Vado via per un po’. Ho bisogno di riflettere.
Io e Simone ci siamo scambiati il numero di telefono molto tempo fa, nessuno lo ha mai usato. Il messaggio mi coglie dodici ore dopo essere uscito da casa sua, in cima a una salita, le mani sulle ginocchia, piegato da un’andatura che non ho più la forza e l’allenamento per sostenere.
Sono uscito a correre all’alba, alla fine di una notte insonne.
Ho voltato dietro casa, i Metallica nelle orecchie. Ho sperato che sfiancare il mondo potesse svuotare la testa, almeno per un po’. Ma non è accaduto.
Correre e camminare continuano a restare esercizi del pensiero.
Riprendo fiato, leggo quelle poche parole, mi siedo sul bordo della strada, spengo la musica. Tutt’intorno solo alberi, nuvole, erba, una casa in lontananza.
Sono sempre stato l’unico centro della mia vita.
Gli altri erano un dato da analizzare. I pensieri, i segreti, le emozioni, le paure, i ricordi, se erano malati o sani. Il battito del cuore come un tamburo in testa. Il flusso del sangue, il respiro che inciampava o correva, ogni parola pronunciata prima che ricadesse nel mondo. Un gigantesco contenitore che si riempiva di informazioni. Una macchina organica che raccoglieva, elaborava, usava il necessario e buttava via tutto.
Ho amato poche persone.
Suor Anna, che mi ha cresciuto.
Adele, che accompagna la mia vita.
Emma, che ho abbandonato alla morte, come un bastardo inutile, un vigliacco.
Mia madre, come il dolore perpetuo di un arto fantasma. Mia madre che sapeva tutto e che è tutto quello che sono e che per la prima volta, stanotte, ho sentito il bisogno di stringere, di percepire di nuovo come il corpo che non ricordo più.
Ritornare un figlio, mentre diventavo orfano di ogni riferimento.
Fino a qualche tempo fa non sapevo quale fosse il mio punto di rottura. La vita resiste, sposta il limite, barcolla, ritrova un equilibrio provvisorio e precario, ostinata come una pianta che sbuca dalle pieghe dell’asfalto. Riduce le aspettative, accorcia l’orizzonte, rallenta il passo, elimina il superfluo, ridefinisce il necessario.
Non ho avuto un padre, non ricordo mia madre, non so da dove vengo, non so perché sono quello che sono. Ho costruito con cura, negli anni, una maschera di normalità fittizia in grado di coprire la verità, adatta a ogni situazione, perfezionata come una seconda pelle, così radicata da non poterla più considerare un camuffamento, e anche se col tempo il desiderio di gettarla è diventato sempre più forte – una necessità, un bisogno –, ogni volta che volevo raccontare la verità, la paura era troppa.
Non mi sono mai chiesto che cosa avrebbe provato Emma, sapendo con chi stava vivendo, o Adele, se le rivelassi il mio segreto. Se ripenso allo sguardo di Anna provo solo il panico di un bambino che non può più nascondersi. Quando Simone mi ha cacciato l’unica cosa importante era che avevo raccontato a qualcuno la verità, tutta la verità.
È sempre stata la mia vita, mai la loro.
Un segreto è una malattia mortale.
Ti rende egoista, tutto quello a cui pensi è sopravvivere.
Il mio corpo ha recuperato in fretta quello che ho fatto ieri sera. Ho spento la luce, Zeus è arrivato poco dopo, come fa ogni volta. Di solito cerca il contatto, ci addormentiamo a cucchiaio, uno dentro l’altro. Invece è rimasto da solo. Vicino, presente, ma lontano. La stessa accortezza che usa quando sono ammalato. Riposati, ci sono qui io a fare la guardia.
Il sonno mi ha preso alla svelta, ma è durato poco.
Ho aperto gli occhi con lo sguardo di Simone in testa. L’attesa di quello che stava per accadere, forse la certezza. Il terrore mescolato alla meraviglia, il calore della sua mano, il suo corpo che barcolla e si allontana, che rifiuta il mio aiuto, cerca un angolo in cui proteggersi, come un bambino. Gli occhi che guardano la ferita che non c’è più e quella mano distesa in avanti che stava rifiutando una vita intera. La sua, prima della mia.
