
- 415 pagine
- Italian
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- Disponibile su iOS e Android
eBook - ePub
Informazioni su questo libro
"Più coinvolta che mai, Tempe Brennan regala a questo romanzo magistrale un surplus di emozioni." Publishers Weekly "La serie di Temperance Brennan conferma di essere intelligentee ben congeniata. Katy Reichs è una vera esperta." The New York Times "Kathy Reichs ha l'incredibile capacità di rendere completamente plausibili situazioni quasi impossibili. E il lettore non può fare altro che sedersi, allacciare le cinture e continuare la corsa." Bookreporter
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Informazioni
Print ISBN
9788817074643eBook ISBN
9788858671054Prima parte
1
Nella mia vita sono stata rinchiusa in una cantina, nella cella frigorifera di un obitorio, nei condotti della rete fognaria… Esperienze spaventose e snervanti, ma quell’agonia le superava tutte in termini di dolore fisico.
La camera dei giurati del tribunale della contea di Mecklenburg era il meglio della sua categoria: wi-fi, postazioni di lavoro, tavoli da biliardo, film, popcorn. Pur avendo la possibilità di richiedere l’esonero, non l’avevo fatto: ah, il proverbiale senso civico della dottoressa Brennan! E poi, considerata la mia professione, ero abbastanza sicura che mi avrebbero dispensato, perciò, programmando la giornata, avevo messo in conto sessanta, novanta minuti al massimo da passare in tribunale a congelarmi i talloni.
Già , i talloni! Seguite il mio ragionamento. Per il lavoro che faccio, il top della calzatura è lo scarpone che respira in Gore-Tex, o al massimo lo stivale di gomma. Ho maggiori probabilità di trovare ossa di gigantosauro sul retro del Bad Daddy’s Burgers che di comprare – e tanto più indossare – scarpe con i tacchi alti.
Mia sorella Harry, però, mi aveva convinto a prendere un paio di Christian Louboutin tacco sette. Lei vive in Texas, terra di chiome bionde e décolleté a spillo. «Ti daranno un’aria professionale» aveva insistito. «Un aspetto autorevole. E poi sono scontate del sessanta per cento.»
Dovevo ammettere che la lucida pelle e le raffinate impunture erano favolose sul mio piede, ma… il comfort? Non altrettanto favoloso, dopo tre ore di attesa. Quando infine l’ufficiale giudiziario chiamò il nostro gruppo, entrai in aula e – alla menzione del mio numero – raggiunsi il banco della giuria, praticamente barcollando.
«Nome per esteso, prego» esordì Chelsea Jett, laureata in legge da sei minuti: tailleur da quattrocento dollari, costoso girocollo di perle multi-giri, tacchi che lasciavano i miei nella polvere. Pubblico ministero fresco di nomina, camuffava i nervi tesi con la severità dell’atteggiamento.
«Temperance Daessee Brennan» scandii. Renda le cose più facili per tutti e due. Mi rimandi subito a casa.
«Il suo indirizzo.»
Lo dichiarai. «È a Sharon Hall» aggiunsi, tanto per mostrare un minimo di spirito di collaborazione. Villa del Diciannovesimo secolo, mattone a vista, colonnato bianco, magnolie. La mia dimora era stata ricavata dall’edificio che un tempo era la rimessa delle carrozze: più Vecchio Sud di così non si poteva. Una considerazione che tenni per me.
«Da quanto risiede a Charlotte?»
«Fin dall’età di otto anni.»
«Qualcuno vive con lei al domicilio indicato?»
«Mia figlia, periodicamente, ma non al momento.» Avevo al polso il bracciale che Katy mi aveva regalato prima di partire: una delicata fascetta in argento con inciso: MAMMA SPAKKA!
«Stato civile?»
«Separata.» E con una relazione che è un casino. Tenni per me anche questo commento.
«Lavora?»
«Sì.»
«Nome del datore di lavoro, prego.»
«Lo Stato del North Carolina.» Meglio restare sul semplice.
«La sua professione è…?»
«Antropologa forense.»
«Qual è il titolo di studio richiesto per l’esercizio di tale professione?» Irrigidendosi un poco.
«Ho conseguito una laurea specialistica e l’abilitazione dell’American Board of Forensic Anthropology.»
«Quindi effettua autopsie.»
«Lei si confonde con il patologo forense. Un errore piuttosto comune.»
La Jett s’irrigidì ancora di più.
Le sorrisi. Lei non ricambiò.
«L’antropologo forense lavora con i cadaveri sui quali è impossibile condurre il normale esame autoptico: semplici scheletri o resti mummificati, decomposti, smembrati, combusti, mutilati. La nostra consulenza viene richiesta in merito a svariate problematiche risolvibili attraverso l’analisi delle ossa. Per esempio: i reperti ossei in questione sono umani o animali?»
«E ci vuole un esperto per appurarlo?» chiese scettica.
«Alcune ossa sono ingannevolmente simili nell’uomo e nell’animale.» Rividi con la mente i reperti mummificati che mi attendevano proprio quel giorno all’MCME, il Mecklenburg Country Medical Examiner. «I resti frammentari possono essere piuttosto difficili da valutare. Appartengono tutti a uno stesso individuo? A più d’uno? Ad animali? A uomini e animali insieme?» Non lo avrei scoperto finché fossi rimasta lì, con i piedi che mi si gonfiavano come cadaveri in acqua.
