Le catene della sinistra
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Le catene della sinistra

Non solo Renzi. Lobby, interessi, azioni occulti di un potere immobile.

  1. 289 pagine
  2. Italian
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Le catene della sinistra

Non solo Renzi. Lobby, interessi, azioni occulti di un potere immobile.

Informazioni su questo libro

Quali sono le grandi catene che tengono la sinistra immobilizzata e quasi paralizzata? Quali sono i poteri e le lobby da cui si deve emancipare per conquistare il Paese? Perché la sinistra continua a regalare autostrade a Beppe Grillo e a offrire praterie a Silvio Berlusconi? Come può la sinistra trasformare le esperienze di grande coalizione, in Italia e nel resto d'Europa, in uno strumento utile a riscrivere le proprie coordinate e a trovare un collante diverso dalla semplice parola "anti"? Questo libro nasce per descrivere la vera sfida dell'era di Matteo Renzi. Nasce per raccontare quali sono i poteri (e le lobby) da cui la sinistra deve affrancarsi. Nasce per spiegare quali sono le caste degli intoccabili che l'hanno trasformata in un salotto simile al Consiglio di sicurezza dell'Onu: laddove cioè è sufficiente che uno degli invitati dica un "no" per bloccare tutto e lasciare impantanata l'Italia. "La sinistra non sarà mai adatta a guidare il Pae- se fino a che non prenderà le cesoie e spezzerà le catene che la rendono prigioniera e che l'hanno trasformata in una forza a difesa della conservazione". Ma per farlo deve affrontare i suoi fantasmi, riconoscerli, combatterli, e rompere quei vincoli che non le permettono di essere maggioranza del Paese. L'inchiesta di Cerasa denuncia in modo limpido e mai fazioso, con nomi, cognomi, interviste, storie e retroscena inediti, tutte le malefatte, tutti i legami incestuosi e tutti i malintesi politici che hanno portato la sinistra ad annientarsi da sola. Semplicemente, ad ammanettarsi.

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Informazioni

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Latte, mamma, ancora latte

«Sa cosa stavo pensando? Stavo pensando a una cosa molto triste. Cioè che io, anche in una società più decente di questa, mi ritroverò sempre con una minoranza di persone. Ma non nel senso di quei film dove c’è un uomo e una donna che si odiano, si sbranano su un’isola deserta perché il regista non crede nelle persone. Io credo nelle persone. Però non credo nella maggioranza delle persone. Mi sa che mi troverò sempre d’accordo, e a mio agio, con una piccola minoranza» (Nanni Moretti, Caro diario, 1993).
Tesoro, scusami, ma il latte è finito. Immaginate un bambino cresciuto. Quasi un adulto. Immaginate una mamma con il seno scoperto. Immaginate questo bambino cresciuto che, pur non essendo più un bambino, avvicina le labbra al seno della madre e implorandola, sfiorandole il capezzolo, le chiede ancora latte, latte e ancora latte. Piccolo problema: il seno della mamma da anni ormai non produce più un goccio di latte. Ma il bambino non riesce ad accorgersi che la sua principale fonte di sostentamento semplicemente non esiste più. Finita. Esaurita. Puf. Immaginate questa scena e avrete di fronte a voi l’esatta fotografia del modo in cui negli ultimi vent’anni la sinistra italiana ha cercato di nutrire il suo corpo. Senza riuscire a farlo crescere. Senza riuscire a farlo maturare. E senza capire che dalle fonti a cui avvicinava le labbra non usciva più nulla. Finito. Esaurito. Puf. E il discorso, è ovvio, vale per tutti. Vale per ogni leader che la sinistra ha avuto dal 1994 a oggi. E vale tanto per Walter Veltroni quanto per Massimo D’Alema quanto per Pier Luigi Bersani quanto per Matteo Renzi e il suo governo Bim Bum Bam.
Renzi, già.
