
- 266 pagine
- Italian
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eBook - ePub
Corpo morto
Informazioni su questo libro
È l'inizio dell'autunno, a Positano, e l'incantevole borgo della Costiera amalfitana sembra finalmente respirare dopo l'intensa stagione estiva. Il vicecommissario Zottìa pensava di trascorrere una vacanza tranquilla, ma l'incanto del luogo viene sconvolto dal ritrovamento di un uomo accoltellato alla gola, nascosto dentro una barca. Ed è solo la prima vittima. Mentre la polizia del posto brancola nel buio, Zottìa inizia a indagare, scoprendo una fitta rete di vendette e sospetti, il cui senso si fa via via più elusivo. Uno dei più amati protagonisti della letteratura gialla italiana in un'indagine esemplare, tracciata dalla penna raffinata ed esperta di Marco Polillo.
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Informazioni
Print ISBN
9788817067867eBook ISBN
97888586704771° giorno
Lunedì, 3 ottobre
1
Legata da una spessa e corta corda alla boa in mezzo alla baia, in una posizione facilmente raggiungibile, la barca dondolava leggermente al ritmico sbattere delle onde. L’imbarcazione era piccola, di quelle che venivano noleggiate dai bagnanti che volevano togliersi lo sfizio di una nuotata al largo, lontani dalla folla. Non c’era motore, anche se una volta c’era stato di sicuro, le tacche dove un tempo si trovava il suo alloggiamento erano molto evidenti. La fiancata, dipinta di verde scuro, lasciava intravedere ampi squarci di scrostature nella vernice, e anche il nome si leggeva a malapena, Rosa di Capri.
Il barcaiolo che era andato a riprendere una coppia di turisti inglesi che si stava sbracciando da tempo per farsi riportare a riva da un’altra barca ormeggiata lì vicino, si era accorto, passandole accanto, che c’era qualcosa che non andava nel nodo che la teneva legata al corpo morto. E così, dopo aver accompagnato gli inglesi, era tornato, aveva sistemato meglio la gomena e aveva dato un’occhiata distratta all’interno dello scafo. Aveva raccolto una lattina di birra che qualche cliente aveva abbandonato, poi se n’era andato lasciandola a dondolare pigramente sull’acqua. Non pensava che sarebbe stata più noleggiata quel giorno; la stagione, a dispetto del tempo ancora estivo, volgeva ormai alla fine e pochi erano quelli che si avventuravano in mare.
La barca rimase sola; i remi, liberi dagli scalmi, giacevano sul fondo in compagnia di una monetina da cinque centesimi dimenticata da qualcuno e che, fosse o meno un augurio di buona fortuna, lì sarebbe rimasta, ignorata da tutti, almeno fino a quando la barca non sarebbe stata esaminata da cima a fondo, scrutata, controllata, passata al setaccio nella speranza di trovare chissà quale indizio. Ma tutto questo doveva ancora accadere; per ora l’unico diversivo nel tranquillo beccheggio della Rosa di Capri era il cambio di direzione del vento o le ondate dell’aliscafo che prestava servizio da Positano ad Amalfi. Un’onda più forte e la prua si dirigeva verso il mare aperto, un’onda più leggera e tornava a guardare verso la costa.
A volte di qua, a volte di là, ma per il momento tutto era calmo.
Il delitto poteva attendere.
2
La mazzetta di giornali sotto il braccio, il mento sporgente, il volto accigliato, Aureliano Severi, l’editore Aureliano Severi, si dirigeva a passo svelto verso la spiaggia.
La moglie, Maria Carla, era stata da tempo seminata. Si era attardata chissà dove – in qualche negozio, probabilmente – per acquistare un regalo per il nipotino: un costume da bagno, una maglietta, dei sandaletti… Futili incombenze per Aureliano Severi: aveva altro a cui pensare, lui. Al suo fianco, distanziata di pochi passi, trotterellava impavida una cagnolina bianca e beige, uno splendido esemplare di jack russell, l’unico essere vivente – umano e non – del tutto indifferente ai balzani umori del suo padrone. Meg Ryan, questo era il nome del cane, omaggio all’interpretazione che l’attrice aveva fatto di una libraia in un film di successo (ma in realtà tributo a una passione inconfessata), era l’invidia del dottor Francesco Festina, direttore editoriale, in realtà assistente tuttofare, della Severiana Edizioni del dottor Severi. Ed era proprio con Festina che stava tuonando l’editore, l’auricolare del telefonino infilato in una delle gigantesche orecchie.
