1
Tutti i mondi sono meschini.
Questo pensavo pochi minuti prima, mentre transitavo frenetico sotto la Torre Velasca, il grattacielo in cemento a vista che da pochi anni svettava sulla città, dominandola, irretendola, enorme fungo dove si può lavorare, dove si può vivere.
Correvo, correvo da lei.
Notte di inverno, ma accogliente questa notte, dove la mia bella madonnina mi aspettava, lì vicino, a pochi passi oramai, per vivere insieme un momento, lei, che scintillava sempre nei miei occhi, in ogni notte, in ogni ora milanese.
«Occhi piccoli» mi diceva, «e di solito chi ha gli occhi piccoli ha qualcosa da nascondere.»
Nulla ho da nascondere questa sera al club El Maroco in via Paolo da Cannobio, tra via Larga e il Duomo, dove Milano, alla sera, sembra custodire i segreti mondiali.
Sono giunto da lei, in ginocchio da lei, che vestita di bianco mi aspettava lì fuori, per entrare.
Vasta la folla per ascoltare l’artista, la sua voce da tigre, a tratti sincopata, vibrante, profondissima.
«Stai bene vestita di bianco» ho detto, ma non riuscivo a dirle quello che avrei dovuto, e che cioè il lieve contrasto tra il suo abito bianco e la sua pelle di alabastro mi intimoriva.
«Ti piacerei anche con la camicia da notte di mia nonna» ha detto.
Subito ci siamo messi in coda per un drink; ho preso una grappa in barrique, per sentirmi sofisticato; lei, un liquore alla ciliegia, chissà perché.
La gente attorno affluiva e si posizionava al centro della pista, per vedere meglio gli occhi luminosi della tigre di Cremona.
«Ho letto il tuo pezzo oggi. Scrivi solo di queste idiozie?» ha detto, e ha accennato un lieve schiocco delle labbra, come a voler giustificare, con un ammiccamento, la violenza della sua considerazione.
«Guarda che dai cani si impara tanto. Sono i più umani. E poi dal piccolo emerge l’epico» ho risposto, senza convinzione.
Lei mi ha dato un bacio sulla guancia sinistra, e mi ha detto: «Prendilo come un dono».
Bianca che bacia, Bianca che osserva, Bianca di bianco vestita.
Bianca, occhi di cerbiatto, Bianca la timida, Bianca che vive.
Entrò di colpo l’artista, la diva della tv, del cinema, della musica, la diva di tutto. Prese il microfono, disse: «Ciao Milano. Grazie a tutti di essere qui». Il pubblico urlava, forza Mina, tintarella di luna, le mille bolle blu, questa stanza non ha più pareti.
Gli uomini e le donne tra il pubblico sono diventati schegge impazzite, Bianca era immobile, mutissima, osservava la realtà attorno a lei, come allo zoo.
Quando sei qui con me, partì Mina, roteando le braccia nell’aria, come a voler disegnare costellazioni senza più pareti.
L’ipnosi del pubblico pagante era collettiva, solo Bianca sembrava distaccarsene, come se fosse un corpo estraneo.
Lei era il mio monocolo.
E Mina si voltava, alzava le braccia, roteava, senza più pareti.
Non era ancora chiaro chi fosse. Che cosa fosse. Urlatrice. Melodica. Secondo un sondaggio operato tra i radioascoltatori, il cinque per cento degli italiani la considerava cantante all’italiana, il sei per cento cantante moderna, l’ottantanove per cento la considerava Mina.
Erano i tempi in cui Mike Bongiorno aveva già quei suoi occhi ferrigni e già diceva ai suoi telespettatori: «Voi siete Dio».
Due anni fa, il Cardinal Montini veniva eletto papa, Paolo VI, e spiegava agli uomini che era cosa assai importante rendere nuova l’umanità stessa, in quanto noi portiamo il peso dell’umanità presente e futura.
Cinque anni fa, il noto conduttore televisivo Mariuccio Bonavolontà, meglio noto come Mario Riva, e inventore del celeberrimo intercalare “nientepopodimenoché”, in occasione del Festival del Musichiere da lui condotto, non si avvedeva di una botola aperta, finendovi dentro e successivamente morendo, provocando tristezza in tutta la nazione. Era una morte in diretta: si poteva morire, sempre, anche in diretta.
E io qua.
Da poco giunto a Milano, e subito ipnotizzato da Bianca.
La sua bellezza trentina, dolomitica, una bellezza graffiata, macchiata. Lineamenti spigolosi, capelli a caschetto, e quei suoi guanti bianchi che di tanto in tanto lasciava scivolare, ma non del tutto, fuori dalla mano, dito anulare su dito anulare. Minigonna appena sotto le ginocchia, e sorriso naturale, spoglio di meschinità; sembrava volere dire, quel suo sorriso, che in fondo, tutto ciò che di malizioso compiva non era che una farsa, una protezione.
Vita: come teatro.
Ora danzava piano, senza abbandonarsi, osservando Mina. La cantante gesticolava sempre più, in piena frenesia, muovendo lievi le gambe nei suoi pantaloni alla pescatora. Era sfrontata.
Brava! Brava! Sono tanto brava!
