Storia dell'economia
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Storia dell'economia

  1. 334 pagine
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Storia dell'economia

Informazioni su questo libro

Dal ruolo della schiavitù nell'antica Grecia al "comunismo" di Platone; dall'organizzazione feudale alla rivoluzione industriale; da Karl Marx alla Grande Depressione degli anni Trenta, fino allo sviluppo del mercato globalizzato nel secondo Novecento: in questo testo John K. Galbraith dimostra con sorprendente chiarezza che non si può comprendere il funzionamento dell'economia contemporanea senza conoscerne la storia, perché le teorie e le scelte economiche sono sempre un prodotto dei tempi e dei luoghi in cui nasc ono e si sviluppano. Accompagnando il lettore attraverso curiosi aneddoti e la lucida analisi di grandi temi - dalla distribuzione del reddito alla disoccupazione -, l'autore porta alla luce l'intreccio ineliminabile che lega questioni economiche, politiche e sociali. E spiega che l'economia non può essere socialmente neutra: ha sempre il potere di determinare, nel bene e nel male, la vita di una nazione e dei suoi cittadini.

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Informazioni

Editore
BUR
Anno
2015
Print ISBN
9788817061803
eBook ISBN
9788858679814
Argomento
Business

VIII

LA GRANDE TRADIZIONE CLASSICA (1)

