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«Era una gioia appiccare il fuoco»
I libri sono pericolosi, perciò li vogliono sempre bruciare. Lo sapeva bene Pol Pot, uno che in gioventù, a Parigi, aveva frequentato con profitto la Sorbona e i caffè dell’intellighentsia alla moda, abbeverandosi all’esistenzialismo di Sartre. Era terrorizzato dal potere dei libri, che avevano nutrito il suo famelico fervore rivoluzionario. Ne sentiva il profumo esplosivo. E ora, arrivato al potere, voleva disfarsi per sempre dei libri e di chi li leggeva. Da capo carismatico dei khmer rossi, prima che i miliziani fanatizzati massacrassero un terzo della popolazione cambogiana e purificassero il «mondo nuovo» da ogni traccia immonda del passato, intimò alle bande dei suoi adolescenti assassini di denunciare i genitori che avessero commesso il «crimi ne borghese» di possedere una biblioteca. Poi venne il momento di salire un gradino ulteriore dell’abiezione: l’annientamento fisico (lo sterminio, insomma) di tutti i nemici del popolo muniti di occhiali. Proprio così: solo per il fatto di avere gli occhiali. E dunque, presumibilmente, «intellettuali borghesi». Lettori marci e corrotti, «istruiti» agenti del Male da sopprimere. Non dovevano leggere più.
I libri sono pericolosi. Lo sapevano bene i giovani arroganti e indottrinati da Hitler che nel 1933 a Berlino, inquadrati e in divisa, inscenarono la grande rappresentazione del falò di libri ostili allo «spirito tedesco». Perché non gettarono carta alla rinfusa e senza criterio, come una folla cieca e scatenata, o un’orda barbarica e incolta. No, selezionarono con grande precisione la «spazzatura intellettuale del passato» (testi di sinistra, o «giudaici», o «immorali») da dare alle fiamme, a cominciare dai fascicoli della rivista «Imago» di Sigmund Freud, ebreo e per di più untore di un’infezione diabolica come la psicoanalisi. Ogni libro carbonizzato era un’idea da isolare e sterminare con cura, per non consentire al morbo di dilagare e mettere in pericolo la purezza del nuovo Reich.
Hitler, come Pol Pot, era terrorizzato dalla cultura perché ne sentiva la seduzione. Era attratto e inorridito dal potere malefico che emanava dalle idee e dalle emozioni messe nelle pagine. Può far male a chi pensa che i libri possano solo procurare del bene, ma il Führer aveva un culto feticistico dei libri. Portò con sé una parte della sua biblioteca da oltre sedicimila volumi persino nel bunker della disfatta. Il resto, poi sequestrato, smembrato e trasportato altrove dai soldati americani e sovietici, era custodito nel Berghof, il «Nido dell’Aquila» con splendida vista sulle montagne bavaresi in cui il capo del nazismo amava soggiornare con Eva Braun. Hitler odiava i libri pericolosi mentre li collezionava con passione bulimica. Ordinava i roghi dei libri per metterli in condizione di non nuocere, giacché ne conosceva la pericolosità . Se ci piace immaginare che il falò dei libri sia il frutto della rozzezza e dell’incultura, purtroppo non è così. È molto peggio: i libri vengono bruciati dai fanatici, non dagli ignoranti. Solo che dall’ignoranza si può guarire, dal fanatismo no.
Il mondo della cultura è sempre stato pieno di coincidenze in cui si rivela il legame perverso tra i libri e il potere repressivo che cerca di arginarne la pericolosità . John Edgar Hoover, l’onnipotente capo del Fbi per quasi mezzo secolo, ebbe l’opportunità di compiere il suo tirocinio di infallibile schedatore di informazioni riservate proprio nella Biblioteca del Congresso di Washington, dove era stato assunto come semplice fattorino. Fu tra quegli scaffali che mise a punto un sistema di catalogazione e classificazione dei libri destinato a risultargli molto utile lungo la sua pluridecennale carriera di occhiuto investigatore-inquisitore e di principe del dossieraggio a scopo di ricatto. Tenere in ordine i libri era stata la sua prima missione: evitare il caos anarchico, la mancanza di controllo, la disseminazione non sorvegliata delle idee. Tenere in ordine la società sarebbe stato, nei decenni successivi, il senso di tutta la sua missione di meticoloso archivista del potere costituito. Hoover non bruciava i libri, perché nella democrazia americana il potere non brucia i libri (in compenso lo hanno sempre fatto, impuniti, i razzisti del Ku Klux Klan). Però voleva, e sapeva con quale efficacissimo metodo, disinnescarne le implicazioni deflagranti per l’Ordine cui si era consacrato.