Dal punto di vista politico la scena del bambino cresciuto che avvicina inutilmente le labbra al seno vuoto della madre si trova ovunque nella storia passata e recente della sinistra, ma si trova soprattutto prendendo in considerazione alcuni passaggi particolari che ne hanno ostacolato più degli altri la crescita, e che le hanno impedito di diventare non solo grande ma soprattutto vincente. È la storia della sinistra eternamente minoritaria. La storia della sinistra che prova invano ad attingere ad alcune fonti magiche prive di sostanze utili a nutrire il proprio corpo. Della sinistra che si attacca al seno vuoto dell’antiberlusconismo senza essere in grado di trasformare la propria contrapposizione al Cavaliere in un alimento utile per crescere e per conquistare il Paese. Che si attacca al seno sterile dello statalismo, del dirigismo, dell’antiliberismo. Che alleva i suoi elettori con una buona dose di populismo, e alle elezioni si lamenta e si stupisce se gli elettori venuti su a suon di populismo scelgono di votare per i movimenti più populisti. È la storia della sinistra che educa i propri elettori all’antagonismo, e che poi si meraviglia, ohibò, se alle elezioni gli elettori trovano qualcuno più realista e antagonista del re. È la storia della sinistra schiava di alcune minoranze conservatrici che da anni le impediscono di correre e che da anni ostacolano il suo sviluppo. È la storia, paradossale, di una sinistra che nel suo grembo vede crescere ogni giorno dei leader che più sono amati a sinistra e meno sono amati nel Paese. È la storia, insomma, di una sinistra che non riesce a liberarsi dalle catene che la tengono prigioniera. Che non riesce a catturare quell’elettorato, nuovo, nato a cavallo tra gli anni Sessanta e gli anni Ottanta. Un elettorato liquido, post ideologico, maggioritario, potenzialmente rivoluzionario e figlio di una grande e silenziosa pacificazione. È la storia, infine, di una sinistra che in mancanza di una solida muscolatura si affida sempre, per non cadere, a una serie di stampelle. Ai magistrati, per dimostrare la propria vicinanza alla parola «purezza». Ai sindacalisti, per dimostrare la propria vicinanza alla parola «lavoro». Agli industriali, per dimostrare la propria vicinanza alla parola «impresa». Ai registi, per dimostrare la propria vicinanza alla parola «cultura». Agli ambientalisti, per dimostrare la propria vicinanza alla parola «verde». Stampelle che spesso vengono utilizzate come fossero gli strumenti migliori per scendere in campo, correre e conquistare il Paese. Stampelle che spesso però hanno fatto dimenticare alla sinistra che per vincere le elezioni occorre conquistare non le stampelle, non gli alleati, ma semplicemente gli elettori. Lo dicono i numeri, lo dice la storia, lo dice la cronaca, lo dice il presente, lo dice il passato e forse lo dice anche il futuro. Seguite il filo.
«Non eravamo in contatto con il mondo moderno. Attiravamo solamente due categorie di persone: coloro che erano tradizionalmente laburisti e coloro che arrivavano al socialismo e alla democrazia sociale seguendo un percorso intellettuale. Molti attivisti delle associazioni sindacali rientravano nella prima categoria. Io facevo parte della seconda. Nessuno dei due approcci poteva essere considerato la tendenza più diffusa e anche insieme non arrivavano a raccogliere i consensi necessari per vincere e salire al governo» (Tony Blair, Un viaggio, Rizzoli, Milano 2010).
Avete mai pensato al motivo per cui la sinistra non è mai riuscita a essere maggioranza del Paese? Per cui un leader più piace alla sinistra e meno piace al resto del Paese? Alla ragione per cui il Paese che ha avuto nella storia il più grande partito progressista d’Europa (e il più grande sindacato dell’Occidente) considera l’erede di quel partito una forza conservatrice e non progressista? Sono molte le ragioni che hanno generato questa situazione surreale, ma per capire in che senso la sinistra oggi, e da sempre, è numericamente una forza minoritaria del Paese bisogna prendere carta e penna e appuntarsi alcuni numeri. E i numeri cosa dicono? Dicono questo: che la sinistra vince solo quando gli avversari si dividono. Dicono che quando la sinistra, nel 1996, ha battuto Berlusconi lo ha fatto solo perché il centrodestra aveva perso un alleato. Dicono che quando nel 1996 la grande coalizione di Prodi ha sconfitto Berlusconi (16,2 milioni di voti, 700 mila più di Berlusconi) è riuscita a farlo solo perché la Lega (3,7 milioni di voti) a quelle elezioni non si era alleata con il Cavaliere. Dicono che quando l’Unione di Prodi nel 2006 ha battuto Berlusconi lo ha fatto solo con 26 mila voti di distacco (19.002.598 contro 18.977.843). Dicono che quando nel 2013 Bersani ha battuto il centrodestra lo ha fatto, ancora, solo per una manciata di voti (alla Camera i voti di vantaggio sono stati 124 mila). Dicono, infine, che dal 1976 a oggi il più grande partito della sinistra non è mai riuscito a superare una soglia psicologica che costituisce il vero limite del consenso della sinistra: dodici milioni di voti, un terzo degli elettori.
