Lasciate ogni speranza voi che taggate
eBook - ePub

Lasciate ogni speranza voi che taggate

  1. 252 pagine
  2. Italian
  3. ePUB (disponibile sull'app)
  4. Disponibile su iOS e Android
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Lasciate ogni speranza voi che taggate

Informazioni su questo libro

Francesco è un ragazzo normale, che frequenta le superiori, passa ore e ore incollato allo smartphone e sbava dietro alla bella Martina che gli dà retta solo per scroccare ripetizioni di matematica. Un giorno, dopo una delle solite noiose mattinate passate in classe ad ascoltare il blablabla dei professori, Francesco esce da scuola di corsa, ma perde l'autobus e gli tocca farsela a piedi per tornare a casa. Incamminatosi sulla provinciale, però, smarrisce la diritta via – probabilmente a qualcuno quest'espressione suonerà familiare! – e in men che non si dica si ritrova all'Inferno, ma quello low budget e palesemente copiato da un'opera illustre di secoli fa, etichettato come l'Inferno dei Social Network. Anche qui ci sono il Limbo, i cerchi e i gironi e persino una guida che si chiama Mark Zuckerberg (forse lo conoscete?) e che accompagna il protagonista alla scoperta dei "peggio tipi da social". Ci sono i Lussuriosi, che intasano i loro profili con frasi mielose e baci a ventosa alzando l'indice glicemico di Facebook. Ci sono i Golosi assetati di "mi piace" e disposti a tutto per una briciola di notorietà, i Traditori della patria come gli sgrammaticati che non contemplano nemmeno l'esistenza di un punto o di una virgola, e non mancano i Violenti contro Dio, quelli che "l'ho letto su Internet" ed è subito verità... Un viaggio tra gli utenti dannati che non risparmia nessuno, un cammino catartico che offre un'originale chiave di lettura del mondo dei Social Network e in fondo al quale anche voi scoprirete che "tipo da social" siete!

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Informazioni

Editore
RIZZOLI
Anno
2015
Print ISBN
9788817083171
eBook ISBN
9788858680148

1.

