Il privilegio di essere un guru
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Il privilegio di essere un guru

  1. 208 pagine
  2. Italian
  3. ePUB (disponibile sull'app)
  4. Disponibile su iOS e Android
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Il privilegio di essere un guru

Informazioni su questo libro

«Leggetelo tutto d'un fiato dalla prima all'ultima pagina. Lasciatevi conquistare dalla scelta della geniale citazione iniziale, per poi abbandonarvi alle spassose vicende di Andrea Zanardi, casanova genovese dalla simpatia travolgente, dotato della capacità camaleontica e scientifica di diventare "uomo ideale" per ognuna delle sue prede, grazie anche a una faccia tosta disarmante, per poi svanire con una teatrale uscita di scena immediatamente dopo la conquista. Fino a quando, quasi senza accorgersene, scopre di avere una vocazione ancora più grande...
Licalzi mette alla berlina con intelligente ironia parecchi luoghi comuni, comportamenti e mode prêt-à-porter, compresa quella di importare spiritualità orientale con la quale ci illudiamo di affrancarci dalla prosaicità del quotidiano occidentale. E in questo irresistibile e surreale viaggio tra i nuovi miti new age Andrea Zanardi è con noi, con ogni lettore che ride e si dispera per raggiungere l'amore restando al passo coi tempi.» - Neri Marcorè

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Informazioni

Editore
BUR
Anno
2014
Print ISBN
9788817075442
eBook ISBN
9788858670415

XX

I miei giorni all’ospedale Juntendo sono trascorsi tra flebo, miorilassanti, antiinfiammatori vari e sedute di Reiki. Un’ora al mattino e una al pomeriggio. La famosa clinica specializzata in Reiki che mi aveva mandato il terapeuta, uno che parlava solo giapponese e col quale non sono entrato tanto in confidenza, era la Hayaschi’s Shina No Machi Clinic. Avete capito bene, era la sua!, di quella faccia marcia di Hayaschi, che quando poteva dirottava i pazienti dell’ospedale alla clinica e quando non poteva faceva venire i suoi scagnozzi in ospedale. Comunque devo dire che il Reiki su di me ha funzionato un’altra volta, dopo qualche giorno, infatti, i dolori mi erano quasi del tutto passati e dopo una settimana, alle lastre di controllo, si è visto che i calcoli, almeno un po’, si erano davvero ridotti di spessore.
«Troppo poco», ha sentenziato Hayaschi guardando le lastre e scuotendo la testa, «bisogna intensificare». Così le ore di Reiki sono passate a quattro, due la mattina e due il pomeriggio e Hayaschi ha guadagnato il doppio.
Per il resto mangiavo poco, ma non così male come mi sarei aspettato (intendiamoci, negli ospedali giapponesi si mangia male, ovviamente, ma si mangia meglio che negli ospedali italiani e perfino meglio che nei ristoranti giapponesi in Italia); comunque, fortunatamente, mi avevano imposto una dieta rigidissima e mi hanno sempre dato riso in bianco, tè verde e delle brodaglie rosse che buttavo regolarmente nel cesso. Bianco, rosso e verde, si vede che ai pazienti italiani danno questa roba qui per ricordargli l’Italia, che gentili.
Devo dire, comunque, che da quando sono qui, mi sono calmato. Sul piano sessuale intendo. Sarà stata la malattia, i dolori, lo stress, i miorilassanti, ma non sono mai stato molto eccitato, fortunatamente. Dico fortunatamente perché i primi cinque giorni avevo il catetere ed eccitarsi col catetere non credo che sia una buona cosa.