Attorno ai margini

Nel corso dei settantacinque anni che seguirono la morte di David Ricardo, la scienza economica subì una trasformazione particolarmente importante. Cessò di essere oggetto di contemplazione e di discussione da parte di persone altrimenti occupate e divenne una professione. Fecero la loro comparsa uomini (praticamente non c’era nessuna donna) che si guadagnavano da vivere come economisti e che per lungo tempo si chiamarono economisti politici. L’innovazione si mescolò all’esposizione, all’insegnamento e al consiglio politico. Ci furono ora illustri economisti politici che dicevano ben poco di nuovo, ma dicevano meglio che non in passato quello che già si pensava. Oppure lo dicevano con una maggiore coerenza interna o in modo più persuasivo. E non mancarono altri che dovettero la considerazione di cui godettero al fatto di dire con maggior eloquenza e insistenza quello che gli uomini influenti volevano (e amavano) sentir dire. Per tutto il XIX secolo la Gran Bretagna fu la prima potenza economica mondiale. E, analogamente, la scienza economica fu, in larga misura, una disciplina britannica. Ancora una volta ritroviamo qui l’associazione già rilevata tra pensiero economico e vita economica. E malgrado la professionalizzazione della scienza economica e il notevolissimo estendersi della discussione, quanto alla sostanza fu più ciò che rimase uguale di ciò che mutò. Nella loro più profonda essenza, le idee — o, ora possiamo dirlo, il sistema — di Smith, Ricardo e Malthus non vennero seriamente messe in discussione. Questa fu in economia la tradizione classica: un’espressione che pare sia stata usata per la prima volta da Marx.1 Nella sua forma successiva, più perfezionata e sofisticata, sarebbe stata chiamata il sistema neoclassico: una denominazione che sopravvive per descrivere gran parte della scienza economica attuale, ma che non rispecchia alcun mutamento dottrinale sostanziale.
La discussione che si svolse nel periodo post-ricardiano può esser divisa in tre grandi categorie. La prima comprende un certo dissenso a livello di sistema dovuto in buona parte a studiosi tedeschi, francesi e americani. Nei loro paesi, le condizioni economiche, gli orientamenti filosofici e l’osservazione personale smentivano, o sembravano smentire, le grandi verità che emanavano dalla scena economica britannica. Secondariamente, e specialmente in Gran Bretagna, ci fu in quegli anni uno sforzo costante, e in alcuni casi fantasioso, per trovare una giustificazione sociale e morale per il sistema classico e per la straordinaria diversificazione dei redditi e delle gratificazioni che esso accordava ai suoi partecipanti. In terzo e ultimo luogo, si ebbero modifiche e perfezionamenti nella teoria dei prezzi e della distribuzione, ossia di come si formano i prezzi, i salari, l’interesse, le rendite e i profitti. Questi sviluppi trasformarono le formulazioni deduttive, e talvolta ambigue, dei fondatori in un tutto organico, intellettualmente completo e internamente coerente; qualcosa che era possibile (come pure fu per la prima volta mostrato in quegli anni) esprimere in linguaggio matematico.
Accanto alle tre correnti che abbiamo menzionato troviamo, nei decenni centrali del XIX secolo, la rivolta, e in particolare l’energico e penetrante dissenso di Karl Marx. Come abbiamo visto nel capitolo precedente, anche questo dissenso aveva le sue radici nella tradizione classica: nella teoria ricardiana del valore fondato sul lavoro, nella nozione di un plusvalore di cui il capitalista si appropriava indebitamente e nell’argomento decisivo che i proventi delle merci prodotte spettavano per intero al lavoratore. Tutti coloro che ogni sera rendono grazie ai fondatori della tradizione classica economica, in quanto essa spiega e giustifica la loro buona fortuna, rendono al tempo stesso involontariamente omaggio anche agli autori delle idee che potrebbero servire a espropriarli.
Esamineremo ora l’influente critica rivolta ai padri fondatori del sistema classico dagli economisti tedeschi, francesi e americani, e la convinzione, implicita quando non esplicita, di questi ultimi che il sistema classico fosse stato forse troppo opportunamente britannico. Nel prossimo capitolo esamineremo la tradizione classica all’apogeo del capitalismo. Passeremo quindi alle idee specificamente elaborate per perfezionare e difendere il sistema, e infine al possente attacco mosso dal dissenso di Karl Marx.
Nei primi anni del XIX secolo, la Germania era ancora un mosaico di principati politicamente disordinato ed economicamente arretrato. Ogni Stato imponeva dazi doganali ai prodotti che provenivano dagli altri stati; ciascuno era egoisticamente sensibile al proprio interesse angustamente inteso; ciascuno rispecchiava in maggiore o minore misura la personalità (e non di rado le bizzarrie) del suo sovrano. Da questo terreno poco promettente venne una replica sorprendentemente netta ad Adam Smith e, indirettamente, a Ricardo e a Malthus. Benché non mancassero precedenti che risalivano ai greci, ebbe allora inizio un dibattito tuttora estremamente vitale, la cui retorica è parte integrante dell’oratoria elettorale americana e britannica.
