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1992
All’inizio degli anni Novanta, Alberta Torino portava i capelli con la frangia, aveva una madre rassicurante, un padre passabilmente presente, ed era una che assai di rado si preoccupava dell’opinione degli altri.
Un giorno di marzo del 1992 scese dal tram di buon mattino, mentre le case di Milano stavano riprendendosi i loro colori. La vista della Torre Velasca, con i contrafforti in cemento che a metà del suo slancio al cielo ne raddoppiavano la mole, la fece sorridere. La trovava bella, provocatoria. Perché le vie, i muri che non mutano, che ripercorri uguali giorno dopo giorno, sono come amici silenziosi, e se la torre fosse stata una persona, di certo avrebbe avuto un carattere forte e deciso, perfino indisponente, come piaceva a lei. S’incamminò per via Larga, oltrepassò i manifesti colorati del teatro Lirico e si diresse verso l’università. La strada era piena di gente e di aspettative. Nello sferragliare frequente dei tram, nei maestosi palazzi accomodati ai due lati della via, la città raccontava la sua storia. Alberta era certa che non fossero ancora le otto, ma dal vecchio orologio impalato sul marciapiede si accorse che erano già passate da venti minuti. Be’, mica colpa sua. Era la madre che si ostinava a svegliarla con il caffè e lei non lo sopportava, glielo aveva detto mille volte, così finiva sempre che litigavano e si perdeva tempo.
«Scusa sai, principessa, se ti ho fatto un gesto carino…»
«Non lo voglio, mamma. Non-Lo-Voglio. Lo capisci che a me il caffè appena sveglia fa schifo? Quante volte devo dirtelo?»
Adesso le spiaceva averle urlato dietro. Succedeva sempre così, dopo. Si pentiva sinceramente, anche se non lo avrebbe mai ammesso con nessuno. «E poi lo sa che al mattino ce l’ho col mondo intero…»
Di sicuro ormai in segreteria c’era la coda. Già avrebbe pagato oro pur di non doverci andare, che a lei tutte quelle menate burocratiche la facevano sentire deficiente. Finché era una matricola le aveva delegate ai genitori, ma ora mica poteva mandarci loro, in università, per il piano di studi e palle varie! Oddio, mamma capace pure che ci andava a fare la fila al posto suo, e papà si sarebbe anche messo lì con lei a capire come modificare per l’ennesima volta quel dannato piano, quali erano i corsi che conveniva scegliere e quali no, ma poi di sicuro si sarebbero sentiti in diritto di intromettersi e dispensare consigli.
No, adesso lei era adulta e dovevano stare fuori dalla sua vita. Non riusciva a comprendere perché di tanto in tanto ce l’avesse così con i suoi, in fin dei conti non erano stati dei cattivi genitori, anzi. Fino alla prima liceo per Albi era impensabile staccarsi dalla sua famiglia anche per un solo giorno, specie da sua madre, infatti quando aveva cominciato le medie e lei aveva rinunciato a fare la maestra per seguirla più da vicino, ne era stata felice.
Crescendo però era andata via via convincendosi che fosse stata una stupidata e che la mamma l’avesse fatto solo per tenerla d’occhio, perché non si fidava di lei. Vero o no che perfino adesso che aveva ventitré anni ogni volta che usciva le toccava sempre raccontarle la rava e la fava? E poi che senso aveva che una donna rinunciasse al proprio lavoro per occuparsi dei figli? Mentalità preistorica, tipica di sua madre! Papà era sostanzialmente un uomo buono, non ammetteva che si buttassero i soldi, questo sicuro – con gli operai che non ce la fanno ad arrivare alla fine del mese, ci mancherebbe, – ma non le aveva mai fatto mancare nulla, quel che è da dire è da dire.
Il padre di Alberta faceva il medico della mutua, aveva un fisico grande e grosso e un carattere apparentemente spigoloso, ma era un professionista capace e disponibile e la sua sala d’attesa era sempre gremita di persone che ne dicevano un gran bene.
Era cresciuto in una cascina nell’entroterra del lago di Garda, figlio di due contadini in là con gli anni, che erano mancati presto. I genitori di Alberta avevano tra loro un legame solido e imprescindibile, entrambi adoravano la figlia ma non ne erano mai stati succubi, così da un po’ le buttavano lì che con l’università se la stava prendendo un po’ troppo comoda. Lei sapeva bene che avevano ragione, ma trovava sempre mille scuse, soprattutto con se stessa.