I libri, invece, sono bruciati dai persecutori e dai dittatori, dai caudillos e dalle guide carismatiche dei popoli. Khomeini era un uomo colto. Nel suo esilio parigino divorò quantità immense di libri, ma considerava un dovere sacro, giunto al potere, scatenare l’orda di assassini sparsi nel mondo per sgozzare uno scrittore anatemizzato come «blasfemo». Mao, che con la Rivoluzione culturale ha fomentato e scatenato la più cruenta rivolta della storia contro i libri e contro la cultura «impura», conosceva bene i libri. Da giovane era stato un diligente bibliotecario di Pechino. E tra i tanti volumi che gremivano gli scaffali fece la scoperta di quelli di Marx, che gli avrebbero cambiato per sempre la mente e la vita. Avvezzo a padroneggiare le idee, sapeva bene dove indirizzare la furia delle Guardie rosse, le bande di ragazzini spietati che inveivano contro la cultura e seviziavano gli insegnanti colpevoli di diffonderla senza inchinarsi al Verbo del despota maoista e agli slogan demenziali della Banda dei Quattro.
Chi ama i libri e ne è terrorizzato attizza l’odio contro i libri pericolosi, veicoli di ogni eresia abominevole. In Fahrenheit 451, Ray Bradbury fa dire al capo dei pompieri piromani (le tirannie adorano gli ossimori) addetti all’incendio dei libri: «Un libro è un fucile carico nella casa del tuo vicino. Rendiamo inutile l’arma». Subito dopo l’invenzione gutenberghiana della stampa, che aveva sconvolto l’immobilità della traditio ecclesiastica, per esempio, i custodi dell’ortodossia romana furono atterriti all’idea che i fedeli leggessero la Bibbia senza l’ausilio delle mediazioni sacerdotali. Attorno alle numerose edizioni della Bibbia stampata che in meno di un secolo avevano invaso l’Europa, dilagò una disputa cruenta. E i più fanatici arrivarono a reclamare la censura e il rogo della Bibbia stessa, il Libro dei Libri che, senza il controllo e l’autorità dei sacerdoti deputati al filtro di quei testi pericolosissimi, sarebbe diventato il «pomo della discordia», il «Vangelo nero», il «libro degli eretici». Così, paradossalmente ma neanche tanto, persino della Bibbia si predicava che dovesse essere maneggiata con estrema cura. Protetta gelosamente dai suoi interpreti ufficiali. I quali, pur nella devozione assoluta, ne conoscevano l’immensa pericolosità . I lettori e i fedeli acculturati (sempre più numerosi grazie alla stampa) non potevano essere lasciati a se stessi, nella solitudine silenziosa e sediziosa della lettura, esposti alla sua terribile fascinazione. Ancora una volta, come una maledizione, ma seguendo una legge storica ineluttabile: chi amava intensamente il Libro, i libri finirà metodicamente per bruciarli.
I libri sono pericolosi. Ci consoliamo pensando che a bruciarli siano i barbari. Folle di zotici ignoranti che danno alle fiamme ogni manufatto di carta. Analfabeti esaltati da uno sfrenato cupio dissolvi dettato da una forma di odio primitivo e da un’intolleranza istintiva. Immaginiamo mani rozze che appiccano il fuoco e speriamo sempre che, se quei libri fossero letti anziché bruciati, se gli individui si lasciassero affinare e modellare dalla cultura e dalla bellezza, ne scaturirebbe un mondo più civile, dove il rispetto dei libri sia concorde e unanime, e il rogo dei libri soltanto il ricordo di un incubo passato. Magari fosse così. Magari fossero vere le premesse ottimistiche che animano le virtuose e un po’ melense campagne per la diffusione della lettura. Invece no, l’atto di bruciare i libri è un atto che nasce dall’energia del radicalismo intellettuale, teorizzato spesso con formule solenni e imperative, praticato e diretto da chi legge i libri. Da chi ne ha letti molti. Da chi nei libri ha trovato le parole adatte per la sua pretesa titanica di estirpare il male dal mondo. Chi architetta utopie audaci e palingenetiche annette ai libri, alle gelide geometrie delle idee, un’importanza spasmodica lontanissima dall’indifferenza delle società tiepide e soddisfatte di sé, degli amanti delle sfumature, degli indecisi, dei refrattari alla coralità entusiasta. Vuole bruciare le idee chi è dominato da un’Idea. Dall’Idea assoluta e sacra, che fa della propria esclusività e superiorità un culto esigente, da portare fino alle estreme conseguenze.
