerei. M’ha fissato come qualcuno che vuole imprimersi in testa un concetto e ha detto «allora capisco cosa provi». È seguito un bacio dolcissimo, e «che ci importa de quel che dicono l’altri?» sussurrato alla mia nuca mentre cercavamo il deodorante da mettere in borsa, e scherzi sul fatto che dimentica sempre più cose a casa mia («chi va con l’alzaymer impara a alzaymerare») e «d’ora in poi te chiamerò Elso», e alla fine m’ha caricato a cavalluccio urlando «dove lo trovo ’n altro vecchietto bello così?». A quel punto che mi poteva fregare se ci sfracellavamo sul Muro Torto, mentre faceva fischiare le ruote («sei l’unico che nun se spaventa a venire in machina co’ me») e sorpassava a destra, e sfidava una bionda ossuta che l’aveva guardato malissimo («sai che bella scopata ce veniva fòri, incazzati tutti e due»), e concludeva con un numero d’inchiodata davanti alle sbarre del parcheggio («oh ma che semo, svizzeri? pure si perdemo tempo, a lo scoccà de’e quattro semo qua»).
In palestra il tramezzo che divide la sala stretching dalla sala pesi è troppo sottile, sicché il peggio non mi è stato risparmiato: «T’ha fatto un assegno? de du’ mijoni?».
«No, mica… (ridendo)»
«Sei un grande, sei ’n esempio pe’ tutti noi, mitico…»
Me l’ero dimenticato, quasi, che prima di uscire m’aveva chiesto un contributo extra di mille euro («poi dài, studiamo un piano de rientro») per tacitare un pusher diventato improvvisamente minaccioso; dunque anche la tenerezza era calcolata? Lì davvero ho desiderato che il mutismo fosse un veleno da inghiottire a poco a poco, e che riuscissi a morire così, con la forza del puro silenzio, come nelle tragedie elisabettiane si uccidono trattenendo il respiro. Mi sono allontanato dalla sala, pedalavo sulla cyclette con una faccia così temporalesca che lui deve essersi reso conto della gaffe; m’è passato davanti due o tre volte, ammiccando scioccamente e senza ricevere risposta; era spaventato davvero, anche il suo amico neo-nazista mi girava al largo. Forse ho commesso l’errore di non andarmene subito, ho accettato lo scambio verbale: «Che ciài?».
«Ridammi l’assegno: passare per farlocco va bene, ma almeno non riderci sopra.»
«Hai capito male, stavamo a dì ’n’artra cosa… ma ’ndo stavi appizzato, oh? era un nostro codice diverso, che nun c’entrava co’ te… dài nun fà così…»
«Sono quello che s’accontenta di poco e che paga, vero?»
«Pagano anche l’altri, nun te credere…»
Ormai la scena madre era sfumata, gli ho lasciato l’assegno e ci siamo salutati a fine esercizi, come sempre; ma sulla Salaria un suo sms: «ti voglio bene, sei un vero amico, forse l’unico che ho, non ti perderei x nulla al mondo – ciao scemo». Forse il testo l’hanno studiato insieme, forse perfino gliel’ha scritto il Gottmituns (Marcello, mi pare, «per» non lo scrive «x»); ma alla sera me n’è arrivato un altro: «Elsa ha avuto delle complicazioni, speriamo bene», come per dire «sei ancora arrabbiato?». E il giorno dopo voleva andare a picchiare la veterinaria, che pure è sua «cugina proprio carnale», perché secondo lui aveva fatto un taglio troppo lungo.
Non è vero, non voglio morire: come gli olandesi strappano la terra al mare, ogni settimana che riesco a strappare al mio dolore è un territorio di scoperta. Sto seguendo le tracce di un rito, azzardando esercizi spirituali intorno ai gesti del sesso che non possiedo; per queste operazioni non ho bisogno dell’esclusività. Marcello tace sul Principe: per bontà forse, per proteggermi; o perché essere carne da macello (sempre l’ultimo anello, quello più passivo, d’una “batteria”) lo umilia, o magari lo colma e lo pacifica («lui è più materialista, oh, si je servo così…»). L’altro giorno a UnoMattina una giovane suora di clausura, parlando delle cascatelle e delle genziane che stanno intorno al suo convento, diceva: «nel non possederle, e nel desiderarle, mi appaiono ancora più belle e ancora di più ne ringrazio Dio».