Già. Che ci si creda o no, infatti, dal 1976 a oggi il più grande partito della sinistra, alla Camera, in tutte le elezioni politiche, ha preso sempre gli stessi voti. Gli stessi, sempre. Dodici milioni sono i voti che nel 2008 prese il Pd di Veltroni (12.095.306). Dodici milioni sono i voti che nel 2006 prese l’Ulivo (11.930.983). Dodici milioni sono i voti che nel 2001 presero Ds e Margherita (11.928.362). Dodici milioni sono più o meno i voti presi dal Pci nel 1976 (12.616.650), nel 1983 (11.032.318) e nel 1987 (10.254.591, più i 1.140.910 di Psdi e i 969.330 dei Verdi). E, volendo, dodici milioni sono i voti presi nel 1996 da Pds (7.894.118), Rifondazione (3.213.748) e lista Prodi (2.554.072). Dodici milioni. Un terzo dell’elettorato. Una vocazione minoritaria in pratica inscritta nel Dna della sinistra. Che dice alcune cose precise: che la sinistra non riesce a parlare a elettori diversi dalla sinistra tradizionale e quando vince le elezioni lo fa più per demeriti altrui che per meriti propri; che, anche dopo lunghi cicli di governo della destra (vedi il caso del 2006), non riesce a imporre con forza il suo progetto; e che, insomma, per qualche strana ragione storica, a forza di avvicinarsi al capezzolo sbagliato, sembra essersi autocondannata a vivere come una forza eternamente minoritaria. Già. Ma perché? Come è successo? E soprattutto: il primo politico a essere nello stesso tempo segretario del Pd e presidente del Consiglio se ne sarà davvero reso conto oppure no?
«Bersani sembra rivolgersi a una platea di cattolici e socialisti dell’Ottocento, ma il pubblico che lo ascolta si sente come estraniato, quasi fosse in un museo davanti a un quadro di Pellizza da Volpedo» (Miguel Gotor, futuro consigliere politico dello stesso Bersani, «Il Sole 24 Ore», 13 settembre 2009).
Piccolo e utile ripasso. Dal punto di vista politico, le difficoltà incontrate dal centrosinistra, e in particolare dal Pd, nella conquista degli elettori degli altri schieramenti sono emerse con chiarezza alle elezioni del 2013. Quando il partito, guidato da Pier Luigi Bersani, è riuscito, sì, ad aprire i suoi steccati ma lo ha fatto non per attrarre nuovi elettori bensì per allontanare molti dei vecchi.
Prendete ancora carta e penna e appuntatevi questi ultimi dati. Perché, Renzi o non Renzi, la sinistra del futuro riparte da qui. Riparte dal risultato del 25 febbraio 2013. Riparte dal peggior risultato ottenuto dalla sinistra nella storia della Seconda Repubblica. E riparte da questo quadro. Da questi numeri: 8,6 milioni di voti ottenuti, 4 milioni di voti persi rispetto al 2008, pochi voti in più ottenuti rispetto al Pds del 1996 (furono 7 milioni e 800 mila). E parte da una condizione che costituisce la vera ferita della sinistra. La vera catena. Il suo essere minoritario. Il suo piacere sempre agli stessi e non piacere mai agli altri. Il suo essere, insomma, un partito capace di rappresentare sempre e soltanto la stessa Italia. L’Italia dell’Emilia-Romagna, della Toscana, delle Marche, della Liguria, dell’Umbria (dove il centrosinistra nel 2013 ha ottenuto una media del 35,4%). L’Italia delle regioni rosse (che non a caso è anche quella più rappresentata all’interno del governo Renzi: dall’Emilia-Romagna e dalla Toscana arrivano sei ministri e undici tra viceministri e sottosegretari). Un’Italia che, insomma, dimostra un dato elementare: l’elettore del Pd vota a sinistra non perché conquistato dalla sinistra, dal suo leader, dai suoi programmi, dal suo progetto, ma in nome di una parolina magica: «fedeltà». E la fedeltà non è solo un dettaglio socio-politico. È il principale tratto psicologico che si innesca regolarmente a sinistra durante ogni campagna elettorale. Funziona così: il leader della coalizione si preoccupa di rimettere insieme il campo delle sinistre, di parlare al suo popolo, di motivare i propri elettori, e parte dal