Si avvicinò allo specchio con una camminata incerta, un piede dopo l’altro traballante sui tacchi a spillo.
Se si potesse andare a scuola così, ti farei saltare sulla sedia, pensò sorridendo. E se magari ci sapessi anche camminare su questi cosi…
Scrutò la sua immagine riflessa: aveva un viso regolare, gli occhi grandi e castani risaltavano sulla pelle chiara e qualche ciocca di capelli rossi, raccolti in una coda alta al centro della testa, le scendeva lungo le guance fino a toccare il collo e le sottili vene azzurre. Poi il suo sguardo andò al seno, sodo come quello delle ragazze della sua età. Non si era ancora abituata a quel corpo che cambiava sotto i suoi occhi. Non era più una bambina, stava diventando una donna.
Mosse ancora qualche passo, e cercò di guardarsi come fosse un’estranea. Aveva il fisico da ballerina di danza classica, le gambe affusolate, elastiche. Avrebbe voluto solo essere un po’ più alta, anche solo di cinque centimetri, giusto per poter dire di arrivare a un metro e settanta.
Mentre faceva una giravolta su se stessa, chiusa in qualche palcoscenico immaginario, la porta si aprì di scatto.
Una risata echeggiò per la stanza. Appoggiata allo stipite, sua sorella Sara la stava fissando indicandola con il dito. «Cosa ci fai conciata così? Sembri una pazza!»
Sara era la versione di Alice più vecchia di cinque anni. Avevano gli stessi capelli rossi e la pelle chiara costellata di efelidi leggere. Indossava una tuta da lavoro sporca di vecchie macchie d’olio motore e vernice e la studiava con occhi vispi.
Le guance di Alice presero fuoco. «Stavo… stavo facendo delle prove per la festa di fine anno.»
«Lo sai che i tacchi non sono ammessi. E poi dove li hai presi? Se ti vedesse la mamma…» la rimproverò.
«Da quando sei diventata un soldato dell’Autorità?» la interruppe, infastidita, Alice.
«Cazzo, ormai hai sedici anni e ti comporti come una bambina.» Il tono di voce adesso era più alto. «Lo sai o no che siamo sotto dittatura? E tu cosa fai? Ti preoccupi di come ti vestirai alla festa di fine anno. Mentre mamma e papà sono già al lavoro da due ore, e io sono schiava dell’officina, tu pensi alla festa. Complimenti!»
«Ma…» sibilò lei, le guance ancora più rosse e gli occhi che si riempivano di lacrime. Scoppiò a piangere: «Smettila di prendertela con me se la tua vita fa schifo. Smettila!».
«Devi svegliarti, Alice. Mentre tu fai le prove davanti allo specchio, il mondo là fuori va a rotoli.» Sara si voltò e uscì sbattendo la porta.
Alice si tolse le scarpe e le lanciò all’altro lato della stanza. Tu non sai che giorno è oggi, stronza.
Le uniche a saperlo erano Agnese e Lucia, le sue migliori amiche. La sera prima, al telefono fino a tardi, avevano messo a punto ogni dettaglio del piano e poi non era più riuscita a dormire.
Si sarebbe seduta vicino a lui sull’autobus, poi, con finta disinvoltura, avrebbe iniziato a parlargli e alla fine gli avrebbe chiesto di accompagnarla alla festa. Non poteva più aspettare, era da mesi che ogni mattina il cuore faceva un balzo quando lo vedeva. Doveva essere suo, questa volta era determinata.
Aveva deciso di dire addio alla vecchia Alice, la ragazzina timida e introversa, e diventare come le altre. A scuola tutte avevano già dato il primo bacio, e molte fatto l’amore. Sotto la divisa blu nascondevano completini intimi da urlo e non appena la campanella suonava correvano in bagno a mettersi l’eyeliner e il lucidalabbra.
Lei non era diversa, anzi, era più bella di molte sue compagne. Questa volta non si sarebbe tirata indietro. Aveva capito che la sua timidezza non l’avrebbe portata da nessuna parte. La nuova Alice si preparava a rinascere dalle ceneri di quell’altra. Ce la posso fare… s’incoraggiò da sola.
Con un sospiro si sciolse la coda e lasciò che i capelli le ricadessero sulle spalle. A scuola era ammessa solo una treccia, fermata con un laccio in tinta con la divisa.
Si sfilò anche il vestitino nero e, sbuffando, afferrò la divisa abbandonata sulla sedia.
Poi prese il cotone e lo struccante e con la mano che tremava per la rabbia iniziò a togliersi il phard dalle guance e il rossetto dalle labbra morbide. Una goccia di mascara le era colata lungo il viso: cancellò anche quella.
La sua faccia, adesso, era di nuovo quella pulita di una sedicenne.
Se non mi muovo, arriverò in ritardo e mi beccherò una segnalazione. E tutto questo solo per lui.
Dopo tre segnalazioni da parte dei professori si passava direttamente alle punizioni corporali. Il frustino era una ruvida bacchetta telescopica che a ogni stoccata segava la pelle e sfibrava la carne. Le mani di Alice, piene di cicatrici, lo sapevano bene.