Però non poteva negare che la sua fosse stata un’infanzia felice. I momenti più belli erano quelli legati alla Festa dell’Unità di Desenzano, resi mitici nei suoi ricordi bambini. Prima, dopo, durante, quella era solo La Festa. I suoi genitori ci andavano già da prima che Alberta nascesse, e di certo, da che lei ne conservava memoria, non avevano mai saltato un anno, adeguando ferie e portafoglio al calendario dell’evento. Così Alberta ricordava la settimana trascorsa in una bella pensione in riva al lago, ma anche quell’altra in campeggio, che a lei era parsa ancora più emozionante. Non era un fatto politico, non solo, era una tradizione, una rimpatriata annuale tra vecchi amici. Era la musica, era il ballo, la cena all’aperto, intere famiglie tutte insieme intorno ai lunghi tavoloni, erano le lampadine colorate, i cigni di plastica da prendere all’amo. Era l’atmosfera della festa, e basta.
Il padre di Alberta, che non era mai stato un chiacchierone, in quelle occasioni diventava ciarliero, e sua moglie Clara era tutta un abbraccio continuo. Spruzzava la figlia di Autan per via delle zanzare che ti mangiavano vivo e la lasciava scorrazzare libera “che tanto se ti perdi c’è sempre qualche compagno che ti riporta”. Scorpacciate di salamelle, costine e polenta a più non posso, e poi tutti a ballare il valzer e la mazurka. Ballavano i giovanotti con le ragazze, ballavano i bambini e anche le donne mature, che ballavano tra di loro – un-due-tre, serissime.
Si raccontava di morti e di corna e si parlava del nuovo segretario della sezione e del figlio della Gina che s’era fatto abbastanza grande da servire ai tavoli, e tutto era un pretesto per stare insieme e ridere. La Festa era la favola ricamata durante l’anno appena trascorso, e senza non poteva neppure iniziare l’estate.
Ma momenti di spensieratezza in famiglia ce n’erano stati tanti, come quando il padre andava a prendere Albi a scuola, alle elementari: «Scusi signorina ma lei chi è?».
«Dài, papino…»
«Oh sei tu, mi pareva di aver sbagliato bambina…» E giù a ridere.
Durante la settimana Clara aiutava sempre la figlia a fare i compiti e giocava alle Barbie con lei, poi la domenica cucinava il bollito, metteva da parte un pezzo di gallina e glielo tagliuzzava con l’olio e il limone. Dopo mangiato arrivava la signora Nicolosi, che era stata collega della madre e aveva due figlie più o meno della stessa età di Alberta, anche se a lei ne stava simpatica solo una, Elena, mentre Marina no “perché frignava sempre”.
Allora Clara diceva: «Papà, cosa ne dici di portare le bambine all’Arti?», oppure: «E se vi faceste un giretto alle Varesine?». E scatenava salti e urla, dato che il primo era un cinema dove si proiettavano esclusivamente film per bambini e il secondo era un luna park permanente in zona stazione Centrale.
«Promesso che fate le buone?» recitava il dottor Aldo, mentre le mamme già pregustavano il loro paio d’ore fra amiche e andavano a prendere i cappotti delle bimbe.
«Sììì» rispondevano Alberta e le altre due in coro, e allora lui diceva: «E va bene, per questa volta…» con l’aria di uno che ci è costretto, ma tanto si capiva benissimo che gli faceva piacere.
Così Alberta era cresciuta con Robin Hood, Cenerentola e la carica dei centouno, tra seggiolini che volano, attenta a prendere bene la mira al banco dei palloncini.
Poi, quasi improvvisamente, era cambiato tutto.
Ora Alberta non sopportava più quello starle addosso, la normalità della loro vita, mai qualcosa di diverso, di un po’ speciale. I suoi erano persone ordinarie, in un mondo dove tutti gli oggi erano uguali ai mille ieri e non riusciva più a lasciargliene passare una. Detestava le solite discussioni, soprattutto l’incoerenza di sua madre: «Quest’anno non la prendo la tessera, vedrai, glielo faccio vedere io. Ho detto che quest’anno non la prendo e non la prendo!».
E suo padre a convincerla che comunque la tessera del partito bisognava rinnovarla, che con i tempi che correvano non si poteva evitare, magari più avanti, in un altro momento… Così finiva che poi mamma la faceva sempre. E ogni volta, le lamentele: «Non è possibile che mettano in lista uno del genere, sappiamo tutti chi è! Non è possibile turarsi sempre il naso per il partito! In malora l’etica della responsabilità!». Infine, puntualmente, votava il nome indicato. Perché allora non se ne stava zitta?