Il rogo dei libri attrae i fanatici che vogliono esercitare la tirannia di una dottrina. E chi brucia i libri è quasi sempre posseduto da un fanatismo freddo, cerebrale. Scriveva Boris Pasternak nel Dottor Zivago che il rivoluzionario inflessibile, l’intransigente giustiziere che vuole eliminare ogni ostacolo umano sulla strada tracciata verso il suo Bene, è uno schiavo della superbia intellettuale, costretto dal suo dottrinarismo astratto alla spietatezza più disumana: «Alla coerenza dei suoi princìpi manca l’incoerenza del cuore». Ma nello stesso tempo, l’algida cerebralità dei dottrinari viene compensata dall’entusiasmo comunitario di chi addita al pubblico ludibrio il reprobo da mandare al rogo insieme ai suoi libri. Il rogo, la condanna, la giustizia sommaria degli idealisti forsennati rinsaldano nella tempesta il senso del «noi», isolando il reietto da zittire. Perciò la tentazione del rogo di libri è così persistente. Anche oggi, dove si predica o si predice la fine del libro.
Oggi, nell’era dell’infinita riproducibilità tecnica, dell’evanescenza immateriale dei prodotti intellettuali, della separazione delle idee dalla loro tangibile consistenza cartacea, il rogo dei libri assume un valore puramente simbolico e puramente intimidatorio. Non si può più annichilire in senso fisico, in un sia pur gigantesco rogo, la Biblioteca del Congresso che contiene ottanta milioni di volumi ormai accessibili solo on line. Il web, ha scritto l’anziano ma sempre attentissimo George Steiner, è veramente diventato la realizzazione della «bibliotheca universalis di Leibniz: una biblioteca illimitata». E così per la musica, i film, la pittura, la fotografia, l’architettura, le immagini. La moltiplicazione universale del sapere contenuto in un libro è la garanzia più poderosa dell’incancellabilità delle tracce lasciate dal pensiero e dall’arte. Il lavoro abietto dei pompieri piromani di Fahrenheit 451, la sistematica distruzione di tutti i libri, viene vanificato dalla smaterializzazione di ciò che si vuole distruggere. E dunque, per quanto male si possa dire del web, della sua tentacolare invasività e superficialità , tuttavia l’ostacolo che rappresenta per aguzzini e devastatori di libri ne fa comunque qualcosa di benemerito. Di cui essere umilmente grati.
Eppure basta la cronaca dei nostri giorni per capire che l’invocazione al rogo dei libri esercita tuttora un suo sinistro richiamo seduttivo, ovunque. Intanto perché, se solo si avesse voglia di gettare uno sguardo oltre i recinti dorati delle democrazie rispettose dei diritti umani fondamentali, ci si accorgerebbe che ancora oggi oltre la metà della popolazione mondiale vive in regimi in cui i libri sono proibiti e distrutti e i loro autori perseguitati o uccisi (peraltro non necessariamente in Paesi afflitti da un tasso di analfabetismo superiore alla media, anzi). Ma soprattutto perché l’emozione dell’intolleranza è troppo potente per lasciarsi ingabbiare da una geniale invenzione tecnologica. L’incipit del romanzo di Bradbury, per dire, parte proprio dall’emozione primaria e irriflessa che il rogo di libri trasmette, più forte di ogni contestualizzazione storica: «Era una gioia appiccare il fuoco. Era una gioia speciale vedere le cose divorate, vederle annerite. Con la punta di rame del tubo fra le mani, con quel grosso pitone che sputava il suo cherosene venefico sul mondo, il sangue gli martellava contro le tempie, e le sue mani diventavano le mani di non si sa quale direttore d’orchestra che suonasse tutte le sinfonie fiammeggianti, incendiarie, per far cadere tutti i cenci e le rovine carbonizzate della storia». Bruciare i libri è bello, è una sinfonia incendiaria, fa «martellare il sangue» contro le tempie. Figurarsi se si può rinunciare a una simile gioia.
Certo, adesso la piazza virtuale tende a sostituire quella dove si accendono «realmente» i fuochi che distruggono qualcosa e qualcuno odiato oltre ogni argine e misura. Ora ci sono i social network dove, lo raccontano le cronache più recenti, i libri vengono bruciati in effigie per mezzo di uno smartphone. Perché? Forse per compiacere un Capo affamato di dominio sui suoi seguaci. Per assaporare quella incontenibile «gioia speciale» di cui parlava Bradbury. Per surrogare con il web il desiderio incoercibile di mettere a...