principio che gli elettorati sono immobili, e che le campagne elettorali servono non a conquistare nuovi elettori, ma semplicemente a riconquistare i vecchi. Lo schema, come sempre, funziona. E ha funzionato anche nel 2013. Il Pd, lo si ricorderà, è stato il partito con il più alto tasso di fedeltà dell’elettorato (il 61% degli elettori che lo ha votato nel 2013 lo aveva votato già nel 2008). Ma la conseguenza di questo processo è evidente. E da un certo punto di vista è una formidabile spia per comprendere la natura della vocazione minoritaria della sinistra italiana. Gli elettori, infatti, votano la sinistra a prescindere dal leader o dai programmi. La votano semplicemente perché è la sinistra, o meglio ancora perché non è la destra. La sinistra si vota per fiducia. Il leader non viene considerato. È quasi come se non esistesse. Non conta. Sparito. Puf.
Lo avrà capito il governo Bim Bum Bam? Forse sì. Forse no. E la sfida di Renzi, se volete, è tutta qui. Seguite il filo.
«Non credo che le campagne elettorali spostino in modo significativo i voti» (Stefano Fassina, ex responsabile economia del Pd, «Corriere della Sera», 27 febbraio 2013).
L’incapacità della sinistra di diventare maggioranza del Paese è legata non solo a una questione di carattere politico, e a una irrefrenabile vocazione minoritaria dei dirigenti postcomunisti, ma anche a un problema spesso sottovalutato dai vertici progressisti. La sinistra, infatti, è percepita come se fosse una forza di governo anche quando si trova lontana dai posti di governo. E la ragione di questo paradosso è inscritta nei geni della galassia rappresentata dalla sinistra.
Giovanni Orsina, professore di Storia alla Luiss di Roma, e autore di un bel libro, Il berlusconismo nella storia d’Italia (Marsilio, Venezia 2013), ha una tesi affascinante: la sinistra si è caricata sulle spalle un numero così elevato di pezzi dell’apparato statale da essere diventata sinonimo della parola «Stato». E così, anche se non governa, l’elettore la percepisce come una forza non d’opposizione. E, rappresentando in tutto e per tutto lo Stato, è come se si trovasse sempre al governo. Semplice, no?
Incontriamo Orsina a Roma, a metà gennaio, a pochi passi dal Liceo Visconti e a dieci metri da Palazzo Grazioli. Gli chiediamo di spiegarci meglio la sua tesi affascinante. Vale la pena ascoltarlo.
«Dal punto di vista politico questo paradosso si può spiegare in tre modi. Primo. Nella sua veste di ultimo partito rimasto in circolazione, il Pd viene ancora percepito come se fosse l’ultimo canale di collegamento con la Seconda e con la Prima Repubblica, e questo ostacola il suo tentativo di proporsi agli elettori come una forza modernizzatrice. Secondo. Nella sua veste di partito-Stato, il Pd viene percepito come una forza schierata in difesa dell’esistente, e tutte le grandi forze che vanno contro il Pd, e che cercano di scardinare l’esistente, vengono riconosciute di conseguenza come se fossero delle forze d’opposizione al sistema. Terzo. Nella sua veste di successore diretto del Pci, e nel suo essere come era il Pci un “arci partito”, un partito espressione delle grandi burocrazie dello Stato, praticamente una costola dell’apparato statale, il Pd non è mai riuscito a competere con gli altri partiti che si sono posti sulla scena con programmi di severa e forte riduzione della presenza dello Stato. Ecco. In questo senso, se vogliamo, la sinistra è lo Stato. E così – in questi anni durante i quali, un po’ per l’aumento delle tasse, un po’ per l’insostenibile peso della burocrazia, un po’ per il modo in cui l’elettore ha sempre più percepito lo Stato come se fosse un nemico da cui difendersi – non è difficile capire come sia diventato complicato per la sinistra presentarsi di fronte ai propri elettori con la veste di forza politica vogliosa di rompere con il passato, e di rappresentare la modernità.»