La posizione di Smith e di Ricardo esigeva in maniera specifica e indispensabile che lo Stato esistesse per l’individuo. Oggi i più si domanderebbero perplessi per chi altri dovrebbe esistere. Ma la risposta dei tedeschi all’inizio del XIX secolo fu che l’individuo esiste per lo Stato. È lo Stato che gli accorda protezione e la possibilità di condurre una vita civile. Attraverso l’arco breve, incerto, spesso disordinato della vita umana individuale, lo Stato è il solido ponte che unisce il passato al futuro. Considerate le caratteristiche dei principati tedeschi dell’epoca e la loro minima capacità di bene operare, non è del tutto chiaro perché si riconoscesse allo Stato questo ruolo superiore. Il pensiero filosofico tedesco e i suoi orientamenti ebbero in ciò quasi certamente la loro influenza. Ma, come sempre, le idee economiche erano adattate alla situazione che esisteva concretamente. Lo Stato era in Germania onnipresente e i prìncipi non accoglievano con piacere il minimo ridimensionamento delle sue prerogative. Gli studiosi si comportarono di conseguenza.
Le due voci più importanti nella risposta tedesca ai classicisti britannici furono Adam Müller (1779-1829) e l’assai più autorevole Georg Friedrich List (1789-1846). Müller, di dieci anni più anziano di List, s’identifica (diversamente da List) con quello che fu definito il movimento romantico tedesco. Dopo essere stato dimenticato per un secolo (un oblio secondo alcuni non del tutto immeritato), è stato riportato alla luce negli anni Venti e Trenta del nostro secolo in quanto (perlomeno in una certa misura) precoce profeta del nazionalsocialismo. Müller fu un conservatore e un difensore dell’interesse terriero e feudale. La sua tesi, continuamente ripetuta, è che lo Stato «non è semplicemente un fondamentale bisogno dell’uomo; è il supremo bisogno dell’uomo».2 Nel 1945, mentre le armate sovietiche dilagavano oltre l’Oder puntando verso Berlino, Adolf Hitler fu informato dello spaventoso numero di giovani soldati tedeschi caduti nell’inutile tentativo di arrestare l’avanzata nemica. Ebbene, il suo commento — un’eco remota di Adam Müller — fu: «A che cos’altro servono i giovani?».
Ma, a qualsiasi costo, bisogna essere giusti. Nel XIX secolo i seguaci di Smith e dell’economia smithiana che si recavano in Germania vi trovavano un grande rispetto e una grande fiducia nello Stato. Ciò rifletteva il maggior prestigio di cui godeva la burocrazia tedesca di ogni grado e, probabilmente, anche la sua maggiore competenza. La potenza economica della Germania di allora (una potenza che dura ancor oggi) proveniva d’altro lato in parte dal fatto che il paese ignorava il dibattito sui ruoli propri e impropri del governo: un dibattito che era noioso, produceva divisioni ed era di intralcio al progresso. In Germania, come anche in Giappone, era così aperta la strada per discussioni e azioni tempestive e intelligentemente pragmatiche. Questo fu, in parte, il lascito di Müller. C’era dell’altro, ma non è sopravvissuto.
Il secondo critico tedesco del mondo di Adam Smith fu Friedrich List, un personaggio di tutt’altra influenza, sia ai suoi tempi sia in epoca successiva. All’inizio invocò politiche commerciali liberali tra gli stati tedeschi, contribuendo alla creazione di una zona di libero scambio per tutta la Germania (che si sarebbe trasformata infine nello Zollverein). Ma, così facendo, egli si attirò quell’ostilità irrimediabile che così spesso colpisce coloro che — anche su questioni del tutto scontate — sono in anticipo sui loro tempi. La sua eresia costò a List la prigione; una punizione che in epoca successiva qualcuno augurò a chi si opponeva a misure protezionistiche di cui c’era molto bisogno.
Dopo essere stato scarcerato, List fu costretto a riparare in Svizzera, in Francia, in Inghilterra e infine negli Stati Uniti. Divenne direttore di un giornale a Reading (Pennsylvania), fu un appassionato sostenitore dell’opera di costruzione di canali, allora in pieno boom, e prestò estrema attenzione alle idee di Alexander Hamilton sulla necessità di incoraggiare lo sviluppo economico nazionale e sui mezzi da usare; a quelle di Henry Clay sul sistema americano; e a quelle di Henry Carey, il critico americano di Ricardo, di cui parleremo in seguito. Divenne inoltre cittadino statunitense. Quindi, nel 1831, ritornò in Germania con il bagaglio d’idee che si era formato in America. Fu questa la prima manifestazione dell’influenza americana sul pensiero economico europeo.
Tornato a casa dopo aver riacquistato la propria rispettabilità, List sostenne l’opportunità di tariffe doganali a favore dello Zollverein nel suo insieme: si adoperò insomma per ottenere per quella regione più vasta quella protezione che aveva avversato per gli stati più piccoli che la componevano. Inaugurando quella che sarebbe divenuta un’importante tradizione nel pensiero economico tedesco, nella sua opera Das nationale System der politischen Ökonomie,3 List dipinse la vita economica non come una struttura statica, ma come un processo ininterrotto che attraversa successivi stadi di sviluppo: uno stadio primitivo o selvaggio, uno stadio pastorale, uno stadio agricolo e familiare, con una combinazione, nella sua fase matura, di attività agricole, manifatturiere e commerciali. Pensava che lo Stato avesse un ruolo indispensabile nel facilitare il movimento dalle prime alle ultime tappe e al conclusivo equilibrio tra agricoltura, industria e commercio: un obiettivo che, a suo giudizio, Adam Smith non aveva correttamente individuato e perseguito.
Troviamo qui, in forma elementare, gli inizi di un altro dibattito che riveste la massima importanza in epoca moderna. L’economia è una disciplina statica? Gli economisti, di conseguenza, cercano — e trovano — verità eterne, come, poniamo, i chimici o i fisici? Oppure le istituzioni di cui l’economia si occupa sono in un costante processo di trasformazione al quale la disciplina, e più specificatamente le politiche che essa raccomanda, devono parallelamente e ininterrottamente adattarsi? Friedrich List fu un precoce profeta di questa concezione; una concezione che non è stata priva d’influenza nel presente volume.