Da quando mi hanno tolto il catetere e i dolori mi sono passati ho incominciato a guardarmi un po’ intorno, timidamente, ma qui all’ospedale Juntendo è la morte civile, oddio, magari in giro c’è vita, ma Hayaschi non vuole che i suoi pazienti lascino il reparto e scorazzino in pigiama per l’ospedale e vadano al bar a fumare come succede in Italia, così posso attaccare bottone solo in corsia, ma c’è poco da attaccare bottone, purtroppo. Le malate sono riserva di caccia dei medici, almeno le prime scelte, e le seconde scelte giapponesi sono come le terze scelte italiane, che vanno bene al massimo per i barellanti. I parenti pensano solo ai malati e scappano via il più presto possibile, e quelle che vanno nell’atrio a fumare sono preda degli infermieri, o di qualche medico che va apposta nell’atrio a fumare, e in ogni caso noi malati nell’atrio a fumare non ci possiamo andare, fumiamo nei cessi, e nei cessi non è che ci sia questo gran movimento. I primi giorni è venuta due o tre volte una bella neurologa per una consulenza perché non dormivo mai, e devo dire che ho fatto un po’ il simpatico e le ho chiesto anche il numero di telefono, ma lei non ha capito, o non ha voluto capire. Cosa volete, uno in pigiama, con i calcoli, la prostatite, l’ulcera, il catetere, e che quando eiacula forse prova dolore, non ha tutto questo fascino. Gli infermieri sono tutti uomini, tranne tre: una che ha sessant’anni, un’altra che è un botolo che più che una donna sembra una palla, e l’ultima che è lesbica, almeno corre voce che sia lesbica. Qui si spettegola alla grande, soprattutto le ausiliarie sono tremende, e anche se io i pettegolezzi in giapponese non li capisco tanto bene, di questa qui dev’essere vero perché la prima volta che l’ho vista l’ho presa per un uomo e poi un giorno Schillaci, un inserviente mio amico impallato col calcio e con l’Italia che, appunto, si fa chiamare Schillaci, me l’ha indicata e poi si è messo a ridere e s’è toccato un orecchio con la punta del dito.
Ah, dimenticavo, la caposala! Quella è bella davvero: sui trent’anni, nera, sexy, formosetta, sempre truccata giusta, sulle sue ma educata, insomma una che la noti e che giù dal letto non la butti di sicuro. Ma la caposala è l’amante del primario, quel fighetto di Hayaschi, e lei non ha occhi che per lui, che tra l’altro è sposato e ha tre figli. Avevo visto giusto all’inizio, poi me lo ha confermato Schillaci. Mi ha indicato la caposala che era di spalle, poi mi ha indicato Hayaschi che era anche lui di spalle, mi ha fatto l’occhiolino e un inequivocabile gesto a stantuffo.
Come dicevo, ricoverato nel letto di fianco al mio c’era un ometto, un vecchietto almeno di ottant’anni, amorevolmente accudito da due giovani monaci zen. Anche lui era un monaco zen, ma non lo si capiva perché era in pigiama, e i monaci zen quando sono in pigiama sono uguali agli altri.
Era piccolo, nemmeno un metro e sessanta, magrissimo, con le orecchie a punta, e aveva due occhietti azzurri e vispi come quelli di un bambino. Aveva il volto ricoperto da un fitto reticolo di rughe, ma la cosa strana era che quelle rughe non lo invecchiavano per niente, anzi in qualche modo gli donavano un’aria senza tempo, direi quasi giovanile. Se stava serio anche le rughe si facevano serie, se rideva ridevano con lui, e negli altri momenti tutte le rughe si distribuivano nel suo viso in modo tale da dargli quella sua tipica espressione serafica e nello stesso tempo vagamente ironica. Era il guru carismatico di un monastero sperduto sul monte Fuji, uno dei monasteri più importanti di tutto il Giappone, meta di continui pellegrinaggi.
Era già lì da due mesi, pare che fosse caduto e che, non so come, si fosse spappolato un rene, così glielo avevano dovuto togliere, perché il Reiki non serve quando i reni sono spappolati, puoi fare tutto il Reiki che vuoi che i reni non si ripappolano. Era molto malandato ma si stava riprendendo, infatti lo hanno dimesso tre giorni prima di me. Non parlava da venticinque anni, perché, mi hanno detto i suoi due assistenti, aveva fatto un voto che avrebbe parlato solo quando avesse trovato il suo successore. Quando voleva dire qualcosa lo diceva a gesti o lo scriveva su un foglietto; in giapponese, se si rivolgeva ai suoi assistenti, in inglese se “parlava” con me. Il suo nome era impronunciabile così io per tagliar corto lo chiamavo «Maestro», in italiano, perché l’unico modo per dire «maestro» in inglese che conoscevo era teacher e non mi suonava bene.