«L’elettorato che vota il Pdl ha continuato a farlo nel 2006, nel 2008 e anche nel 2013. Cioè anche quando è stato chiaro che Berlusconi non aveva mantenuto le promesse, pur essendo stato al governo dieci anni nell’arco di venti. Ma il fatto è che nessuno riesce a rappresentare quell’elettorato. Il voto, molto semplicemente, va al Pdl per mancanza di un altro partito che sappia raccogliere quei voti» (Itanes, Voto amaro, il Mulino, Bologna 2013).
La scarsa volontà mostrata dalla sinistra nel liberarsi dalle catene che la rendono da anni minoritaria ha un suo importante riflesso anche a livello europeo. E da questa prospettiva, se vogliamo, la catena che ha immobilizzato il mondo progressista coincide con un termine con il quale tutti noi abbiamo acquisito ormai una certa confidenza: «austerità». Pensateci. Vista la crisi economica, vista la recessione europea, vista la disoccupazione, vista la bassa crescita, vista la particolare condizione in cui da anni si trova il nostro continente, e considerato poi che parte dell’origine della crisi va individuata nelle storture e nei difetti di un capitalismo finanziario cresciuto a dismisura nell’ultimo trentennio (e direttamente sostenuto da una parte importante dei partiti e della cultura politica di destra), sarebbe stato logico immaginare che a un certo punto l’Europa delle destre, dominata da Angela Merkel e da Nicolas Sarkozy, l’Europa del rigore e dell’austerità, sarebbe stata sostituita da una nuova e formidabile ondata di governi progressisti.
La migliore fotografia del grande e potenziale progetto di cambiamento europeo è certamente quella scattata in un pomeriggio del marzo 2012. A Parigi. Quando i capi dei principali partiti socialisti europei – dal leader della Spd Sigmar Gabriel passando per il leader del Ps François Hollande e arrivando fino al leader del Pd Pier Luigi Bersani – si incontrarono per siglare tutti insieme una piattaforma programmatica sulle politiche comunitarie. Titolo del programma: Un nuovo Rinascimento per l’Europa. Svolgimento reale del programma: Un mezzo Disastro per l’Europa. E così, pochi mesi dopo la-grande-ondata-che-avrebbe-dovuto-travolgere-il-governo-delle-destre, l’Europa progressista si ritrova a fare i conti con una vittoria sofferta di Hollande e con una serie di insuccessi clamorosi. Insuccessi come quello di Bersani, con il suo Pd costretto ad allearsi con il centrodestra. Insuccessi come quello della Spd, che nonostante la crisi, nonostante l’austerity, nonostante tutto, non riesce ad avere la meglio sulla signora Merkel (e per governare è costretta, come il Pd, a dar vita a una grande coalizione). Risultato: alla fine del 2013 i partiti riconducibili al Pse sono al governo – da soli o a capo di coalizioni progressiste – esclusivamente in Italia, Francia, Romania, Danimarca, Croazia, Slovacchia e Malta. Stop. Come mai? Cosa è successo? Come è stato possibile che la retorica politica dell’anti austerity non sia riuscita ad avere la meglio sulla retorica politica dell’austerity? Che c’è? Siamo forse un continente di squilibrati? Di elettori suicidi?