Nella versione di List, uno strumento fondamentale nell’adattamento al cambiamento era la tariffa protettiva. Il suo ruolo differiva grandemente nei diversi specifici stadi dello sviluppo. Essa non giovava a un paese nello stadio iniziale o primitivo e non era necessaria a un paese nello stadio finale. Era invece essenziale per un paese in possesso delle necessarie risorse naturali e umane nella fase in cui muoveva verso il suo sviluppo finale, specialmente se vi arrivava in ritardo rispetto a un altro paese o ad altri paesi. Il libero scambio andava bene per il primo arrivato, dove, come in Gran Bretagna, rappresentava indubbiamente un mezzo attraente per mantenere i ritardatari nei loro stadi di sviluppo anteriori.
Abbiamo qui l’argomento più forte, più duraturo e anche il più inconfutabile contro Adam Smith e i suoi seguaci e il loro principio del libero scambio: essi non affermavano una verità universale ma, più semplicemente, facevano valere ciò che nel caso speciale della Gran Bretagna rappresentava un indiscutibile vantaggio.
In quegli stessi anni e ancora per molti anni a venire, la posizione assunta da List trovò un rilevante parallelo, anche se in buona parte indipendente, negli Stati Uniti, dove il libero scambio veniva considerato come qualcosa che era principalmente un mezzo di difesa dell’originario e tuttora unico vantaggio dell’industria costituita britannica. Nella terminologia americana, la tesi protezionistica di List divenne l’argomento delle industrie nascenti: il libero scambio era forse giusto in linea di principio, ma era necessario che ci fosse una legittima eccezione per le tariffe destinate a proteggere e sostenere lo sviluppo di industrie giovani e vulnerabili. Nessun dibattito nella scienza economica si sarebbe rivelato così tenace come quello che oppone coloro che, concependo il libero scambio come una branca della teologia, non ammettono trasgressioni di nessun genere e coloro che, comprendendo le esigenze delle giovani imprese che lottano contro le vecchie, sono disposti a concedere una (limitata) assoluzione. Andò a finire che in tutti gli aspiranti paesi industriali l’eccezione venne ammessa: la protezione tariffaria fu concessa quasi dovunque alle industrie che si trovavano nello stadio dell’infanzia e dell’adolescenza, o comunque erano nuove. Molti continuavano a celebrare le verità di Adam Smith, ma in tutti i paesi che s’incamminavano sulla via dell’industrializzazione queste verità venivano adattate a circostanze regolarmente giudicate «speciali».
Se tornasse oggi negli Stati Uniti, Friedrich List potrebbe osservare con interesse le manifestazioni attuali della sua tesi protezionistica. Il processo evolutivo da lui descritto non terminava — come pensava — con il raggiungimento da parte di un’industria e di un’agricoltura mature di una condizione di equilibrio che rendeva superflue le tariffe doganali. Nei paesi più maturi interviene a questo punto un processo di invecchiamento che genera pressioni per ottenere una protezione contro gli ultimi (e più vigorosi) arrivati sulla scena industriale. Si pensi all’attuale richiesta — negli Stati Uniti, in Gran Bretagna e in diversi paesi europei — di proteggere l’industria siderurgica, quella tessile, quella automobilistica, quella elettronica e altre ancora dalla superiore competenza di Giappone, Corea, Taiwan e degli altri paesi di recente industrializzazione. La vecchia eccezione delle industrie nascenti è diventata l’eccezione delle industrie vecchie o decrepite. Secondo l’accorta terminologia moderna, questo non si chiama protezionismo, ma politica industriale.
La risposta tedesca a Smith e ai suoi seguaci difende lo Stato ora in modo romantico, ora, come nel caso di Smith, con una chiara visione del suo ruolo funzionale. In Francia, dove lo Stato aveva lasciato un cattivo ricordo di sé sia prima sia dopo la Rivoluzione, non si registra nessuna tentazione del genere. Come abbiamo visto, Jean-Baptiste Say, il più influente degli studiosi francesi, adottò e riadattò Smith; divenne insomma, tra le altre cose, la sua voce francese. In Francia la tendenza dei critici di Smith — una tendenza niente affatto estranea alla storia intellettuale francese — fu quella di guardare al sistema economico delineato e caldeggiato in Wealth of Nations, e che all’inizio del XIX secolo mostrava ormai la sua realtà, inclusi i suoi molto visibili effetti sociali, e di chiedersi quale fosse il suo valore e il suo senso. Era davvero quello che uomini e donne volevano o dovevano volere? È sempre stato l’orgoglio e il merito dei francesi il fatto di saper gustare la qualità della vita e di non confonderla troppo facilmente con la quantità, compresa quella dei beni. Non sorprende che le prime domande circa i benefici dell’industrializzazione siano state poste in Francia.
Il più...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. I. Uno sguardo al paesaggio
  4. II. Dopo adamo
  5. III. Il lungo intervallo
  6. IV. I mercanti e lo stato
  7. V. IL «Tableau économique»
  8. VI. Il nuovo mondo di adam smith
  9. VII. Perfezionamento, affermazione... e i semi della rivolta
  10. VIII. La grande tradizione classica (1)
  11. IX. La grande tradizione classica (2)
  12. X. La grande tradizione classica (3)
  13. XI. Il grande assalto
  14. XII. La distinta personalità della moneta
  15. XIII. Preoccupazioni americane
  16. XIV. Completamento e critiche
  17. XV. La forza primordiale della grande depressione
  18. XVI. La nascita dello stato assistenziale
  19. XVII. John maynard keynes
  20. XVIII. Affermazione con l’aiuto di marte
  21. XIX. Meriggio
  22. XX.Crepuscolo e vespro
  23. XXI. Il presente come futuro (1)
  24. XXII. Il presente come futuro (2)
  25. Sommario