Se mi basta la forza, Marcello per me potrebbe essere una guida: guida ai misteri del corpo culturistico («sono corpo-dipendente»), prima di tutto – ma anche guida al sottoproletariato delle palestre e al bosco dei fantasmi bisessuali. Col candore e la viltà di chi sta sul fondo dell’inferno e non osa nemmeno intravedere una risalita; tanto che ha scelto l’euforia di considerarsi in paradiso («essere sempre il più bello ’ndo vado me dà un sacco de felicità»).
Il Winstrol e il Testovis lo fanno sentire immediatamente un leone, dopo due o tre ore che se li è iniettati; i pettorali gli si rimodellano non solo per l’acqua trattenuta dalle fibre, ma anche perché ha più grinta nel sollevare i bilancieri e li carica di più. Le punture non sapevo farle, ma la bellezza simbolica dell’ago che entra nei suoi glutei come nel burro era tale che la mano me l’ha guidata un angelo («anche questa oleosa è andata giù in un lampo, che bello, sarai il mio iniettore ufficiale»). Lo shape è quello suo naturale, a X, stile anni Sessanta («Frank Zane era il mio idolo») – una perfezione un po’ inattuale, sottratta al tempo. Ma gli anabolizzanti lo torniscono, gli squadrano i trapezi, gli ispessiscono i dorsali, gli fortificano la mascella: gli brillano di più i denti e gli lampeggiano gli occhi. Il suo corpo non ha mai finito di dire quello che ha da dire. «Me sta a tornà un bel culo… mo’ capisco perché… oh, si me vedrei così da dietro me inculerei da solo»: umiltà, semplicità strazianti, come quando ammette «libero nun me ce sono mai sentito», o quando scherza sulla sua capoccia («uguale alla tua stampante, ce n’era una bacata su un milione e m’è toccata a me»); cosa prova quando bacia e sorride, col vuoto che ha nel cuore? È come un cucciolo che gioca con il guinzaglio stesso che lo tiene legato. Ma è anche il mio laboratorio; è la musica del pifferaio magico e io sono uno dei bambini di Hamelin. Da quando si è depilato sono riemersi i femorali, sui deltoidi e i quadricipiti affossamenti e fasci in direzioni traverse, inaspettate («boh, chennesò, ogni giorno ormai ce n’è de nuovi»). Un corpo di body-builder che si trasforma sotto i miei occhi, era il mio sogno da sempre – la pelle è quasi d’argento perché è diventata più sottile, senza lo straterello di adipe che di solito l’involgarisce. Toccandolo da dietro, sui fianchi, provo un desiderio feroce di possederlo (frugando nella sua borsa ho scoperto che usa un lubrificante antico e popolare, la leocrema); ma al bar della palestra devo imboccarlo io, perché le mani gli tremano tanto che non può avvicinare il cucchiaino alla bocca.
Nella mia ottusità non credevo che anche nelle palestre eleganti le “bombe” fossero così diffuse (come la coca, del resto); c’è un sito brasiliano, www.bombland.netfirm.com, a cui si possono ordinare (gli anabolizzanti in Brasile sono legali); arrivano in confezioni senza indicazione esterna del contenuto. Marcello è uno dei tramiti più conosciuti, vittima e leader allo stesso tempo; si rivolgono a lui perché il suo fisico fa impressione, perché anche gli eterosessuali ne sono oscuramente attratti e perché (grazie a me e al Principe) sanno il mestiere che fa e possono permettersi di disprezzarlo. Eccitante, insomma, e rassicurante allo stesso tempo. Lui in palestra si trasforma, è come un pesce nell’acqua, spontaneo archetipo di mode e di battute («a Marcè, che devo fà pe’ ’ste spalle?», «eh, te conviene fà er trapianto»); siccome ha l’abitudine di toccarsi l’uccello sotto la tuta mentre dà consigli sulle serie da fare, adesso è diventato un tormentone, tutti chiedono «a Marcè, come lo famo st’esercizio?» tenendosi strette le palle. Anche l’«oh yes!» che sbuffa alle ultime ripetizioni, quando il peso sembra non voler salire: ormai ogni angolo della palestra zampilla di «oh yes!» strozzati. Si passano i pacchettini fuori, a Villa Ada, e intanto commentano l’ultimo Mister Olympia («Günther era liscio come ’n ovo, che schifo, ma Ronnie che te lo dico a fà, sembravano tutti anoressici fianco a lui») o come si trattano le donne («se le porti a cena devi steccà», «ah io le faccio pagà a loro, che nun se monteno la testa… e poi subito ’na pompa, visto che l’hanno pagata sa’a meritano», «che fa quella, sta ancora a cioccà?», «cià sentito e se propone pe’ ’na pompa pure lei»). Molti sono impiegati, o agenti di borsa con nostalgie di volgarità; i borgatari sono pochi (anche se sono quelli che fanno più casino), qualche mantenuto e qualche figlio di cravattaro che può permettersi le alte cifre dell’iscrizione. Marcello anche in questo è un buon tramite, essendo piccolo-borghese di origine ma regredito verso la Borgata perché è l’unico luogo da cui non si sente giudicato. È una “sporcatura” sociale che non deve dispiacere nemmeno ai proprietari della palestra, perché dà un appeal, un brivido d’avventura ai clienti ricchi (quelli che in sauna parlano della «tavernetta» nella casa ai Castelli e della «sala di rappresentanza»: ma a chi si dovranno rappresentare, e perché?) – salvo reprimere quando i coatti fanno i coatti, cioè quando urlano e si rincorrono e si gettano l’acqua («li faccia smettere» mi dicono, come se io potessi combattere da solo contro un intero popolo di dodicenni, soprattutto quando sono esagitati perché le iniezioni stanno entrando in circolo). I promoter finanziari e i padri di famiglia con la tavernetta si astraggono, fanno finta di non sentire quando comincia la litania sentimentale dei morti: Simona che l’hanno trovata con uno sbocco di sangue sul cuscino («se stava a preparà pe’ ’e gare grosse, porella»), e Riccardo col morbo di Hodgkin e un altro meraviglioso trentenne con gli occhi legati («ciaveva le stesse ambiguità mie») a cui «Cultura fisica» ha dedicato un necrologio. Tutt’al più li rimproverano stancamente, «siete matti, ma chi ve lo fa fare di rovinarvi la salute»: però godono l’atmosfera spermatica, si specchiano nei loro muscoli e se ne gonfiano per procura.
Loro, i borgatari (tutti rigorosamente di destra e vicini alla Lega, a causa dei miti celtici e per far dispetto a Fini), vanno normalmente con gli uomini per soldi, ne fanno quasi un segno di dignità virile (come m’ha spiegato uno di loro, «per pagarti la roba o te vendi o fai il pappa, io il pappa nun l’ho mai voluto fà e quindi…»). Il discrimine che pongono è quello di essere solo attivi e Marcello oscilla tra la paura d’essere smascherato e la smania di esibire la propria anomalia. Al banale intercalare «chi te se incula?» qualcuno gli risponde «a me nessuno, a te invece parecchi», e lui svia «è da vedé, se a te nessuno». Non ha la prontezza, o la disonestà, di negare apertamente; uno sposato l’altro giorno gli ha chiesto «che sport fai?» e lui «eh, la ballerina classica», al che subito gli altri «nun ce sarebbe da meravijasse». Se gli scappa una scorreggia, c’è immediatamente qualcuno che chiosa «oh, ce l’ha rotto ma je sòna ancora bene». Usa prodotti costosissimi per l’igiene, deodoranti, creme, come le cocotte d’alto bordo, e soprattutto si depila, il che scatena i dialoghi più in bilico: «L’uomo è bello con i peli…».
«A me me chiedono de raderli.»
«Ma che donne conosci?»
«Chi l’ha detto che so’ donne, ahó?»
«A lui, pure le donne so’o vonno inculà.»
«’Ndo stà il problema, io nun ciò sesso…»
Si sporge vertiginosamente, come sempre reggendosi a un collaudato umorismo rischioso ma tenero. Gli altri stanno al gioco, in parte lo giustificano perché sanno che ogni sera ha bisogno di farsi come un cavallo («un cavallo da tiro», «la doccia la faccio prima io, lui la fa doping»), in parte le archiviano come freddure con diritto di privacy; ma il discorso ricade accanitamente su quello, si inerpica sui doppi sensi come se fosse un tasto dolente per tutti: «A me me piace prenderlo largo (il bilanciere)».
«No, a me stretto.»
«A me me p...