«Non ci credo! E se ci credessi non m’importerebbe un accidenti! Santomenini vuole andare da Mondadori? Che ci vada, se lo prendano pure, tanto come autore è finito. Fi-ni-to! Già tanto se riesce a vendere duemila copie.»
Quello dello scippo da parte delle grandi case editrici era uno dei crucci, forse il maggiore, di Severi. Oh sì! Quante volte l’autore – quello con la “a” minuscola – arrivava da lui implorante, un vero signor nessuno armato solo di un dattiloscritto e di tanta speranza, e lui, Aureliano, plasmava, ricomponeva, costruiva, ricreava, modellava e poi… poi quando si apprestava a ricavare i frutti di tanta fatica, ecco che quello stesso autore se ne andava, tradendolo per un piatto di milionarie lenticchie.
Ma a dispetto degli occasionali tradimenti, la reputazione di Severi rimaneva intatta. Era stato lui a lanciare sul mercato gli ultimi nuovi autori di successo, costruendosi la fama di infallibile scopritore di talenti. Era stato lui a imporre, dopo la deprecata moda dei “cannibali” quella dei “pattinatori” («Le loro frasi scivolano sulla pagina come lame affilate su una lastra di ghiaccio»: così aveva arditamente scritto un critico letterario e lui si era immediatamente impossessato della metafora inventando la definizione di “pattinatori”), e la fama veniva alimentata da capricci, ire, accuse e critiche alla critica e stranezze come quella che si ripeteva ormai da qualche anno: andare in vacanza proprio nel periodo in cui si svolgeva la Fiera del libro di Francoforte, la più importante manifestazione mondiale di editoria. («Una vanitosa inutilità»: così l’aveva bollata Severi.)
«Santomenini!» sbottò nell’assoluta indifferenza di Meg Ryan. «Ho ben presente il suo nuovo romanzo. Una vera schifezza! Vada, vada pure da Mondadori, vedremo cosa sapranno fare, come lo lanceranno. Giovanniandrea Santomenini, un nome così lungo che non riusciranno nemmeno a scriverlo tutto sulla copertina.»
Interruppe la conversazione e si strappò con rabbia l’auricolare.
Dieci minuti e numerosi borbottii più tardi era ancora al telefono, un viso sereno, lo sguardo adorante. «Caro, caro Giovanniandrea» stava dicendo, «ho appena finito di leggere il tuo nuovo romanzo. Cosa posso dirti? Mi sono commosso. Un capolavoro. Un vero capolavoro.»
«Ciao Auri.» Maria Carla, la moglie, si era appena seduta sul lettino di fianco a quello del marito. Tolse da una busta un minuscolo costume da bagno e glielo mostrò. «Non è un amore?» domandò ricevendone in risposta uno sguardo di fuoco. «Chi è l’autore di tanta meraviglia?» chiese quando l’altro ebbe terminato la telefonata.
«Santomenini» bofonchiò Aureliano.
«Santomenini? Davvero il suo nuovo libro è un capolavoro?» Non se lo sarebbe mai aspettato.
«E che ne so io? Mica l’ho letto.»
3
«Perché vedete dottore…»
Era da tempo che Enea Zottìa non stava più a sentire. Era arrivato da Milano con un volo Air One che era atterrato, in leggero ritardo, a fine mattina e all’aeroporto di Napoli aveva trovato ad aspettarlo un cartello con un gigantesco DR. ZOTTÌA, scritto con un pennarello rosso, che veniva tenuto in alto sopra la testa da un giovane bruno dall’aria sorridente e dalla barba lunga di almeno tre giorni. Quando Zottìa si era presentato, il giovane gli aveva dato una vigorosa stretta di mano e, sempre sorridendo, gli aveva detto: «Mi chiamo Tanino, dottore. Per di là». Si era impossessato della valigia ed era partito, deciso, in direzione dell’uscita.
