1
Le rotelline delle valige scorrono sull’acciottolato, poi frenano sul ghiaino. È l’unico rumore della mattina presto.
I passi di Carlo e di Alice sono leggeri, galleggiano in un’attesa come pensieri che si rincorrono quando si fa una scelta. Attorno a loro, solo palazzi addormentati. I ferri storti spuntano ancora dai muri con vestiti appesi, arrugginiti sulle facciate delle case, e qualche lampadina spenta, appesa anch’essa, dondola appena. Ora, percorrendo via Santa Giusta, hanno entrambi la sensazione di avere la polvere nel respiro. Sembra che tutto sia ricaduto su se stesso come un barbone ubriaco che russa a terra, e il suo fiato è la polvere, la polvere dell’Aquila.
La sento ancora in giro a distanza di anni. E adesso è come se la stessa polvere tornasse, sollevata da un vento che in realtà non c’è e scricchiolasse come la sabbia in bocca al mare, quando da bambino cascavi giù e la mamma ti ripuliva il volto. È semplice la vita da zero a dodici anni: non devi pensare a nulla, non hai responsabilità, sei libero e tuffato in un presente ampio in cui i giorni sembrano davvero lunghi il doppio di quando ne hai venti o quasi trenta, di anni, come ora. E poi non hai ancora amori da vivere o per cui soffrire.
Alice ha insistito per attraversare il centro, oggi che stiamo partendo, noi che siamo una fame moderna. Ma è nella storia dei popoli: si parte per avventura e per fame. Per lei le cose sono sempre anche simboli, esempi, gesti politici. E allora passare di qua in quest’alba le sembra fondamentale. Io non l’avrei mai fatto, guardarmi attorno era ed è un’altra coltellata. Non solo l’invasione dei ricordi – quanti in queste strade – ma il dover masticare la convinzione che non sarà più.
Qui lo pensano tutti che non sarà più, anche quelli che lottano ogni giorno. Nessuno parla più di ricostruire, in questa Italia povera e senza soldi. Le casette con lo champagne regalato da Berlusconi sono diventate ormai la vita quotidiana. E se penso che nell’armadio quella bottiglia è ancora incartata e che mia madre non ha voluto aprirla neanche il giorno della mia laurea, mi viene una tristezza infinita. Non c’è più niente di provvisorio nelle casette, le persone hanno ricreato per forza una nuova dimensione sociale – forse sarebbe meglio definirla “asociale”, ma mamma ne è orgogliosa. Secondo lei dobbiamo ringraziare, ripete che si poteva morire, che poteva andare peggio. Io non riesco ad avere questo senso di grazie assoluto, questa umiltà.
Camminano e non dicono nulla. Sono stati giorni di attesa, hanno destinazioni diverse ma sono complici in questa fuga. Cerco gli occhi di Carlo, li cerco e lui sta sempre lì chinato a guardare il percorso. Penso a quell’immagine bellissima di Chaplin che, presa per mano la ragazza, si avvia verso una lunga strada. E penso a mia madre che in fondo alla via, vicino al cartello di accesso vietato, ci spia da lontano mentre percorriamo una via incorniciata da ponteggi, tubi innocenti e brandelli di case.
Chissà cosa pensa un genitore quando un figlio se ne va.
Cerco la mano di Carlo.
Attraverso questo spazio per la memoria. Ci sono cose che si fanno per dare a noi stessi un tempo, un segno: le feste, le celebrazioni, gli anniversari. Se c’è un segno diventa come un bacio alla stazione, prima di partire, resta! Così resta la mia città, proprio com’è, non soltanto nel mio ricordo di tutti questi anni ma a pezzi e si deve stampare forte in me. Qui si potrà venire come al cimitero a piangere, a ricordare. Però la vita è altrove.
I passi sono nel silenzio, fino alla stazione, dove tutto appare sospeso in piccoli rumori, sguardi bassi, luci ancora accese dalla notte, anche se è settembre e fuori il cielo è già chiaro.
2
È il primo treno verso Terni, quello delle 6.19, e i passeggeri per lo più dormono, qualcuno ascolta musica, pochi chiacchierano sottovoce. Carlo e Alice hanno gli occhi fissi al finestrino, le loro montagne e i boschi in fondo.
Genova. Alice ci pensa e ci ripensa. Il colloquio di lavoro che ho fatto venti giorni fa mi ha spiazzato: non me le aspettavo così, né le vie del centro né la comunità. La città è semplicemente bella, il porto, i caruggi, via del Campo di De André e proprio lì vicino questa casa a Prè. Forse ho deciso subito per l’odore, l’odore che ho sentito quando sono entrata nell’alloggio.
