La sera i conigli uscivano dalla boscaglia. Grigi e arruffati, come se avessero appena concluso una battaglia tra i pini. Poco dopo un gheppio fluttuava impassibile nel cielo e distendeva le ali nel vento in attesa dell’occasione giusta per gettarsi sulla preda.
Dall’alto Tim vedeva un sacco di cose.
Il profumo di aglio e rosmarino si levava nell’aria – doveva essere il cuoco che iniziava a preparare la cena – e si mescolava con il sentore dei limoni del frutteto. Un quieto ronzio proveniva dall’irrigatore che lentamente bagnava le cordiline intorno alla piscina.
Erano passate tre settimane da quando Tim Bergling aveva ricominciato ad accogliere i propri cari intorno a sé. Era seduto sul tetto del centro di riabilitazione, su una sdraio che il personale lo aveva aiutato a issare lì in cima, sopra le tegole rosse. Nella foschia del Mediterraneo scorse in lontananza l’isola, quella che la gente raggiungeva in traghetto per fare snorkeling e dimenticare la sbronza un attimo prima di buttare giù la prima pasticca della serata e ricominciare da capo.
Ora però era autunno. I turisti festaioli erano tornati a casa, il Privilege, lo Space e il Pacha avevano terminato la stagione, perfino le cicale cominciavano a tacere.
Si accorse che l’estate del 2015 era trascorsa in un’unica nebbia oscura. Era rimasto nella villa bianca sulla punta meridionale di Ibiza a stressarsi perché le canzoni non erano mixate in modo abbastanza pesante e perché la casa discografica voleva che andasse a Londra per delle interviste.
“Stories” doveva diventare il seguito del primo album, quello che due anni prima aveva trasformato Tim Bergling da DJ acclamato nelle discoteche a fenomeno mondiale del pop. L’uscita del disco era stata ritardata di un anno e Tim aveva avuto difficoltà a concentrarsi.
Il suo corpo aveva smesso da tanto tempo di funzionare a dovere. E nell’ultimo anno, dopo l’operazione, sentiva qualcosa crescergli nello stomaco. Era ossessionato da quella massa. Più ci pensava, più la sentiva distintamente. Come un tumore che si nutriva di lui. E mentre la massa sconosciuta si ingigantiva lì dentro, lui suonava ai festival estivi in giro per l’Europa, e ogni domenica riempiva l’Ushuaïa, il locale house più di tendenza di Ibiza. Quando, dopo l’ultima serata della stagione, si era svegliato nel pomeriggio, era convinto che sarebbe tornato a casa, a Los Angeles. Invece aveva trovato tutti riuniti al pianterreno della villa. C’era suo papà Klas, e da Stoccolma erano arrivati il manager Arash e anche suo fratello maggiore David. Il tour manager, la guardia del corpo e ovviamente i “fratelli”, gli amici d’infanzia che per un annetto l’avevano seguito ovunque andasse.
Gli avevano spiegato che erano preoccupati. Che erano stanchi di mentire ogni giorno alla domanda su com’era lavorare per Avicii. Avevano pianto, distrutti.
Alla fine Tim aveva acconsentito a farsi ricoverare nel centro di riabilitazione, più che altro per zittire le loro lamentele incessanti sul fatto che si trascurava ed era inaffidabile.
I primi giorni, durante l’avvio della disintossicazione, aveva perlopiù dormito. Poi però il responsabile terapeutico Paul Tanner gli aveva consigliato di cominciare a scrivere.
Il mio primo ricordo è un bagnetto con mia mamma oppure lei che mi canta una ninna nanna, o mio papà che entra a girare la vecchia cassetta dal lato A al lato B con le fiabe mentre cerco di addormentarmi.
Le parole gli uscivano a fatica. Aveva vissuto così a lungo nel soffice inganno dello stordimento che sulle prime scrivere era stato estremamente difficile. Però ne coglieva l’importanza: dare un nome alle esperienze rendeva più facile parlarne, lo aiutava ad avere uno sguardo sulla vita che lo aveva condotto in quel luogo nel settembre 2015.
Quando le frasi uscivano, non riusciva più a smettere. Invece di dormire, passava le notti al computer a scrivere. Raccontava della propria infanzia, dei fratelli, di come aveva scoperto la musica e di come la sua carriera era decollata. Scriveva del complicato rapporto con il suo manager Arash e dei periodi con le fidanzate Emily e Racquel.
I pomeriggi erano dedicati a lunghi colloqui con il responsabile terapeutico. Discutevano di concetti come strategie di sopravvivenza e repressione. Tim analizzava le nuove informazioni in modo sistematico, come aveva sempre fatto.