Nel bel quarto del cammin di mia vita mi ritrovai per una selva oscura ché la diritta via forse era smarrita.
Era stata una mattina d’autunno come tante altre, un vero e proprio piccolo preambolo d’inverno. Il cielo non prometteva nulla di buono; nonostante fosse quasi l’una di pomeriggio, la nebbia non si era ancora diradata, l’umidità era altissima. Non pioveva, ma sentivo i vestiti attaccati al corpo come se fossero bagnati. Era la classica giornata da passare a letto, sotto le coperte, a rimpinzarsi di merendine e bere cioccolata calda guardando Game of Thrones, che se non stai attento ti perdi due puntate e alla terza ti ritrovi almeno la metà dei personaggi morti. O magari restarsene sdraiati sul divano, sfogliando le pagine del libro che non ti stancheresti mai di leggere, Kafka sulla spiaggia di Murakami nel mio caso, sebbene conosca ormai a memoria la posizione di ogni singola virgola.
Me ne stavo a fissare il nulla fuori dalla finestra aspettando che la lezione di matematica finisse, ero completamente immerso nei miei pensieri. Ah, la noia delle lezioni di matematica! Non c’è nulla di più bello. Quella noia lì ti dà il tempo di riflettere, di prendere anche delle decisioni: fantastichi sulla tua vita futura, pensi a ciò che diventerai e ai sogni che non potrai mai realizzare. E magari ti vedi su un palco davanti a centomila persone che urlano il tuo nome; oppure a calciare il rigore decisivo alla finale dei mondiali per poi dire in diretta TV: «Questo gol lo dedico a mia madre» (perché si sa, alla fine, la mamma è sempre la mamma); o ancora: vincitore dell’Oscar come miglior attore, con gli occhioni delusi di Leonardo DiCaprio puntati su di te (ancora una volta, infatti, non è riuscito ad aggiudicarselo). “Povero Leo” penserai, ma alla fine chissenefrega, hai vinto tu, è il tuo momento di gloria, non sarà il DiCaprio di turno, l’eterno secondo, a rovinarti la festa.
Tutto perfetto, ovvio, se non ci fosse stata la voce della professoressa Reginoldi, quella di matematica, a contaminare i miei sogni. A scuola la chiamavamo «il tacchino» per via della sua andatura barcollante e la vocina da bambinetta stupida, tutta di gola: roba da far saltare i nervi anche al maestro zen sulla cima del suo monte immerso tra le nubi. Il tacchino aveva la pessima abitudine di spuntare all’improvviso, anche nel mezzo delle lezioni altrui, per pescare qualcuno scampato all’interrogazione ma che lei aveva la necessità impellente di spennare senza pietà. Finché un giorno Mrs Proof, l’insegnante di inglese che, a dispetto del nome e della sua materia, era di origini francesi, le disse chiaro e tondo: «Je non trovo admissible che lei tenga this behaviuor in my classroom». Ne venne fuori un battibecco che ci fece saltare tutta la lezione, e le due continuarono ad azzuffarsi come lontre in calore per tutto il quarto d’ora della ricreazione. Ma questa è un’altra storia… Stavo dicendo che il tacchino rispiega le stesse identiche cose da vent’anni ad alunni che cambiano ma che per lei, sotto sotto, sono tutti simili tra loro. Risultato: in genere mi annoio molto, ma la sua voce ogni tanto mi riporta alla realtà con qualche richiamo tipo: «Francesco, mi stai ascoltando? Fossi in te starei attento alla lezione» o: «Ragazzi, se non mi seguite domani vi faccio una verifica».
Finalmente la campanella suonò, tutti ci risvegliammo dal nostro torpore e riponemmo come automi i libri in cartella, pronti per andare a casa. Mi stavo per alzare quando il cellulare mi vibrò in tasca, era un messaggio, era Martina!
Ciao Francesco! Studiamo insieme oggi? Non ho capito nulla di matematica.
Per Martina avevo una cotta pesante, anche se lei mi trattava come uno zerbino. Tutti i miei amici mi ripetevano quotidianamente di lasciarla perdere e di arrendermi all’idea che mi sfruttasse secondo il suo bisogno. Ma era Martina, e pur di trascorrere un po’ di tempo con lei, ero disposto anche a passare notti insonni a studiare matematica, la tanto odiata matematica, per poi spiegargliela.
Era tanto bella quanto inarrivabile. Frequentava il mio stesso anno, ma nella sezione sperimentale, il che, non si sa per quale legge non scritta e motivo, la rendeva ancora più irraggiungibile da parte di qualsiasi individuo di sesso maschile del corso tradizionale. Per di più, era fidanzata con un certo Andrea: un energumeno tutto muscoli pompato dagli steroidi. Insomma il classico ragazzo per cui provi odio senza nemmeno conoscerlo, con la tipica faccia che ti fa trasudare antipatia da tutti i pori, e per di più di un’ignoranza mostruosa, molto probabilmente l’unico libro letto in vita sua era il manuale su come avere un fisico scolpito e un cervello atrofizzato delle dimensioni di una nocciolina.