Oh merda… l’interrogazione di Cultura Generale!
Si precipitò al portatile sulla scrivania e lo accese. Era da diverse settimane che non veniva scelta per un’interrogazione di Cultura Generale e quel giorno il rischio di essere chiamata era piuttosto alto. Corrugando le sopracciglia, si fermò in piedi davanti al computer, ad ascoltare il servizio della Rete. Fissava lo schermo senza ricordare una parola, distratta.
Iniziò a girovagare per la stanza, tentando di concentrarsi.
«… in strada ancora si svolgono le celebrazioni per il quinquennio di governo dell’Autorità Provvisoria al Risanamento. Si festeggiano i coraggiosi soldati che nel 2020 hanno dato vita all’Autorità Provvisoria, risollevando l’Italia dalla crisi. Stasera alle 21.00 il Presidente terrà un discorso nel suo palazzo di Città 06.»
Spense il portatile. Non ce la faceva. Era ridicolo. Il Presidente era il portavoce dell’“Autorità Provvisoria a Tempo Indeterminato”, come la chiamava sua sorella Sara. Era l’uomo di facciata dalla parlantina sciolta e il sorriso accattivante. Nessuno aveva mai visto i membri dell’Autorità Provvisoria, i fantomatici salvatori dello Stato. Aveva chiesto ai suoi genitori, agli adulti, fatto ricerche, ma non si capiva quanti erano, né se fossero giovani, anziani, uomini, donne…
Con un brontolio allo stomaco, Alice si diresse verso la porta. Appena la aprì, si scontrò con un soffice ammasso di pelo che scodinzolando la guardava con occhi imploranti.
«Lo so, Olmo, hai fame. Come al solito la mamma non ti ha dato da mangiare. Ora ci penso io, vieni qui.»
I genitori di Alice e Sara erano entrambi a lavoro. I turni iniziavano presto e finivano tardi.
Il cane la seguì abbaiando per la gioia. Adorava Alice, erano cresciuti insieme, e lei non se ne prendeva cura.
Aveva un nome bizzarro: l’olmo era l’albero preferito di suo padre, che da sempre amava fare lunghe camminate in campagna, studiando la vegetazione intorno a sé. Era stata una strategia della mamma di Alice, consapevole che il marito non avrebbe mai voluto un cucciolo che sporcava e mordeva ogni cosa.
E visto che le sue argomentazioni sul fatto di avere una villetta con giardino non erano bastate a convincerlo, la donna aveva deciso di passare all’azione e un giorno era entrata in casa con un batuffolo dal pelo bianco e nero, annunciando con un sorriso: «Lui è Olmo, non ti sembra un nome perfetto, amore?». Di fronte alla moglie e ai gridolini eccitati delle bambine, l’uomo non aveva trovato il coraggio di dire di no. Da quel momento erano iniziate lunghe domeniche in compagnia del cane, con Olmo che si accucciava sul tappeto di fianco ad Alice mentre lei allungava le manine per accarezzarlo.
Alice scese le scale in fondo al corridoio, e si diresse in cucina. In dispensa avevano terminato il latte e il caffè, rimanevano solo dei biscotti secchi. Ne prese un paio, ne diede altri tre al cane, che li divorò soddisfatto, e tornò al piano di sopra facendo le scale a due a due.
«Sara!» gridò. «Io vado.»
Nessuna risposta.
Mentre si avvicinava alla stanza della sorella, sentiva il rumore dei tasti del portatile già dal corridoio. Sulla porta esitò, la mano sulla maniglia. Una voce in sottofondo riempiva il silenzio. «In diretta dal Covo Centrale dei Rivoltosi…»
Non imparerà mai, pensò Alice di nuovo infuriata. Che si arrangi!
Tornò in camera sua, afferrò lo zaino e uscì.
Fuori il cielo estivo era privo di nuvole e il caldo scioglieva l’asfalto. All’angolo della strada il giovane soldato di pattuglia le rivolse l’abituale cenno di saluto. Alice cercò di rispondere con naturalezza, pur sapendo che proprio a casa sua una dissidente era in azione. Odiava Sara, il suo atteggiamento arrogante da “sono la sorella maggiore e so tutto io”, l’incoscienza egoista con cui si muoveva, incurante di chi le stesse vicino.
Non c’era bisogno di ascoltare il canale della Resistenza per capire la situazione. Bastava il coprifuoco delle dieci, i soldati armati di mitra seduti al bar, la luce che saltava almeno una volta al giorno, le facce impietrite dei passanti quando un blindato nero, senza scritte o sirene sul tetto, si fermava davanti a una casa, sfondava la porta e trascinava via un’intera famiglia. Gli Scomparsi. Le segnalazioni a scuola, le punizioni corporali, i Centri Rieducativi, le torture, l’Esecuzione. Frasi che non si potevano dire ad alta voce, pensieri censurati.