Nei quindici giorni che abbiamo condiviso la camera, il Maestro ha chiesto solo cinque volte la padella e poi basta. La pipì, da quando gli avevano tolto il catetere, la faceva nel pappagallo, ma se lo prendeva da solo (intendo dire il pappagallo), invece a svuotarglielo ci pensavano i suoi due assistenti, e una volta, vaffanculo, gliel’ho dovuto svuotare io perché i suoi assistenti non c’erano (non era ora di visite) e quando ho suonato il campanello gli infermieri non si sono fatti vedere, proprio come in Italia. Lui non lo suonava mai, il campanello, piuttosto se la faceva addosso. Gli dicevo: «E suona il campanello noo, cos’è, hai paura di disturbare? Guarda che sono pagati per questo sai», e lui niente, rideva e mi guardava calmo come l’acqua di un pozzo. Rideva sempre, e aveva un modo di ridere tutto suo, faceva un mezzo sorriso nirvanico che sembrava che ti prendesse sempre in giro.
Una volta alle due di notte la terra ha tremato, ma tremato forte, io all’inizio non capivo cosa stesse succedendo, ma poi, quando sono venuti giù dei calcinacci, mi sono messo a urlare, e lui mi ha scritto: «Dormi, è solo un terremoto». E ora va bene che in Giappone ai terremoti ci sono abituati, però lui era così, era uno che galleggiava sopra tutto il dolore del mondo, mentre io affondavo soltanto nel mio. Non si lamentava mai, mangiava tutto quello che gli portavano e prendeva da bravo tutte le medicine che gli davano, anche se poi ho scoperto che le sputava (si curava di nascosto dai medici con delle cavallette che gli portavano i suoi due assistenti). Devo dire che all’inizio lo trovavo insopportabile, mi sembrava che se la tirasse con questa faccenda di non parlare, ma poi mi è diventato decisamente simpatico e siamo entrati in sintonia tanto che mi ha invitato ad andare a trovarlo al suo monastero, e la cosa mi ha fatto davvero piacere, non tanto per andarci, ma perché i suoi assistenti mi hanno detto che era molto difficile che lui invitasse qualcuno. Ha anche molto insistito, cioè, voglio dire... l’ha scritto due o tre volte sul foglietto.
Comunque, secondo me, è grazie a lui se ora sono praticamente guarito. Era anche lui un maestro Reiki (ma qui in Giappone sono tutti maestri Reiki), così emanava energia verso di me per farmi guarire, in pratica ero sotto Reiki ventiquattrore su ventiquattro, e gli ultimi cinque giorni, che si poteva alzare, mi ha dato la botta finale, mi ha imposto le mani sul rene malato per mezz’ora al giorno e i calcoli, tra lo stupore degli stessi medici giapponesi, si sono sciolti definitivamente come fossero stati zuccherini nell’acqua; ci sono le lastre a dimostrarlo! Quando l’ho ringraziato, lui mi ha detto, cioè mi ha scritto, che era me stesso che dovevo ringraziare perché ero stato davvero ricettivo, e che perfino lui si era stupito di questa mia ricettività, che aveva già sciolto dei calcoli altre volte, ma che aveva dovuto faticare molto di più e che non si erano neppure sciolti così bene come i miei.
Non è che fosse uno tanto di compagnia, recitava quasi sempre mantra o non so che cosa, e di notte russava. Una sera gli ho detto: «Maestro di notte russi e non mi fai dormire», e lui mi ha scritto che non russava ma recitava mantra notturni; invece secondo me russava perché quando una volta gli ho tappato il naso mentre recitava ’sti mantra notturni, lui ha smesso subito di recitarli, poi però ha ripreso.
Anche se lui non parlava siamo entrati in confidenza, perché non sembra ma vivere nella stessa camera d’ospedale nella malattia ti unisce e si torna un po’ bambini.