Nell’ora e mezza di viaggio che li avrebbe portati fino a Positano, Zottìa avrebbe avuto modo di appurare numerose cose: innanzi tutto le qualità dell’automobile sulla quale si trovava, una Mercedes nuova di zecca con l’interno che odorava ancora di plastica; poi la vita e i miracoli di Tanino, autista d’estate e carpentiere durante il resto dell’anno, il cui unico merito era quello di essere un cugino acquisito di Andrea Cacciopieri – a casa del quale si stava recando Zottìa – e infine tutto quello che era successo in paese durante l’estate: nascite, incidenti, morti e matrimoni compresi.
L’unico momento di tranquillità l’aveva avuto quando aveva chiesto a Tanino di fermarsi a un bar lungo la strada perché il suo stomaco cominciava a reclamare per la mancanza di cibo.
«Le posso offrire qualcosa?» gli aveva domandato, ma Tanino aveva declinato l’invito: «Sapete, è meglio non allontanarsi…» e aveva lanciato uno sguardo allusivo all’automobile scintillante.
Il toast che si era fatto fare era una vera schifezza, ma, per una volta, Zottìa non aveva avuto nulla da obiettare. Era in vacanza, se Dio voleva: una settimana, otto giorni per la precisione, da solo, senza la moglie che non era voluta venire ed era rimasta a Milano, e quei giorni li voleva assaporare fino all’ultimo secondo.
Enza, la moglie, aveva passato la sera precedente a saltellargli intorno mentre lui preparava la valigia. Gli portava qualcosa, gli suggeriva qualche indumento, lo ammoniva a non dimenticarsi di coprirsi con qualcosa di pesante, incurante dei borbottii del marito e sempre con quell’aria da cane bastonato che era ormai diventata una costante del suo atteggiamento e con la quale cercava di farsi perdonare il suo ostinato rifiuto a seguirlo.
«Sei sicura di non voler venire?» aveva insistito lui a più riprese in quei giorni, ogni volta che il senso di colpa che cercava di cacciare in fondo alla sua coscienza emergeva in superficie. «Ti farebbe bene.»
Tutto inutile, per fortuna; c’era sempre pronta una scusa diversa, l’ultima era stata il gatto. A chi lo avrebbero potuto lasciare? Al vicino, aveva suggerito lui. Ma se l’ultima volta si era dimenticato di dargli da mangiare per due giorni interi!
«Siamo arrivati, dottore.»
Zottìa si riscosse dai suoi pensieri e si guardò intorno; la macchina si era fermata in una minuscola piazzetta sulla quale si affacciavano tre o quattro negozi, e dove passeggiava (oziava?) un gran numero di persone. Scese dall’auto e incrociò lo sguardo di una vecchia signora che, appoggiata a un bastone, lo stava fissando. La vecchia gli sorrise. Zottìa si voltò per vedere se il sorriso era rivolto a qualcun altro e quando tornò a osservare la vecchia vide che il sorriso si era allargato. La donna puntò il bastone nella direzione del vicecommissario e gli strizzò l’occhio; poi, camminando a fatica, si allontanò.
«Dottore, venite.» Era Tanino, la valigia già stretta nella presa vigorosa della mano. «Vi accompagno.» E si era incamminato.
«Certo, certo» aveva borbottato Zottìa, quindi aveva inspirato profondamente una lunga boccata d’aria vagamente salmastra. “In vacanza” pensò. “Finalmente.”
4
«Le donne, caro notaio, bisogna conoscerle…» La mano corse leggera in aria, disegnando uno svolazzo che terminò bruscamente sulla spalla del notaio Vattuone, trattenendolo.
«Le donne…?» ripeté questi, cercando nel contempo di avanzare di qualche passo.