Giacomo mi ha mostrato le stanze, la cucina; ogni ambiente aveva un odore di spezie e di vita. Poche parole: «Il rimborso sono solo cinquecento euro». E poi, ancora: «Questo è un lavoro delicato, particolare, hai qualche esperienza?». Ho fatto tirocinio in uffici vari, consultori, i concorsi pubblici sono andati male e ora nulla, questa esperienza di casa-famiglia mi interessa molto. Così gli ho risposto. E poi sono cinquecento euro, ma si può vivere, dormire e mangiare lì… Ci abita un gruppo di adolescenti affidati, fanno le elementari o le medie, vanno dai dieci ai quattordici anni, eppure hanno facce da adulti. Vengono da storie difficili in famiglia: tossici, prostitute, emigrati africani, arabi, cinesi, genitori separati, senza lavoro o incapaci di gestirli.
Occhi chiusi, sonno… In una sola settimana, dopo un anno di tentativi e di attesa, io ho avuto lo stage a Genova. E Carlo, passati due giorni, ha saputo che è stato preso in un’azienda vicino a Bologna. Che strana la vita. In questi anni ho sempre pensato che ci saremmo sposati, e senza il terremoto l’avremmo fatto: la casa di zia era vuota, avremmo potuto trasferirci là. E anche dovendo partire, l’avremmo fatto da sposati. Sarebbe stato diverso, lui magari avrebbe seguito me da qualche parte o io lui, ma ora no, dobbiamo scegliere giorno per giorno ed è normale seguire le opportunità. Il destino ci regala nuove vie distanti.
E se ci perdiamo? Dio mio, non voglio.
Il treno è lento e si è fermato più volte, a Rieti, a Sabina, poi hanno cambiato a Terni. Ora Carlo guarda Alice che si è appisolata sul bordo del sedile, in fondo allo scompartimento. Chissà poi come si chiamano ora: non è uno scompartimento, non divide niente, è tutto aperto. Sembra sempre di sporcarsi, qui dentro. Non ne posso più di stazioni, trenini di pendolari, ore sei di mattina e facce da sonno. La mamma voleva che portassi la macchina, ma la prenderò forse la prossima volta. Che palle partire. Con tanta più rabbia, sapendo che nei paesi vicino a Modena tutto sta ripartendo, muovendosi con energia, e qui io me ne vado. Ma poi che fa un architetto al Sud? Alice apre gli occhi, che belli che sono, mi hanno sempre commosso.
Sono quasi a Roma. Alice guarda fuori. Da lì si cambia ancora: si entra nell’altra Italia, quella rapida dei treni veloci, del ticketless, delle voci che ti avvisano a ogni stazione, delle salviette e dei biscottini. È un salto temporale. Parti in un’epoca e ti ritrovi in un’altra viaggiando su un treno. Anche il paesaggio lo vedi diverso, sfugge, non riesci a sbirciare dentro alle case come prima, non vedi la gente fare colazione o stirare mentre il treno rallenta arrivando in stazione, non vedi i contadini nei campi. Solo qualche gregge ogni tanto, macchie su un prato. «Come va?» Tira fuori qualcosa dallo zaino. «Guarda, questo è il test, mi hanno detto di portarlo. Ma chi se le inventa ’ste cose?» Alice sorride di rimando e si mette a leggere.
«Quali sono tre pregi e tre difetti che ti caratterizzano? I tuoi punti di forza nelle relazioni con gli altri? Dove ti vedi tra cinque anni? Ma tu hai confessato che non te ne frega niente della moda?» Si mette a ridere e Carlo le stringe i polsi per gioco. È ancora lei a parlare. «Il lavoro è molto lontano da Bologna?» «No, con l’autobus non è lunga. Però oggi vado in treno.» «A che ora devi essere lì?» «Nel pomeriggio mi presentano i colleghi. Stanotte poi dormo già nella casa che mi hanno trovato loro. Speriamo che sia vicina all’azienda.» «Be’, mi dovrai raccontare tutto.» «Anche tu.»
Quando si devono separare a una banchina di Termini, si difendono, evitano le dichiarazioni, le parole forti.
Si danno un bacio e un pizzicotto sul sedere, prima di dividersi. Poi lo sguardo va altrove.
3
Alice certe volte mi bacia così, come se diventasse me. E questo bacio mi rimane addosso. Spero mi tenga compagnia per un po’. Perché adesso non ci capisco niente in questo universo sotterraneo della stazione di Bologna. Scale mobili, spazi enormi ancora deserti. Che ci faranno? Negozi, che speriamo diano tanti posti di lavoro. Dov’è il treno per Castenaso? Mi tocca risalire in superficie, è dall’altra parte del piazzale e devo pure aspettare un po’.
Questa è la sala d’attesa della bomba, che impressione. E mi fa specie pensare che sono nato lo stesso mese dello stesso anno, appena dieci giorni dopo l’esplosione. A volte penso che potrei essere la reincarnazione di una delle vittime. Ma poi mi dico che sarei molto più incazzato con il mondo. Un caffè e poi un trenino vecchio quanto quello preso all’Aquila. Un altro salto nel tempo.
Il manifesto pubblicitario di una linea di biancheria intima femminile giganteggia sul piazzale asfaltato in cui fa il suo ingresso Carlo. È il parcheggio di un’azienda di medie dimensioni, significativo esempio di eclettismo industriale di provincia.