Io gli facevo degli scherzetti, tipo quello di nascondergli il pappagallo o di tappargli il catetere e lui rideva. E anche lui mi faceva degli scherzetti: quando lo mettevano con le gambe fuori dal letto, ad esempio, faceva finta di svenire, con tutta la scena di socchiudere gli occhi, ciondolare e poi afflosciarsi come uno che sviene, e quando gli andavo vicino preoccupato, apriva gli occhi e rideva.
Io gli dicevo: «Cosa ridi? Credi di essere furbo?», e lui mi scriveva: «Sì», e mi faceva arrabbiare ancora di più. Poi però ha smesso, sia di ridere sia di fare lo scherzo di quello che sviene, perché una mattina, che l’ha tirata un po’ troppo alla lunga e io ci sono cascato alla grande, per farlo rinvenire gli ho piazzato due sberle che ha il segno ancora adesso. «Ora non ridi più eh», gli ho detto, «No», mi ha risposto.
Una volta, proprio perché eravamo in confidenza, gli ho detto:
«Maestro secondo me tu non ce l’hai la faccia del guru», e lui mi ha scritto: «L’uomo esteriore rappresenta forse l’uomo interiore? E poi neanche tu hai la faccia del guru, se è per questo».
«Ehi, nervosetto eh», gli ho detto, «fai le battutine, e poi cosa c’entro io, io non sono mica un guru! Perché devi sempre rigirare la frittata?».
E lui allora mi ha scritto ancora: «Lo sei, non lo sai ma lo sei. Tu, Andrea, sei un uomo molto spirituale».
«Ma smettila, non ti ci mettere anche tu per favore, si vede proprio che non mi conosci... caro, io sono l’opposto della spiritualità».
«Ti conosco, invece», mi ha scritto, e poi si è rimesso a scrivere per un po’ e mi ha dato un altro biglietto che diceva:
«Per noi orientali tutti gli opposti sono polari e ognuno contiene in sé l’altro, sono due facce della stessa medaglia ed è nell’equilibrio di essi che si percorre la Giusta Via, anzi, paradossalmente, per raggiungere l’uno bisogna partire dal suo opposto».
Al che io gli ho detto: «Sì sì, cambia discorso che ti conviene, di’ la verità piuttosto, ci patisci eh, che non c’hai la faccia da guru?».
«Un po’ sì», mi ha risposto.
Era buono, lo si capiva benissimo, altrimenti non so come avrebbe fatto a sopportare tutto quel via vai di adepti che lo venivano a trovare. Sono venute anche due monache zen, ma erano brutte come il peccato, secche, pelate e senza un filo di trucco.
Gli piaceva da matti guardare la televisione anche perché mi ha scritto che su al monastero non ce l’hanno e che per lui era una novità. Così dovevo fare delle lotte tremende per fargliela spegnere, a una certa ora. Io gli dicevo: «Maestro ora basta televisione, è tutto il giorno che la guardi, poi ti fanno male gli occhi», e lui mi rispondeva: «Ancora dieci minuti e poi basta, per favore», ma quando, dopo questi benedetti dieci minuti, lo guardavo serio segnandogli l’orologio, lui mi ridava quel foglietto di prima, e rideva.
Gli piacevano tutti i programmi e più erano demenziali e più gli piacevano, e in Giappone si sa come sono i programmi. Impazziva per quelli tipo giochi senza frontiere alla giapponese, per il karaoke, perché così cantava anche lui (piano, facendo finta di recitare mantra) e per i Pokémon, soprattutto per Pikachu. E poi secondo me buttava anche l’occhio sulle ballerine.
E pensare che le ballerine giapponesi in confronto alle nostre fanno pena, quando ritorno in Italia gli faccio una bella cassetta con veline, schedine e letterine varie e gliela spedisco, così lo mando fuori di testa, tanto mi ha scritto che ora vuole comprarsi sia la televisione che il videoregistratore (l’indirizzo è facile: Monastero Zen – monte Fuji – Giappone, basta questo, il postino lo conosce).