Solo adesso si rendeva conto di quante cose aveva messo da parte. Si era costretto ad andare avanti per così tanto tempo che quella era diventata la quotidianità.
All’improvviso vedeva tutto in modo radicalmente diverso. Perfino i sentimenti pesanti che non voleva provare, con cui si era scontrato fin dall’infanzia – l’agitazione, l’ansia, la paura –, forse avevano un senso anche quelli? Cominciava a percepirli come una bussola, uno strumento che poteva aiutarlo a individuare una nuova direzione.
Il sentimento in sé può avere un’energia positiva o negativa, ma nessun sentimento ha un intento negativo.
Per molto tempo aveva oltrepassato i limiti, vivendo nel dolore. Quello fisico dello stomaco, ma anche quello psicologico. Non si era soltanto schiantato contro il muro, lo aveva attraversato, diverse volte. Si era trovato ai confini con la morte: era questa la sensazione.
Avrebbe voluto essersi messo in ascolto prima.
Questo racconto si basa su centinaia di interviste e su innumerevoli ore di conversazione con coloro che hanno conosciuto Tim Bergling e lavorato con lui. Attraverso la sua famiglia ho avuto accesso a note sul cellulare, chat, disegni, foto e tablet pieni di e-book che Tim divorava con intensità sempre maggiore. Ho visto videoregistrazioni, sia private sia professionali, e ho potuto dare un’occhiata al modo in cui Tim strutturava le canzoni con il programma che usava per comporre.
Ho visitato le discoteche di Ibiza e di Miami, e le case in cui ha abitato a Stoccolma e a Los Angeles, ho avuto conversazioni durante viaggi in macchina nel deserto di Las Vegas, ai festival house di Amsterdam, davanti a tè e biscotti a Londra e di fronte a salmone e patate a Skillinge, in Scania, nel Sud della Svezia.
Ho cercato, nel modo più ampio possibile, di cogliere la prospettiva di Tim riguardo a una confusione di episodi e avvenimenti spesso difficile da comprendere. Una fonte inestimabile sono state le oltre quarantamila mail che Tim ha inviato e ricevuto nel giro di dieci anni. Mi sono potuto avvalere anche di appunti personali, discussioni su forum online e conversazioni via SMS, Messenger e WhatsApp.
Tim Bergling festeggiò i suoi più grandi successi da artista in un periodo in cui il disagio psichico stava aumentando considerevolmente tra i giovani in diverse parti del mondo. Le ragioni sono molte e complesse, ma la crescita esponenziale dei numeri è quantificabile e indiscutibile. In Svezia il disagio psichico tra i giovani adulti è aumentato del 70 per cento dal 2006. Le diagnosi legate allo stress sono sempre di più: disturbi del sonno, irrequietezza, depressione, ansia. Anche il numero di suicidi in questa fascia d’età sale in modo preoccupante – oggi in molti paesi ad alto reddito il suicidio è la principale causa di morte fra le persone sotto i trent’anni. In Svezia il numero di giovani che si tolgono la vita è in costante aumento dall’inizio del nuovo millennio, negli Stati Uniti le cifre sono schizzate negli ultimi dieci anni. Secondo l’Organizzazione mondiale della sanità, coloro che decidono di farla finita sono più di coloro che muoiono per tumore allo stomaco, cirrosi epatica, tumore al seno e Alzheimer. Si suicidano più persone di quante ne muoiano in conseguenza di guerre, aggressioni, terrorismo e violenza domestica messi insieme.
Dietro questo gesto c’è quasi sempre qualche forma di disagio psichico, come la depressione o l’ansia, argomenti ancora circondati da vergogna e silenzio. Ci si può sentire facilmente impotenti nel parlare con una persona che sta male. La preoccupazione di dire qualcosa di sciocco, e magari in questo modo peggiorare la situazione, può effettivamente costituire un ostacolo. La ricerca, però, mostra che questi timori sono infondati: non c’è bisogno di dire cose gentili e perfette. È più importante avere il coraggio di chiedere come va, ed essere pronti ad ascoltare la risposta. È attraverso il dialogo, non il silenzio, che possiamo salvare una vita.
Esistono alcuni limiti nello scrivere di persone famose che si sono tolte la vita. Per non rischiare che la narrazione porti all’emulazione, bisogna evitare di descrivere in dettaglio tanto il luogo fisico quanto l’azione in sé. La cosa importante di questa storia non sono i particolari specifici che circondano le ultime ore di Tim, bensì ciò che ha portato a quel momento e ciò che forse possiamo imparare dalla sua scomparsa.