La risposta a questa domanda è contenuta in un illuminante paper uscito un anno prima del patto di Parigi e distribuito in Inghilterra da un centro studi di successo (si chiama Policy Network) guidato da uno degli storici teorici della Terza via blairiana: Peter Mandelson. Titolo del paper: In the Black Labour. Sottotitolo: Why fiscal conservatism and social justice go hand-in-hand (Perché conservatorismo fiscale e giustizia sociale vanno a braccetto). Tesi di Anthony Painter e Hopi Sen, autori del paper: dimostrare perché, per i progressisti, utilizzare come collante politico la retorica dell’anti austerità sarebbe stata una semplice follia. E il ragionamento che viene fatto a livello europeo dagli estensori del paper è simile a quello che potrebbe essere fatto in Italia per illustrare le conseguenze dell’antiberlusconismo: la trasformazione della politica dell’«anti» nel principale tratto identitario della sinistra ha funzionato come una droga e, mentre si illudeva di aver offerto alla sinistra un mastice per tenere insieme elettori e alleati, non dava però la possibilità di comprendere la complessità del nuovo contesto storico all’interno del quale la sinistra continua inevitabilmente a fornire risposte simili a quelle del passato. Un contesto in cui, scrive Policy Network, la sinistra deve anche fare i conti con un nuovo modello di Stato sociale: «a social democracy with less money», una democrazia sociale con meno soldi di un tempo. Dove lo Stato non può continuare a portare avanti la politica della lagna, del «per favore dateci più soldi», ma deve imparare la politica dell’«enterprising state». Ovvero di uno Stato imprenditore che mira a fare riforme evitando l’aumento della spesa pubblica. E inserendo il suo percorso all’interno di una nuova cornice che tiene conto dell’idea che le risorse sono limitate, che in giro ci sono meno soldi, che per questo i soldi devono arrivare non con nuove tasse ma con le giuste riforme in grado di garantire una sana crescita, e che non esiste modo migliore per garantire l’equità se non quello di puntare su riforme che possano aiutare a sconfiggere tutte le ingiustizie sociali. Insomma, siamo sempre lì. Sempre allo stesso problema. Sempre alla stessa immagine. Tesoro, non so come dirtelo, ma il latte è finito.
«Ok. Sappiamo bene qual è l’obiezione che ci potrebbe essere mossa: siete matti? Voi state chiedendo alla sinistra di sposare alcune policy dei conservatori? Questa è un’obiezione che avrebbe avuto senso in un contesto pre crisi. Ma in una fase storica come questa, caratterizzata da un processo di “zero-budgeting”, di portafogli vuoti, bisogna ammettere che qualsiasi politica redistributiva basata sulla redistribuzione delle risorse non può avere senso perché, molto semplicemente, le risorse da distribuire non ci sono più, e di questo dobbiamo renderci conto anche a costo di dire di “sì” ad alcune delle tradizionali politiche del conservatorismo fiscale» (Anthony Painter e Hopi Sen, «The Guardian», 1° dicembre 2011).
Da un certo punto di vista, molti di questi ingredienti sono all’origine di un fenomeno complesso che costituisce una delle novità politiche più significative dell’ultimo decennio. E con cui si sta ritrovando a fare i conti anche l’ultimo leader della sinistra italiana: la grande coalizione. E se alla fine del 2013 i Paesi guidati da un governo ibrido, ovvero formato dalle prime due forze politiche del Paese, erano più della metà del totale di quelli che formavano l’Eurozona (Italia, Belgio, Austria, Slovenia, Paesi Bassi, Grecia, Lussemburgo, Germania, otto su diciotto) non si può dire sia soltanto uno strano e casuale scherzo del destino. Bisogna dire la verità. E riconoscere che se le sinistre non sono riuscite a far cambiare verso all’Europa, la colpa non può che essere ricercata nel modello di cambiamento da loro suggerito. Essere costretti a dar vita a una grande coalizione, per un partito che avrebbe dovuto facilmente vincere le elezioni, rappresenta una sconfitta. Ovvio. Ma paradossalmente, le larghe intese, per le sinistre, potrebbero essere qualcosa in più di una semplice convivenza con una mostruosa creatura politica. E potrebbero essere un modo per premere il tasto reset e riscrivere le intere coordinate della stessa sinistra. E a chi sostiene che il governo di grande coalizione non è compatibile con le ambizioni elettorali dei leader che guidano quella coalizione basterebbe ricordare la storia della signora Angela Merkel: leader di un partito politico (la Cdu, centrodestra tedesco) e capo di un governo di grande coalizione per quattro anni, tra il 2005 e il 2009, che proprio grazie all’esperienza della grande coalizione è riuscita a combattere l’anti populismo e, a colpi...

Indice dei contenuti

  1. Cover
  2. Frontespizio
  3. Copyright
  4. Dedica
  5. Perché la sinistra ha paura di Checco Zalone. L’era Renzi tra Grillo, Berlusconi e cinque schiavitù
  6. 1 - Latte, mamma, ancora latte
  7. 2 - Conservare, conservare, conservare
  8. 3 - La sinistra Slow Foot
  9. 4 - Sfondata sul lavoro
  10. 5 Quatto potere
  11. 6 - La Cultura della sconfitta
  12. Bibliografia