Mi sono stretto nelle coperte e ho pensato alla portata di quello che gli ho raccontato, di quello che ha visto – per lui, non per me –, uno smarrimento simile a quello che ho provato sulla barca, in reparto con i bambini, negli incontri con Nadia e che ha finito per sradicare l’ultima resistenza, distruggere l’ultimo nascondiglio.
Ho sempre pensato che prima o poi avrei incrociato una tempesta perfetta, la devastazione capace di distruggermi, ma sbagliavo. In quella tempesta ho vissuto tutti i giorni, nella bambagia temporanea dell’occhio del ciclone.
Ti aspetto, scrivo. La verità in una decina di lettere.
Spedisco il messaggio, una liberazione. All’improvviso è tutto chiaro.
Sono una terapia, una cura, un sistema immunitario di riserva. Se non posso salvarli tutti, posso aiutarne molti.
Mi alzo, ritorno a casa camminando.
Adesso so cosa voglio fare.
È spaventoso ed esaltante rendersi conto che per una volta non scapperò il più lontano possibile.
Il treno di Adele arriva puntuale.
Scendo in città, la vado a prendere in stazione. Lei è in jeans e stivaletti, il portatile in una borsa di pelle, i capelli legati, un paio di enormi occhiali da sole. Durante il tragitto mi racconta di un film che ha visto, di sua madre, di suo nipote, risponde a un paio di telefonate e chiude la seconda usando come scusa la linea che scompare salendo gli ultimi tornanti. La ascolto, guido senza fretta. Mi rilasso nella situazione anomala di sentirmi a mio agio con qualcuno con cui posso essere quasi me stesso.
Appena entriamo in casa, Zeus arriva a controllare. Studia la situazione da lontano, si avvicina con discrezione. Lei lo lascia fare, lui si struscia e si allontana, si concede e si sottrae. Adele siede al tavolo di cucina, il gatto si arrampica sulla sedia a fianco. Se prova ad accarezzarlo, si allontana e dopo pochi istanti ritorna.
Seguo il balletto della loro conoscenza mentre cucino un risotto.
Mangiamo in salone. Due tovagliette, una bottiglia di vino rosso, la mousse al cioccolato che ho preparato ieri, Zeus che sorveglia, appollaiato in cima al divano. Fuori, una giornata che pare dipinta, dal verde del bosco al gelo della neve all’orizzonte.
«Questo posto è bellissimo» dice Adele, e mentre parla mi rendo conto che non è mai stata qui. E non solo.
«Sei la prima persona che vede questa casa» dico. Scuoto la testa, le verso due dita di vino. «Non sei sorpresa.»
«So come sei fatto.»
«Sembra un insulto.»
«Per nulla. Non ho mai conosciuto un artista che avesse così poca voglia di stare sotto i riflettori. Eppure sul palco sembri a tuo agio, molto più che nella vita di tutti i giorni.» Si guarda intorno. «Questo posto, invece, è identico a te fuori dal palco.»
«Freddo.»
«No, non sei freddo. Non l’ho mai pensato. Controllato, questo sì.»
Le persone controllate non sono mai fredde, pensa.
«I primi tempi mi facevi paura» dice.
Sorrido, ma è soltanto imbarazzo.
«Anche adesso» dice. «Ma solo ogni tanto.»
«Paura di cosa?»
«Una volta me lo hai chiesto, ricordi?» Si morde un labbro, cerca la parola giusta. «È come se sapessi delle cose che non puoi sapere» dice. «Non credo di averti mai visto stupito o preso alla sprovvista.»
«A parte con Louis.»
«A proposito.» Recupera il portatile, scosta la tovaglietta, lo apre sul tavolo, mi chiede la password del wi-fi. «Cominciamo?»
È la nostra riunione mensile, anche se la definizione non è corretta.
Ogni tanto, un paio di mesi, mi fa il punto della situazione. Progetti in corso, situazione economica, problemi, prospettive, ipotesi. Tutto quello che non è ordinaria amministrazione e che un tempo faceva giorno per giorno con Emma. Di solito l’incontro si svolge nel suo ufficio, ma questo non è il soli...