Un cenno impaziente della mano curata m’invitò a proseguire.
«Se i resti sono umani, vi ricerco indicatori di età , sesso, razza, altezza, malattia, deformità e anomalie varie: qualunque cosa possa rivelarsi utile all’identificazione. Analizzo eventuali traumi, per determinare la causa del decesso. Stimo il lasso di tempo intercorso dal momento della morte e ipotizzo il trattamento cui sia stato sottoposto il cadavere.»
La Jett inarcò un sopracciglio, interrogativa.
«Decapitazione, smembramento, seppellimento, immersione…»
«Okay, ha reso l’idea.»
Abbassò gli occhi sulle domande che si era annotata. Una lunga, lunghissima lista.
I miei trovarono l’orologio da polso, poi si spostarono sugli sventurati che ancora attendevano di essere interrogati. Mi ero vestita in modo da comunicare rispetto per l’istituzione e proiettare l’immagine che ci si attende da un rappresentante dell’ufficio del medico legale: tailleur pantaloni di lino beige, sottogiacca in seta a collo alto. Lo stesso non poteva dirsi dei miei compagni di prigionia. La mia preferenza andava alla signora in jeans, canottiera e sandali. Non proprio haute couture, ma avevo la netta sensazione che i suoi piedi se la passassero meglio dei miei. Cercai di sgranchire le dita nelle due morse che le attanagliavano. Invano.
La signorina Jett inspirò a fondo. Che cosa aveva in mente? Senza aspettare di scoprirlo, proseguii.
«In qualità di antropologa forense dello Stato, sono alle dipendenze della University of North Carolina, presso cui tengo un seminario di livello avanzato, dell’ufficio del capo medico legale di Chapel Hill e dell’ufficio del medico legale della contea di Mecklenburg. Collaboro altresì con il Laboratoire de Sciences Judiciaires et de Médecine Légale di Montréal.» Tradotto: sono stracarica di lavoro; faccio da consulente a forze di polizia, FBI, esercito, coroner e medici legali: sa bene che, se non mi dispenserà lei, lo farà di certo la difesa.
«Mi sta dicendo che lavora con frequenza regolare in due Paesi diversi?»
«Non è strano come sembra. In gran parte delle giurisdizioni, l’antropologo forense è considerato un consulente specialistico. Come dicevo, i miei colleghi e io veniamo chiamati solo nei casi in cui non sussistono tessuti molli in quantità sufficiente a consentire l’autopsia, oppure se i resti…»
«Il concetto è chiaro.»
La Jett passò in rassegna con il dito l’infinito elenco sul suo blocco a fogli gialli.
Io stirai – tentai di stirare – le mie povere falangi.
«Nello svolgimento della sua attività per conto del capo medico legale entra in contatto con le forze dell’ordine?»
Finalmente! Grazie al cielo.
«Sì, spesso.»
«Con pubblici ministeri e avvocati della difesa?»
«Entrambi. E il mio ex marito è avvocato.» Quasi ex.
«Conosce personalmente qualcuno coinvolto in questa azione legale? L’imputato, la sua famiglia, gli investigatori di polizia, i legali, il giudice…»
«Sì.»
E con quella semplice risposta fui dispensata.
Ignorando le proteste delle mie estremità inferiori, sfrecciai zoppicando fuori dall’aula e oltrepassai le porte a vetri dell’ingresso. La mia Mazda era all’angolo opposto del parcheggio: giunta con dieci minuti di ritardo, quel mattino (l’orario di convocazione era alle otto), avevo posteggiato al volo nel primo spazio disponibile, benché lontanissimo dalla destinazione.
Attraversai la strada, con passo rapido ma malfermo, e, dopo aver aggirato una fila di veicoli, trovai la mia auto stretta da un SUV colossale sul lato guida, e ancor più inaccessibile dall’altra parte. Con le ghiandole sudoripare in piena attività , mi strizzai tra le due portiere e i retrovisori, tette e fondoschiena che ripulivano mio malgrado le fiancate tra cui mi trovavo compressa. Ora il mio bel tailleur di lino beige dava l’impressione che mi fossi rotolata in una discarica.
Mentre aprivo, appena di uno spiraglio, e m’infilavo al volante, qualcosa mi cadde ai piedi, tintinnando. Una persona di buon senso – una persona con calzature di buon senso, cioè – si sarebbe fermata per vedere quale componente meccanico dell’auto fosse finito a terra, ma io ero tutta concentrata sulla fuga.
Con i piedi in fiamme, infilai la chiave nel blocchetto d’avviamento e mi piegai per sfilarmi la scarpa destra, ma quello strumento di tortura mi aderiva al piede come se fosse incollato.
Tirai più forte.
Il piede mi esplose fuori dalla trappola. Con varie manovre e contorsioni, ripetei l’operazione a sinistra.
Mi appoggiai allo schienale e fissai un paio di spettacolari vesciche, poi le odiate Louboutin che avevo in mano.
La mia mano.
Il polso.
Il polso nudo.
Katy.
Un familiare senso di panico mi strinse il cuore.
Lo scacciai.
Concentrati. Il bracciale ...
Indice dei contenuti
- Le ossa dei perduti
- Frontespizio
- Copyright
- Dedica
- Prologo
- Prima parte
- Seconda parte
- Terza parte
- Epilogo
- Dagli archivi della dottoressa Kathy Reichs