Mi ero invaghito di lei appena l’avevo vista entrando a scuola quattro anni fa, ma ero riuscito a parlarci solo da qualche mese, da quando le nostre classi si erano trovate a condividere la palestra per la lezione di educazione fisica. L’esercizio di quel giorno, stupido e sadico come sempre, consisteva nel fare una capriola su un materasso di gomma proprio sotto l’impalcatura della verticale. Martina ridacchiava in un angolo della palestra con una sua amica bella in carne, praticamente un cetaceo spiaggiato. Quando fu il loro turno smisero di ridere, si alzarono e si avviarono. Martina se la cavò bene, capitombolò dall’altra parte del materasso facendo vedere a tutti l’elastico rosa degli slip (seguì un coro cafone di uhhhh da parte di alcuni australopitechi con cui condividevo l’aula). Poi fu il turno dell’amica che avrebbe dovuto anche lei arricciarsi su se stessa e fare la benedetta capriola. Non andò proprio così perché si bloccò di schiena, e nella palestra rimbombò un boato di risate. Qualcuno provò a spingere quella portaerei di culo, ma niente, sembrava un riccio paralizzato. Col mento schiacciato contro il petto, la poverina non ce la faceva nemmeno a urlare, sebbene grugnisse con un certo talento. Poi intervenne Martina che pensò bene di spingerla di lato facendola atterrare sana e salva sul materasso. Irritato da quell’attacco di viltà gratuita, presi le difese della ragazza, e come avevo ben calcolato, la cosa mi fece risaltare agli occhi di Martina. Fu proprio quel giorno che ci rivolgemmo per la prima volta la parola, su un pouf che puzzava di sudore e dio-sa-cos’altro. Parlammo di film, dischi, le raccontai di come avessi sempre desiderato un giradischi, mentre lei mi parlò delle sue ambizioni di diventare stilista. Poi, a un certo punto, come un fulmine a ciel sereno, come una merda che pesti in una tranquilla mattina di domenica, se ne uscì fuori col fatto che era fidanzata. Mi concentrai con tutto me stesso per fare una faccia indifferente, ma non credo di esserci riuscito: avevo la netta sensazione che i tratti del mio viso si stessero sciogliendo come cera liquida dalla delusione.
Certo, per che ora?
Facciamo per le 3?
Casa tua?
Ok perfetto, a dopo.
A dopo.
Quando alzai lo sguardo dallo schermo del telefono l’aula era vuota.
Maledizione, dovevo muovermi o avrei perso il pullman, ancora una volta ero in ritardo.
Buttai tutto nello zaino alla rinfusa, libri, penne, diario, tutto senza alcun ordine logico, lo chiusi e mi misi a correre. Non potevo perdere nuovamente il pullman, non proprio quel giorno, dovevo andare da Martina.
Arrivai alla fermata tutto accaldato… Non sono un amante dell’esercizio fisico, cento metri di corsa e sono più esausto di un maratoneta dopo quei maledetti quarantadue chilometri e rotti che lo separano dal suo dannatissimo traguardo.
Purtroppo la mia previsione si era avverata, la pensilina era vuota, il pullman era passato cinque minuti prima. Osservai la tabella con l’orario dei mezzi pubblici, merda, dovevo aspettare un’ora. Il pullman successivo sarebbe passato alle 14:20 e io non potevo permettermelo: dovevo arrivare a casa, mangiare, farmi una doccia e poi andare da Martina. A piedi, casa mia distava un’ora esatta a passo veloce.
Presi quella decisione che sapevo mi sarebbe costata sudore e fatica. Camminare… era sempre meglio che aspettare. Io odio aspettare, ma non sapevo ancora cosa avrebbe comportato quella scelta. Con il senno di poi, forse, avrei fatto meglio a restarmene dov’ero.
Estrassi le cuffiette dalla tasca dei pantaloni, stranamente non si era formato alcun nodo, le infilai nelle orecchie e selezionai l’ultimo album degli XX che mi aveva consigliato Giorgio. Di solito abbiamo gusti musicali diversi: lui sta sempre a martoriarsi i timpani con un rock che non mi piace, io preferisco atmosfere più rilassanti, tuttavia mi ero fidato del suo giudizio. «Vedrai, lo adorerai» aveva detto. Camminando, non potei fare a meno di notare che la nebbia sembrava essere ancora più fitta: non riuscivo a vedere nemmeno a tre metri da me. “Figo” pensai, sembrava lo scenario di un film horror, il classico momento in cui orde di zombi sarebbero saltate fuori all’improvviso e avrebbero cercato di divorarmi il cervello. Solitamente quella era una strada grigia come tante, un anonimo passaggio asfaltato tra due piccole province, fiancheggiata da palazzine fatiscenti, pensiline devastate e tratti di puro, inconsistente nulla.
Mentre camminavo il cellulare vibrò di nuovo, una notifica: «Giuliana ti ha taggato in una foto». Erano le foto di sabato sera. “Neanche mi ricordavo di averla fatta, è imbarazzantissima, sono uscito davvero male, dovevo chiederle di rimuoverla” mi dissi. Tre persone l’avevano già commentata.
Oddio che facce ahahahahah.
Serata da rifare.
Sìsì, sabato rifacciamo tutto.
“Sempre i soliti, non cambieranno mai” pensai tra me e me sorridendo. Non sono un tipo che frequenta le discoteche, anzi, a dire il vero, le odio. Se per scambiare due parole con un mio simile devo urlare come un ossesso, a questo punto passo il weekend all’ospizio. Comunque, si trattava del compleanno di uno dei miei migliori amici, Stefano, e lui nelle discoteche praticamente ci vive. Il calvario aveva avuto inizio una volta aperto l’armadio: cosa si mette di solito la gente per queste serate? Il capo più alternativo in mio possesso era il vestito elegante di quando era morto mio nonno, e non mi sembrava il caso. Ero arrivato al Boat in ritardo, tutti i miei amici erano già seduti al tavolo e io, rosso come un papavero, avevo subito il supplizio di dover sfilare in mezzo alla pista per raggiungerli. Il Boat è la classica discoteca di provincia che sa un po’ di muffa e un po’ di piscio, dipende dagli angoli. In pista si dimenavano come isterici schizofrenici evasi da una casa di cura diverse varietà di giovani prestanti e neurone muniti (nel senso che ne avevano proprio uno solo, il resto era fieno a balle e versi di cicale). Avevo finito per bere più del dovuto, probabilmente per compensare la mancanza di stimoli, e cinque minuti dopo ero sotto le luci psichedeliche a fare il verso a quella sottospecie di ballerini, con gran gioia del mio pubblico di amici piegati dalle risate.