Alberta scese di corsa dal marciapiede per attraversare la strada. Una macchina inchiodò, il conducente le gridò: «Idiota!» e lei gli mostrò il dito medio, tanto perché si deve, ma non ci fece granché caso: rimuginava sull’ennesima discussione con i suoi, sbucando in via Festa del Perdono in quel giorno di vento, con un cielo limpido straniero a Milano. Era infagottata nel solito giaccone militare e in un grande scialle di lana nero, girato intorno al collo, che le arrivava giù, oltre la vita. Quando infilò la stradina che sbucava vicino all’università, Lisa non era che una delle tante persone che facevano capannello all’ingresso. Eppure Alberta la notò.
Stava ferma davanti al portone, con il manico di una piccola borsa a bauletto di traverso sul braccio sinistro, un libro e dei fogli nell’altra mano. Indossava un tailleur di maglia chiaro, con la gonna corta, e un paio di stivali lunghi, la massa di capelli scurissimi ordinata in un taglio sapiente.
Albi aveva l’impressione di averla già incrociata, ma sarà questo il primo ricordo di Lisa che si fisserà nella sua mente, per sempre.
Mano a mano che le si avvicinava, lo sguardo della donna la seguiva, con sua grande sorpresa. Come mai la stava aspettando? In fin dei conti non si conoscevano.
Non ne sapeva neanche il nome, che era Annalisa – «ma tutti mi chiamano Lisa» – e tantomeno il cognome, che era Papa. Quando la donna le chiese con un sorriso impreciso se per favore poteva parlarle un attimo, le fu subito chiaro che era una persona particolare. Cioè, al di là del modo ridicolo in cui vestiva.
Le ragazze e i pochi maschi che frequentavano la facoltà – Lettere moderne era considerato un corso di laurea da donne – ostentavano normalmente grande sicurezza. Si sedevano sui muretti dei chiostri a piccoli gruppi, per fumare, discutere e ridacchiare, e avevano sempre un conto in sospeso con qualcuno. Erano, chi più chi meno, tutte fresche di liceo, vestivano in blocco la divisa della loro generazione, jeans, maglioni larghi, sciarpe colorate, tutte convinte di essere alternative.
Lisa era certamente una che usciva dal coro. Intanto si capiva che era più vecchia, viaggiava ben oltre la trentina, i suoi abiti erano di un gusto ricercato, palesemente fuori tempo e fuori contesto. Aveva piccole tette e un fisico asciutto, tanto che molte ragazze più giovani avrebbero volentieri fatto cambio con il suo corpo tonico; e se non fosse stata sempre così elegante e posata, si sarebbe potuta confondere con una delle tante studentesse fuoricorso, coetanee di Alberta. Anche il viso era particolare, non bellissimo, eppure gli occhi scuri, obliqui, con le sopracciglia che ne seguivano il verso, la mandibola squadrata, il naso piccolo e perfetto, la bocca grande e imperfetta le davano un’aria assai più che intrigante. E poi non si mostrava mai senza un filo di trucco attento. In generale era una persona attraente, che sarebbe potuta piacere molto agli uomini se solo ne fosse stata consapevole.
Insomma, Lisa si notava per forza: sembrava una signora un po’ snob e senza problemi. Questo finché non si muoveva: le sue espressioni e i suoi gesti, infatti, tradivano insicurezza, erano goffi e stentati.
Alberta, al contrario, era molto sicura della sua bellezza castana e delicata, probabilmente più del dovuto, e anche per questo aveva un sacco di innamorati che tirava per il naso. Quello di turno si chiamava Andrea.
«Sono due settimane che non riesco a venire a lezione» disse la “signora”: «Sai, è stata male mia figlia… puoi passarmi gli appunti di letteratura due? Poi giovedì te li rendo.» Quando sorrideva le si formavano due buchini sulle guance.
Che avesse una figlia sorprese Alberta più del fatto che sapesse che lei non perdeva mai una lezione di letteratura, e che prendeva appunti (ai frequentanti toglievano una parte del programma d’esame e, stavolta, se non lo passava sarebbero stati dolori). «Adesso come sta?» chiese.
Da parte sua, Lisa si stupì non poco che la ragazza le domandasse della figlia, tanto da sostenere, a distanza di anni, di aver capito in quel preciso momento che non sarebbe passata indifferente nella sua vita.
Col tempo Alberta sarebbe venuta a sapere che di figli Lisa ne aveva avuti due.
E che aveva un marito di merda.