Con quella voce così sfacciata, la cantante, venticinque anni, star mondiale, mandava in frantumi un secolo di melodramma patriottico, parlando di zebre a pois, e di Renato, Renato, Renato.
Ho tentato di sfiorare le dita di Bianca, sperando di causare reazioni.
«Che fai, ci provi?» mi ha urlato nell’orecchio.
«No, per carità» ho risposto.
«Mi fai ridere» ha detto lei.
«Perché?»
«Tutti credono che sei ombroso. Impenetrabile. Macché. Sei goffo. Non mi sai resistere.»
E ha sorriso, mostrando quei suoi denti un po’ alti, da cavallerizza.
«Non ti so resistere?» ho detto tentando di generare un qualche giochino.
«Certo. Ma mica solo tu, Andrea.»
«E chi non ti resiste?»
«Non tutti. Ma quasi.»
«Certo, sei carina.»
«E tu sei sudato» ha risposto.
Ho estratto un fazzoletto dalla tasca e l’ho passato sulla fronte. Ho pensato che Bianca mi metteva davvero a disagio, che mai nella vita mi ero trovato a vivere una simile goffaggine.
Mina ha continuato a cantare, cha cha cha cha, champagne twist, e se domani, per quest’anno non cambiare, e la folla cantava, ballava, come in preda a un ballo inarrestabile come un angelo, quando il babbo un palloncino regalò e con un ago lo bucò, e bum!, e il pubblico pagante era frenetico, oggetti tutti di un vortice, un uragano, e poi Mina ha continuato, e Bianca guardava Mina, ipnotizzata, e io guardavo Bianca, ipnotizzata, Mina era ipnotizzata dalla sua musica, Mina che ora cantava che splendido è volar là sopra le nuvole candide, Mina, nessuno, ti giuro, nessuno, Mina, folle banderuola, Renato, Renato, Renato.
Bianca.
«È una forza della natura» ha detto.
«La tigre di Cremona.»
«Questa non è una tigre, è un usignolo con la forza di un rinoceronte e l’anima di uno scoiattolo.»
«Stai bene vestita di bianco.»
«Me l’hai già detto.»
«Volevo ripetertelo.»
«Hai fatto bene. Ti piace questo?»
E mi ha mostrato il ciondolo a forma di rosa che scendeva a lambire l’insenatura tra i due seni microscopici.
L’ho preso in mano.
«Sì, molto.»
E ci siamo avvicinati. Le nostre labbra.
«Vuoi baciarmi, Andrea?»
«Succede.»
«Te lo scordi.»
«Perché?»
«Hai ancora da sudare tu.»
«Ma perché?»
«La vita è un teatro, Andrea.»
«E il teatro è vita.»
«No. Il teatro è realtà. È tutto falso nella vita, Andrea. Guarda te.»
«E perché sarei falso?»
«Zitto e baciami.»
Ho chiuso gli occhi.
Ho avvicinato le mie labbra.
Ero io, ero appena arrivato a Milano, ero dentro la storia. Ero goffo, come non lo ero stato mai.
Ero a un passo da Bianca.
Mina cantava il suo ultimo pezzo.
Le nuvole e la luna ispirano gli amanti, cantava, ed ero a un millimetro da Bianca.
Un millimetro.
Bianca.
Bianca: che però fece uno scatto, voltandosi.
«Hai ancora da sudare tu.»
Ho sorriso.
È dall’ironia che comincia la libertà.
È biologico il mio amore, è zoologico fin dentro al cuore.
2
La radioattività dà brividi. Ma lei di più.
È l’inverno del 1965, è appena mattino.
L’aurora è sporca, tarda ad accogliere il primo giorno di lavoro dell’uomo in cappotto di lana pied-de-poule grigio.
Cammina.
Percorre strade a lui ignote, giunge ora da via Giuseppe Verdi, appena superato il Teatro alla Scala, che non si aspettava così: lo immaginava molto più imponente. Via Verdi è deserta, spicca solo l’insegna della Milano Libri.
L’uomo attraversa la strada, intravede, tra le intersezioni date dalla serranda chiusa, i volumi in vetrina, La noia dello scrittore d’apparato Alberto Moravia, Il male oscuro di Giuseppe Berto in copertina rigida vorticosa gialla e nera, Poesia in forma di rosa di Pier Paolo Pasolini, colui che molto sa.
L’hanno intervistato pochi mesi fa su un settimanale. Anche lui ha risposto al questionario “Sposeresti Mina?”. È stato uno dei pochi a rispondere no. “È troppo borghese.”
L’uomo in cappotto, a questo punto, non può porsi che una domanda: quali sono le vostre madri, che madri avete posseduto, dove sono disperse le vostre madri. E pensa, l’uomo in cappotto, al poeta Pier Paolo Pasolini.
Oramai è a Brera, sta accelerando il passo, come per un graffio al cuore.
Vede suo padre, tempo fa, compiere la stessa strada, con lo stesso passo, per giungere alla stessa destinazione.
“Papà” giunse su queste strade disperate e luminose con un carico di attese e dolori, che gli emigranti hanno tutti conosciuto, tanto bene. Quanto era stato diverso, le responsabilità!, l’approdo alla capitale morale, quella confusione e quella eccitazione continue, tutto quel traffico, da...