Lui aveva sempre desiderato fare l’architetto. Così, dopo la laurea, aveva cominciato con i tirocini negli studi. E non si sarebbe mai immaginato di trovarsi lontano dall’architettura, a progettare vestiti in quel posto. Già alla sua prima visita per il colloquio, era rimasto colpito: il nucleo originario della sede era ricavato da un antico granaio. C’era poi un ampliamento, forse realizzato tra gli anni Sessanta e Settanta, con strutture in cemento armato a vista e infissi color turchese. E, più in là, un recente fabbricato per uffici in stile postmoderno, con tanto di frontone neoclassico e vetrate a specchio. Intorno, il paesaggio ex agricolo indifferenziato della più grande pianura italiana.
All’interno, il banco informazioni a isola è enorme e asettico e la signorina, indaffaratissima, è munita di auricolare e microfono per avere le mani libere. Appena finisce una telefonata, Carlo si fa avanti.
«Buongiorno, ho un appuntamento con l’amministratore delegato.»
«Si chiama?»
«Carlo Festa.»
«Aspetti, l’accompagno.»
La segretaria lo invita a seguirla e gli fa strada fino all’ascensore, dove salgono assieme mentre lei lo guarda fisso negli occhi.
«Buongiorno, è arrivato Carlo Festa» dice lei, appena entrati nell’ufficio.
«Sì, grazie. Molto piacere, io sono Cremonini. Benvenuto fra noi.»
«Il piacere è mio. Carlo Festa.»
Cremonini sorride. «Qui, poche feste e molto lavoro. Mi ha portato il test?»
«Eccolo.»
«Bene. Venga con me, la accompagno nella sala multimediale, così si fa un’idea dell’azienda e del progetto di cui sarà parte.»
Sono stanca, stanca ancora prima di cominciare. Sarà la paura. Il mare! Che strana questa terra tutta stretta, ripida. È bellissima, però. E la donna qui di fronte che farà? Che bei capelli ha, gli occhi chiari. Sembra nonna. Che direbbe nonna di questo viaggio? Avrebbe pianto, sì, avrebbe pianto e mi avrebbe detto di restare a casa. Ma se non ero felice, no. Mi avrebbe chiesto, come sempre: sei felice? Avrebbe fatto la pasta da portare via. Mah… non ho neanche voglia di leggere.
Ulivi, agavi, fiori, macchie verdi. Strade di curve fino a una casa arroccata, terrazze di vigne. E dall’altra parte, la distesa blu. È scura e i riflessi la illuminano a tratti. È un mare diverso, che porta dentro una specie di timore.
Carlo segue Cremonini lungo il corridoio fino a una porta chiusa a chiave, mentre pensa che non gli è stata data nessuna informazione sul contratto, sugli orari di lavoro. Poi si siede da solo in una sala riunioni con anonimi mobili di design. Il grande monitor davanti a lui si accende, parte un filmato.
“Che cosa distingue l’essere umano dagli altri animali terrestri? L’intelligenza, la creatività, il gusto, l’attenzione per i dettagli, il piacere di piacere e di piacersi…”
Osserva le immagini di repertorio, montate con taglio veloce, come in certi servizi televisivi di moda e costume.
“… Dalla conquista della posizione eretta nessun’altra parte del corpo, nel corso dei secoli, ha rispecchiato l’evoluzione umana più del seno femminile. Da appendice corporea, sia pure importante per la sopravvivenza della specie, esso ha attraversato da protagonista la Storia, le sue culture, i costumi di ogni luogo e tempo: mortificato nelle epoche buie, è stato venerato da grandi civiltà del passato, idealizzato dagli artisti, vagheggiato dai poeti, assurgendo di volta in volta a simbolo di seduzione, desiderio, sensualità, personalità, tenerezza, liberazione, emancipazione, trasgressione, intimità, e naturalmente femminilità…”
Lo sguardo di Carlo è attento di fronte al succedersi senza interruzione di: una divinità indiana con cento mammelle, il famoso dipinto del Louvre Gabrielle d’Estrées et une des ses soeurs – in cui sono raffigurate due dame cinquecentesche al bagno, una intenta a toccare il capezzolo destro dell’altra – il seno nudo di Vittoria Carpi, la prima a mostrarlo al cinema nella pellicola La corona di ferro, filmati sessantotteschi con ragazze a petto scoperto, fotogrammi di film americani recenti in cui un lui affonda il volto nel seno di una lei.
“Da un’indagine condotta a livello europeo risulta che, per l’82% degli uomini e il 67% delle donne, il seno è la parte del corpo di una donna più considerata nelle situazioni quotidiane di socialità. Un’importanza crescente, nella civiltà dell’immagine, della comunicazione, della moda…”
Ora Carlo sorride. Venti minuti di tette: il lavoro comincia bene. E poi ancora Belén che sfila con un vestito scollatissimo, attrici di Hollywood durante la notte degli Oscar che sfoggiano abiti succinti, e Sabrina Ferilli in una serata televisiva, con il suo invidiabile d...