Se stai così male che la situazione ti sembra insostenibile o se progetti concretamente di suicidarti, devi chiamare subito il numero 112 per le emergenze.
Se hai pensato di ferirti, o se credi che qualcuno vicino a te abbia bisogno di supporto, c’è sempre un aiuto disponibile. Puoi parlare con qualcuno di cui ti fidi, o chiamare una di queste linee di supporto:
Telefono amico: 02.23.27.23.27; 324.01.17.252 (WhatsApp)
Linea di ascolto Telefono azzurro: 1.96.96
Emergenza infanzia: 114
Sono nato nel 1989 a Stoccolma da due genitori molto amorevoli, Klas e Anki. Mio padre si definiva “un cartolaio” (con un sorriso), un chiaro segno dell’ideale di modestia della società svedese. In realtà possedeva diversi negozi di forniture per ufficio ed era ben messo dal punto di vista economico. Mia madre era un’attrice di successo, e quando ero ragazzo lo era anche mio fratello.
Il fumo si levava verso i pesanti lampadari che pendevano dal soffitto della sala. Le frecce dei cacciatori sibilavano nell’aria e i maghi lanciavano palle di fuoco contro il drago a due teste, ma quel bastardo non mollava. I denti aguzzi scintillavano nel buio mentre azzannava ogni membro del clan che osasse avvicinarsi.
Insieme a druidi, sacerdoti e maghi, il cavaliere Important aveva combattuto ore per arrivare lì, a quella penultima bestia da distruggere per vincere la battaglia. Il clan aveva agito con accortezza tattica e furbizia: a volte tutti e quaranta si erano mossi come un’unica truppa, altre volte si erano divisi per distruggere abbastanza uova di drago senza soccombere.
Important era nascosto dietro uno dei muri di pietra del villaggio incastonato tra le montagne dei Regni orientali. Con la sua armatura giallo fiammante si muoveva agile e rapido. Era un paladino, un cavaliere con caratteristiche magiche, che arrivava in soccorso quando qualcuno del clan stava per perdere la vita.
Important era un personaggio all’altezza del proprio nome. Aveva coltelli in entrambi gli spallacci dell’armatura, guanti di ferro flessibili e una cintura che era il massimo che si potesse desiderare. Dietro l’elmo, tra la visiera e la copertura scura, gli occhi brillavano di un bianco intenso. Capitava che il cavaliere girasse per Roccavento, la capitale dell’Alleanza, solo per sentire gli sguardi invidiosi degli altri nel vedere le possenti corna dell’armatura del suo cavallo, segno evidente della sua fedeltà di soldato.
Seduto sul letto con la schiena appoggiata al muro, il sedicenne Tim Bergling conduceva Important dove voleva. Le dita picchiettavano sulla tastiera che teneva in grembo mentre il cavaliere correva a salvare un altro stregone in difficoltà.
Accanto a lui, sul letto, il suo amico Fredrik Boberg, che tutti chiamavano Fricko, guardava. Si capiva che i ragazzi giocavano ormai da ore; tra i bicchieri con avanzi di Coca-Cola c’erano caramelle smangiucchiate, briciole di patatine e prese di snus consumate.
Fricko e gli altri amici si erano presentati a casa dei genitori di Tim a Linnégatan subito dopo la scuola, avevano portato computer e monitor al quinto piano e si erano insediati in camera sua. Era mezzanotte passata da un pezzo e il raid di World of Warcraft non si era ancora concluso. Uno degli amici si era quasi addormentato sulla tastiera.
Quella stanzetta era stata il mondo di Tim Bergling per tutta l’infanzia e l’adolescenza. Lì aveva disegnato i ritratti dei genitori e degli amici, aveva scritto poesie sulle foglie autunnali e sulla compagna di classe di cui si era innamorato. I genitori gli avevano regalato un abbonamento alla rivista “Illustrerad Vetenskap”, e lui aveva divorato tutto ciò che parlava di satelliti, robot e scavi archeologici. Tim era particolarmente affascinato dallo spazio. Quando era bambino, era stato spedito in orbita, al di fuori dell’atmosfera terrestre, il telescopio Hubble: un aggeggio simile a un bidone dell’immondizia, dotato di telecamere che da lassù erano in grado di scattare foto nitide di qualunque oggetto, dalle stelle morenti alle galassie luminose. Tim si perdeva tra le immagini di una nebulosa gigante che sembrava provenire da un libro di fiabe spaventoso: enormi colonne di polvere e gas si illuminavano...