Gli piaceva anche la musica, mi ha scritto che i giovani del monastero avevano messo su una sorta di complesso, gli Okeschi3, ma che eseguivano esclusivamente composizioni gagaku4, che non ho idea di che razza di musica sia, ma che doveva essere pallosissima, perché quando ha visto alla televisione il vecchio concerto di Mino Reitano Live in Osaka, dove c’erano duecentomila giapponesi in delirio, si è esaltato anche lui, e quando il grande Mino ha cantato una canzone che fa «Giappone Giappone», gli sono venute perfino le lacrime agli occhi, e se non lo tenevo mi cadeva giù dal letto da tanto si era eccitato.
Anche lui suonava uno strumento musicale, una specie di piffero zen che chiamava «shakuhaki», e voleva a tutti i costi che provassi a suonarlo anch’io. Suonava un po’ e poi mi faceva il gesto come dire tieni ora suona tu. E io a dirgli no grazie Maestro non sono portato per la musica e lui a insistere. Ero in imbarazzo perché, a parte il fatto che non mi interessava assolutamente imparare a suonare il piffero, mi faceva anche un po’ schifo, se devo essere sincero; ogni volta che suonava sbavava tutto il beccuccio tanto che mentre faceva il gesto di darmelo colava sempre un filo di saliva. Io non sono schizzinoso, però...
Un mattina un suo adepto è arrivato con un pacchetto per me. Era un regalo del Maestro.
«Sfascialo», mi ha scritto mentre lo rigiravo tra le mani e gli dicevo che non si doveva disturbare.
L’ho sfasciato: era un shakuhaki nuovo di zecca.
«Grazie Maestro è bellissimo», gli ho detto, «è proprio quello che volevo... che coincidenza... non ci crederai ma l’altro giorno pensavo che mi sarebbe piaciuto un bel shakuhaki... ed eccolo qua... ma come hai fatto a capirlo?».
E lui mi ha risposto: «Suona suona, non fare tanti discorsi inutili, ora non hai più scuse, questo è nuovo, non l’ha mai usato nessuno».
«Nooo... Maestro, ma cos’hai capito?, non era mica per quello... è che non sono capace...».
«E suona!», mi ha scritto.
Ho suonato. All’inizio soffiavo soffiavo e non usciva neppure una nota, solo aria, ma, c’è da non crederci, nel giro di dieci minuti sono riuscito a eseguire perfino qualche semplice melodia e dopo mezz’ora suonavo alla grande! Mi pareva di averlo sempre suonato, incredibile. Dopo un’ora col Maestro eravamo in piena jam session. Dopo due ore, mentre mi esibivo in un assolo di quelli tosti il Maestro mi ha scritto: «Bravo, bravissimo, lo sapevo che eri portato, ora però basta».
Appena il Maestro è stato in grado di camminare ci siamo anche fatti una bella foto insieme, in una cabina tipo quelle per fare le foto formato tessera che ci sono da noi che troneggiava nell’atrio del reparto (l’aveva voluta a tutti i costi Hayaschi, all’inizio non capivo esattamente perché, poi ho capito, è stato quando ho letto la targhetta della ditta che le vendeva e che faceva la manutenzione: «Purikura Hayaschi brother’s»). Queste purikura giapponesi, in effetti, non sono proprio cabine per foto tessera, ma veri e propri set fotografici con un variopinto campionario di accessori: si possono avere parrucche, cappellini vari, sfondi di ogni tipo. Così io mi sono fatto dare un turbante (c’era un ausiliario incaricato da Hayaschi che ti forniva i gadget con un piccolo sovrapprezzo) e a lui gli ho infilato in testa una bella parrucca bionda cotonata. Ci siamo messi tutt’e due gli occhiali da sole, ci siamo scelti lo sfondo delle Maldive e clic! Io sono rimasto un po’ coperto dal suo testone, ma la foto è bellissima. Ne abbiamo dovuto far fare dieci copie perché la volevano tutti.
Anche se col Maestro non avevamo mai affrontato discorsi seri (e come...

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. I
  4. II
  5. III
  6. IV
  7. V
  8. VI
  9. VII
  10. VIII
  11. IX
  12. X
  13. XI
  14. XII
  15. XIII
  16. XIV
  17. XV
  18. XVI
  19. XVII
  20. XVIII
  21. XIX
  22. XX
  23. Nuvole bianche dopo la tempesta (Dieci anni dopo)