La domanda era destinata a rimanere senza risposta, ma per la verità bisogna dire che il notaio Vattuone non è che fosse particolarmente ansioso di conoscere l’opinione del dottor Gambardella, vecchio medico condotto del paese che, nonostante avesse da tempo superato l’età della pensione, continuava ugualmente a esercitare.
Quello che lui più di tutto desiderava era cercare di raggiungere il giornalaio, comprare qualcosa da leggere e poi andarsene a bere un caffè all’Incanto, il bar della spiaggia. Purtroppo il suo cammino si era interrotto all’inizio del budello che portava al mare: l’incontro con il medico – o meglio il blocco da parte del medico – aveva rallentato la sua tabella di marcia e l’innata timidezza di Vattuone gli aveva impedito di trovare il modo di liberarsi di quell’importuno. In quel curioso balletto nel quale uno frenava e l’altro cercava di accelerare, e ogni spostamento causato dall’incontro con altri passanti era una buona occasione per entrambi per guadagnare qualche decimetro, Vattuone si era guardato intorno cercando disperatamente un aiuto.
Niente. Il panorama gli offriva soltanto perfetti sconosciuti.
Stava per fare un nuovo tentativo di smuovere il recalcitrante Gambardella – che peraltro non aveva ancora incominciato a esprimere il suo illuminato parere sulle donne – quando una figura familiare si materializzò improvvisamente davanti a lui: il vicecommissario Zottìa.
Che ci faceva a Positano?
5
La cosa in sé era un po’ una seccatura, ma per fare contenta la moglie Teresa, Andrea Cacciopieri non aveva protestato più di tanto. Non che avesse qualcosa contro il vicecommissario, per carità, ma era l’idea di avere un ospite – e che ospite! – in casa per una settimana che non gli garbava molto. Un ospite significava doveri, programmi, orari ben precisi, tutte cose che non facevano parte del suo modo di essere in vacanza. Le cene con gli amici decise all’ultimo minuto, le partite a carte che finivano a tarda ora, o il piacere delle lunghe e oziose chiacchierate, così, per il solo gusto di passare il tempo magari fino alle tre del mattino, avrebbero dovuto essere bandite: che figura ci avrebbe fatto, che cosa avrebbe pensato di lui il vicecommissario Zottìa?
In realtà, quando Teresa gli aveva ventilato l’idea, Andrea aveva fatto quello che faceva sempre quando la moglie gli proponeva qualcosa che a lui non piaceva: aveva nicchiato. Ma probabilmente il suo fascino era diminuito con il passar degli anni e se una volta il suo nicchiare dava quasi sempre ottimi risultati, ora serviva solo a mandare in bestia la moglie. E così…
Si accese una sigaretta e si appoggiò alla ringhiera del balcone, aspettando pigramente di vedere la sagoma di Tanino comparire dalla curva della strada. Vide passare l’autobus che percorreva su e giù ininterrottamente il paese, vide un paio di villeggianti che arrivavano ogni anno in quel periodo e che conosceva di vista, vide il proprietario di una boutique che si dirigeva verso il suo negozio. Erano troppi anni, ormai, che passava le sue vacanze, o meglio ogni momento libero, in quel paese: nemmeno i sassi avevano più segreti per lui. Forse era davvero tempo di cambiare. Avrebbe dovuto parlarne a Teresa, sentire quello che ne pensava, chissà. Ma ecco Tanino che avanzava, leggermente ingobbito per il peso della valigia, seguito a breve distanza da un uomo di media statura, dai folti capelli neri e dai grossi baffi che si guardava intorno. “Abito grigio, cravatta scura” considerò Andrea gettando in strada il mozzicone della sigaretta, “non può che essere lui.
Giacca e cravatta, cominciamo bene.”