2
Alberta andava e veniva dall’appartamento dei suoi in zona Sempione, che ormai considerava qualcosa a metà tra un rifugio e l’inferno. Magari inferno era un po’ esagerato, diciamo purgatorio. E pensare che lì c’era sempre stata bene, con la foto di Giovanni XXIII in cucina vicino a quella di Enrico Berlinguer (dall’anno prima s’era aggiunta accanto pure la foto dei genitori scattata quando era nato il Pidiesse, che quel giorno a Rimini c’erano anche loro due, con sua madre che piangeva perché non ci poteva credere che il PCI non esistesse più). Ma ora quella casa non la sentiva più sua, come non erano suoi i pensieri dei genitori, le abitudini, le giornate anonime, così normali, così prevedibili. Amarli li amava, questo era fuori discussione, ma era per impulso naturale, non per scelta, perché le sue scelte erano altre e venivano da un altro istinto, da un’area di libertà che la faceva sentire diversa, spesso contro, in un flusso d’ironica avversione per regole e canoni in generale.
Ribelle no. Alberta non era così altruista né così preparata da avere in testa rivoluzioni senza ritorno. La sua era più un’ispirata tendenza a dire no e una meravigliosa testardaggine che non le permetteva di cambiare idea neppure davanti all’evidenza, come a voler dimostrare al mondo intero di appartenere solo a se stessa. Non aveva ancora sei anni quando traslocarono, ma fu lei a decidere che il suo letto andava messo vicino a quella parete e non contro quell’altra, dove l’aveva sistemato sua madre. Quando per la terza mattina di seguito Clara la trovò addormentata sul pavimento, esattamente dove lei voleva il letto, fu costretta a spostarlo.
Le era sempre venuto tutto molto naturale finora – la scuola, le uscite con gli amici, il collettivo – ma adesso tenere il ritmo universitario avrebbe richiesto una disciplina che non le apparteneva.
E infatti quella mattina non ce l’aveva fatta a sedersi alla cattedra. Tra l’altro l’esame di Estetica non faceva neppure particolarmente paura, il professore era un pezzo di pane, gli rifilavi quattro palle e via. Ma proprio quella mattina lui non c’era, c’erano solo tre assistenti carogna che, siccome hanno pochi anni più di te, fanno gli stronzi per farti vedere chi comanda. Albi, sentendo le compagne interrogate prima di lei, aveva capito che rischiava di fare una figuraccia. E questo a lei non poteva accadere.
Davanti alla porta di casa sua (che non sentiva più casa sua), mentre infilava le chiavi nella toppa, le risalì dallo stomaco l’avvertimento di un disagio di cui non conosceva l’origine. La signora Galbiati, in tutti i suoi cento chili, superati gli ultimi gradini prima del pianerottolo che erano costrette a condividere, le passò accanto ansimante.
Posò la borsa della spesa con aria affranta, quasi da moribonda. Da dentro il suo appartamento arrivava un miagolio.
«Eccomi, eccomi», e intanto si dava da fare per aprire. Appena si fu allargata una fessura saltò fuori il suo orribile gatto color ruggine, testimone del grado di bruttezza raggiungibile dopo infiniti improbabili incroci. Come la signora Galbiati. Lei prese ad amoreggiare con lui neanche fosse un bambino.
«E Piciu Piciu, come stai? Hai visto che la mamma è tornata? E sì, e bravo lui, e vieni qui, e ti sono mancata? E quanto bene vuoi alla mamma?…»
Alberta, con le chiavi in mano, si mise a fissarla.
«Te ghe minga de fa nient’alter?» latrò la vecchia. «Via, via, turna a cà, stronzetta.»
Probabilmente in un’altra situazione Albi l’avrebbe chiusa lì, ma in quel momento, nervosa com’era, decise che la scortesia di quella vecchia sciatta doveva tornarle indietro.
«Lascia che ti distrai un momento, e te lo prendo io quel gatto schifoso. Non per fargli male, te lo porto solo in vacanza a venti chilometri da qui.» Poi entrò tutta fiera, sbattendo la porta.
«Si sente che sei tornata» urlò sua madre dall’altra stanza, ma lei non salutò nessuno e andò dritta in camera sua, buttando a terra lo zaino. Cominciò a spogliarsi. Rimase in slip e reggiseno e aprì l’anta dell’armadio che nascondeva lo specchio.
Le piaceva guardarsi, rafforzava il suo senso di sicurezza. Le piaceva il proprio corpo, anche le sottili gambe da bimba. Si soffermò sugli occhi. Anche quelli amava, e quella sera li usò come un passaggio per guardarsi dentro e per convincersi che lei era sempre la stessa. Con la certezza cucita addosso che, se tra realtà e sogno non c’è incontro, è la realtà a sbagliare.
«Come Colombo, non si avvistavano le ...