Si sentì chiamare dal fondo della strada. Alla fermata dello scuolabus che dal paesino in cui abitava portava agli Istituti di Città 051 trovò Agnese e Lucia. Il litigio con Sara fu spazzato via pensando a quello che la aspettava: il momento della svolta era in arrivo.
Un gruppetto di ragazzi stava aspettando “il giallo”, il malandato e inquinante pullman color canarino. Tutti tenevano lo sguardo fisso sui tablet scolastici e in silenzio ripassavano i riassunti di Cultura Generale, in faccia il broncio da primo giorno del quadrimestre di prigionia estiva.
Alice si avvicinò alle amiche con aria funerea. In preda all’ansia da prestazione pensò di mollare l’impresa.
«Sei pronta?» le chiese Lucia. «Hai la faccia di una che non ha chiuso occhio.»
Agnese le diede una gomitata. «Andrà bene. Lo stiamo progettando da troppo tempo perché vada male. Fidati.»
«Non ce la faccio. Non so nemmeno come si chiama!» Era sempre più agitata.
«Certo che ce la fai» disse Lucia. «Ti siedi al suo fianco e dici ciao, poi il resto viene da sé.»
«E se non c’è posto?»
«Aspetti che si liberi.»
«E se non si libera?»
«Il giallo arriva sempre mezzo vuoto» la interruppe Agnese, che aveva seguito la discussione in silenzio, perdendo via via la pazienza. «Si riempie quando saliamo noi. Basta che andiamo su per prime e il controllo badge bloccherà quelli dietro di noi. Andrà bene, ti saremo vicine.»
«Ma non attaccate, o si sentirà accerchiato.» Alice avvampò. Si stava preoccupando per una cosa inutile, visto che il ragazzo non le avrebbe nemmeno rivolto la parola.
«Andrà bene» ripeté Lucia, captando i suoi pensieri.
«C’è il giallo» disse Agnese, e nessuna delle tre parlò più.
Lo scuolabus arrivò alla fermata e si abbassò sulle gomme come un animale sfinito. La porta anteriore scivolò di lato con uno scricchiolio e il soldato di turno al check-in scese con passo pesante la scaletta. Alice consegnò il badge e l’uomo lo appoggiò sul lettore a contatto che portava nella cintura. Poteva già vedere il bellissimo ragazzo seduto al solito posto, appoggiato al finestrino sul lato opposto all’entrata. Le piaceva da quasi un anno. Ci fu il bip di convalida del tesserino e il soldato le ordinò di avanzare.
Il sangue che prima le aveva arrossato le guance defluì verso i piedi, rendendoli pesanti. Entrò guardando in basso, i gradini, poi l’autista e i passeggeri delle prime file, ma alla fine non poté che sollevare il viso. Lui era lì, terza fila dal fondo. Per un istante i loro sguardi s’incrociarono e le gambe le diventarono di burro.
Bip, Lucia salì e la spinse avanti. Alice fece un paio di passi incerti e Agnese le diede un’altra spinta, una mano sulla schiena. Allora Alice raddrizzò le spalle, sfoderò il suo sorriso migliore e gli si sedette di fianco. Lui la guardò incuriosito.
«Ciao» disse Alice, scoprendo di non balbettare.
Con un brusco scossone il giallo chiuse le porte e partì. Il ragazzo si tolse gli auricolari dalle orecchie. La musica ronzava elettrica nell’aria. «Hai detto qualcosa?»
Alice si sentì morire. «Ciao» ripeté, più debole.
Il ragazzo inarcò un sopracciglio, con un sorriso provocatorio, e Alice non riuscì più a tenere a freno la lingua.
«Prendiamo il giallo tutte le mattine io e le mie amiche e ci sei sempre anche tu così pensavamo che visto che siamo tutti di qua e non siamo in molti» disse d’un fiato, «sarebbe carino fare amicizia. Ecco. Credo.»
Stupida che non sei altro, pensò. Aveva formulato una frase da imbecille, molto al di sotto delle sue potenzialità.
«Io sono Alice» mormorò.
«Andrea» rispose il ragazzo, porgendole la mano. «A quale casermone sei diretta? L’Istituto numero 10, vero?»
Alice s’immobilizzò, come colpita da una secchiata d’acqua gelata.
“Casermone” era un termine tabù. D’istinto controllò dove fosse il soldato. Era seduto di fianco all’autista, abbastanza lontano. Se li avesse sentiti, sarebbe toccata a entrambi una segnalazione. Ma c’erano anche quelli che preferivano passare all’azione. Era già capitato che qualcuno si prendesse una manganellata soltanto perché indossava una divisa sgualcita.
In quel momento l’importante era che Andrea fosse lì, al suo fianco, e aveva notato che lei scendeva all’Istituto numero 10.
Con il batticuore gli strinse la mano.
Era bellissimo. Sul viso abbronzato risplendeva un sorriso mozzafiato, un neo all’angolo del labbro superiore. Gli Istituti imponevano ai ragazzi un taglio a spazzola molto corto, e solo osservandolo da vicino Alice capì che i suoi capelli erano d...