6
Accarezzando distrattamente un orecchio di Meg Ryan, accovacciata pigramente di fianco al suo lettino, l’editore stava riflettendo. La narrativa italiana non tirava più, la casa editrice – checché se ne dicesse in giro – aveva un disperato bisogno di soldi. Autori, fornitori, redattori, cartai, stampatori: erano sempre tutti in coda a bussare alla sua porta e a chiedere quattrini. Oh certo, era ancora bravo a fare le sue sceneggiate, il suo fascino da intellettuale bizzoso faceva ancora presa su molti; ma meno, purtroppo, sempre meno e, soprattutto, non faceva presa sui lettori che non si riversavano più come una volta a comprare i libri da lui pubblicati.
Qualche giorno prima di partire per Positano era stato chiamato dalla banca. Il direttore della filiale dove la casa editrice aveva l’esposizione più alta gli aveva detto, senza tanti giri di parole, che occorreva mettere a punto un piano di rientro, che i tempi erano cambiati, che la discesa dei tassi d’interesse non permetteva più di remunerare come in passato i capitali prestati, che anche loro avevano ingenti costi per il personale e tutto il resto, che pure l’euro aveva fatto la sua parte, e che quindi occorreva che la casa editrice rientrasse, se non di tutto, almeno della metà dell’esposizione bancaria.
Il cane decise che ne aveva abbastanza di farsi torturare l’orecchio e si ritirò in disparte, lontano.
Rientrare. Era una parola. Un cauto sondaggio effettuato il giorno stesso tra i suoi referenti politici aveva avuto un esito disastroso. Nessuno si era voluto impegnare a dargli una mano; anzi, tutti avevano addotto motivi più che validi per tirarsi indietro. Uno, addirittura, l’aveva apertamente diffidato dal fare il suo nome: avrebbe solo peggiorato la situazione.
Con un sordo brontolio, Meg Ryan si gettò all’inseguimento di un gabbiano che si aggirava sul bagnasciuga.
«Maggie, qui! Maggie!!» Momentaneamente distratto dai suoi pensieri, Severi richiamò il cane che, sempre borbottando, tornò a sdraiarsi ai piedi del lettino.
Che fare?
Sbuffò in preda all’irritazione. Non gli piaceva per niente; odiava, in verità, l’ipotesi che gli stava balenando in mente. Ma era l’unica soluzione rimasta. Doveva tornare alla carica con Andrea Cacciopieri, che parlasse con i suoi due soci e venisse a più miti consigli. Non si dice forse che gli amici si vedono nel momento del bisogno? E allora che si facessero vedere, per la miseria! L’incontro di quella sera sarebbe stato decisivo. Doveva essere decisivo.
7
Teresa Bonfanti sposata Cacciopieri era una donna alta, aveva capelli neri e lunghi e sembrava che il suo corpo fosse riuscito a neutralizzare gli effetti del tempo; avesse superato o meno quella soglia per le donne invalicabile dei trentanove anni, manteneva intatto il fascino che in gioventù aveva infranto non pochi cuori e che, anche ora, induceva molti uomini a pensieri maliziosi nei suoi confronti.
A differenza di Teresa, Serena, la sorella minore, tutto aveva tranne che l’aspetto di una donna del Sud. Bionda, i capelli che si appoggiavano appena sulle spalle, di carnagione chiara, aveva un viso dai lineamenti regolari e due grandi occhi verdi che a volte ti scrutavano quasi a volerti leggere fin nel fondo dell’anima e a volte si abbassavano pudichi accompagnati da un leggero rossore sul volto.
Le mitiche sorelle Bonfanti erano passate, anni prima, lungo i corridoi del liceo Tasso di Salerno e dell’università di Napoli con la forza e l’intensità di un tifone. Riuscire a portare fuori una delle due era già un’impresa, tale era la concorrenza che bisognava vincere; diventare il loro “ragazzo”, come si diceva allora, era come scalare l’Everest senza ossigeno e in costume da bagno, come aveva sostenuto uno dei tanti spasimanti delusi, anche perché le mitiche Bonfanti e...
Indice dei contenuti
- Cover
- Frontespizio
- Copyright
- Dedica
- Poco meno di otto mesi prima
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- 4° giorno - Giovedì, 6 ottobre
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- 9° giorno - Martedì, 11 ottobre