A quel punto il marciapiede terminò e con esso il filo dei miei pensieri… Dovevo aver sbagliato qualcosa.
«Mmh… Però dovrebbe ricongiungersi con la provinciale e da lì tornare a casa sarà un gioco da ragazzi» mormorai. «Dovrei iniziare seriamente a stare più attento alla strada che al cellulare.»
È incredibile come basti un nulla che sconvolga la nostra quotidianità per farci sentire spaesati, prendere una strada invece di un’altra, in un contesto nel quale siamo nati e cresciuti, per farci perdere. Camminavo ormai da venti minuti, e lo ammetto, non sapevo proprio dov’ero finito, non riconoscevo nulla di quel posto, le case sembravano tutte abbandonate. Di tornare indietro non se ne parlava, avevo camminato fin troppo e da qualche parte alla fine sarei arrivato.
Non mi restava che trovare qualcuno a cui chiedere informazioni, male che fosse andata avrei chiamato i miei e mi sarei fatto venire a prendere, non sarebbero stati molto contenti, dato che quella settimana mi avevano già dovuto portare a scuola ben due volte. Dannata sveglia delle 7:00 che non suona mai, o meglio, che mi dimentico di impostare la sera prima di andare a dormire. Ma come fai a voler esser svegliato da un triste suono elettronico che ti costringe ad abbandonare il tuo amato letto ogni mattina? Quale pazzo lo farebbe mai? A quanto pare tutti, forse il vero pazzo sono io, ma che volete farci, c’est la vie.
E puntuale, quando ti serve qualcosa, questa è simpaticamente introvabile: non vidi un solo passante per oltre quindici minuti, non una macchina, nulla di nulla.
Va bene, era una stradina di provincia che si affollava solo all’uscita dei ragazzi da scuola, ma era comunque una delle arterie che portavano a Milano da luoghi ancora più in provincia.
Quella desolazione era assolutamente strana e inquietante. Più proseguivo il mio cammino, più sembravo andare incontro all’ignoto, perfino le case si erano fatte rade. A pensarci bene, l’unica cosa che aumentava era la nebbia, che culo! Però una cosa potevo dirla: Giorgio aveva proprio ragione, quell’album era una bomba, dovevo ricordarmi di mettere «mi piace» alla pagina degli XX, era da tempo che non ascoltavo qualcosa di così ben fatto. E bravo Giorgio!
Il telefono vibrò nuovamente e io ebbi un fremito, era solo – si fa per dire – Martina:
Scusami, mi sono dimenticata che oggi devo vedere Andrea, ti va bene se rimandiamo a domani? Scusami ancora.
Ecco, puntualmente i miei amici avevano ragione, ancora una volta ero stato illuso e poi messo da parte.
Non ti preoccupare Martina, sarà per la prossima volta.
Inviai.
Avevo ormai perso il conto delle volte in cui le avevo già inoltrato questo messaggio. Anzi, a pensarci bene, avrei dovuto salvarmelo nei preimpostati, tanto ero sicuro che mi sarebbe tornato ancora utile, purtroppo.
Messaggio non inviato, controllare il messaggio e riprovare.
Ci mancava anche questa. Riprovai.
Messaggio non inviato, controllare il messaggio e riprovare.
Ma che succede? Guardai meglio e mi accorsi che non c’era né il 3G attivo né tantomeno un segnale di campo.
«Merda, e ora che faccio?» dissi. Non sapevo dove fossi, non c’era possibilità di chiamare i miei né mandargli un messaggio, senza segnale non avevo neppure internet e non potevo scrivere a qualcuno su Facebook o su WhatsApp, un wi-fi libero neanche a parlarne, ero nel bel mezzo del nulla, era pura utopia anche pensare di trovarne uno. Probabilmente al concorso «sfigato dell’anno» sarei arrivato secondo, tanto ero sfigato.
Fissai lo schermo e percepii chiaramente un senso di panico crescere dentro di me. Mi imposi di essere razionale, per una volta.
Lo sguardo mi cadde sull’orario, erano le 14:20, a quell’ora il pullman stava passando, se avessi aspettato alla fermata, tra qualche istante sarei stato al caldo e in venti minuti a casa.
Ma no, incamminiamoci nel mezzo di Silent Hill con un cellulare che manco se avesse visto la Guerra civile spagnola sarebbe stato messo così male, e chissenefrega se verrò brutalmente assassinato in questo pallido angolo di mondo. Che trovata geniale avviarmi da solo invece di aspettare… Quasi quanto quella di Ulisse di non sacrificare nulla a Poseidone per placare la sua collera, scelta ch...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. Capitolo 1
  4. Capitolo 2
  5. Capitolo 3
  6. Capitolo 4
  7. Capitolo 5
  8. Capitolo 6
  9. Capitolo 7
  10. Capitolo 8
  11. Capitolo 9
  12. Capitolo 10
  13. Capitolo 11
  14. Capitolo 12
  15. Capitolo 13
  16. Capitolo 14
  17. Capitolo 15
  18. Capitolo 16
  19. Capitolo 17
  20. Capitolo 18
  21. Capitolo 19
  22. Indice