Con il cuore nel fango
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Con il cuore nel fango

L'epica del ciclismo nella storia del Cobra

  1. 176 pagine
  2. Italian
  3. ePUB (disponibile sull'app)
  4. Disponibile su iOS e Android
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Con il cuore nel fango

L'epica del ciclismo nella storia del Cobra

Informazioni su questo libro

Questo libro è stato scritto tra il novembre 2021 e il gennaio 2022, con l'intento di portare in libreria, in occasione della Parigi-Roubaix, una fra le testimonianze più forti ed emblematiche del ciclismo italiano. Oggi, dopo i recenti drammatici eventi che hanno colpito Sonny Colbrelli, in un momento in cui per l'uomo ancor prima che per l'atleta si apre un nuovo capitolo ancora tutto da scrivere, l'intento è ribadito, più forte che mai. Pedaliamo al centro della strada, la strada è fatta a dorso d'asino e ai lati è scavata dalle ruote dei trattori che hanno lasciato scie come binari di un treno, che però non emergono ma sprofondano. Vedo in me un Sonny mai visto prima, mai così determinato e aggressivo. Solo per un attimo. Poi scaccio il pensiero. I pensieri pesano. I pensieri frenano."
Queste sono le parole di un ragazzo che da ore pedala ricoperto di fango. Tra pochi chilometri, solleverà la bici al cielo ed esploderà di gioia: ha appena tagliato il traguardo della Parigi-Roubaix, la corsa più aspra del ciclismo internazionale. È una scena che sembra presa da un film d'altri tempi, dalla memoria di qualche attempato cronista con il gusto dell'epica. E invece è successo il 3 ottobre 2021, davanti alle telecamere di mezzo mondo. E il protagonista è un trentenne lombardo, il nuovo volto del ciclismo italiano: Sonny Colbrelli, che in queste pagine racconta il suo passato operaio e il suo cammino verso le vittorie di ieri e di oggi, ispirato a non arrendersi mai dalle parole di nonno Cesarino: "Si perde dopo la linea, non prima".

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Informazioni

Print ISBN
9788817161824
eBook ISBN
9788831807647

1

«BUT STILL IT’S FAREWELL»
(MA È COMUNQUE UN ADDIO)
Il nonno Cesarino – top top – me lo porto nel taschino. Nel taschino, quello sulla schiena, quello dove si mette la ricetrasmittente, il modem, per la radiolina, per l’interfono, per parlare con il direttore sportivo e i compagni di squadra. È una fotografia del nonno Cesarino. Adesso è tutta spiegazzata, consumata, ma c’è ancora. Nel taschino ci mettevo dentro anche una medaglietta della Madonna che mi aveva regalato la nonna e un santino di Padre Pio. Tutti e tre in una bustina di plastica per conservarli, custodirli, proteggerli, per proteggere loro tre che proteggevano me. Solo che a forza di andare e pedalare, andare e sudare, andare e prendere pioggia vento fango, le tre reliquie si sono quasi sfinite. La medaglietta, poi, l’ho anche persa.
Il nonno Cesarino era il papà di mia madre. Era lui, in famiglia, quello appassionato di ciclismo. Me lo ricorderò sempre: mi svegliava, mi faceva fare la colazione, mi indicava il bagno, mi consegnava la maglia e i pantaloncini, mi ricordava le scarpe e il casco, mi caricava sul furgone, sul furgone caricava me e tutta la squadra, passava a prendere i ragazzi a uno a uno, o anche tutti insieme, faceva l’accompagnatore, il manager, il direttore sportivo, il massaggiatore e il meccanico, faceva il nonno a me e il papà, il secondo papà, a tutti gli altri, faceva il mental coach, oggi si direbbe così ma allora non si sapeva neanche che cosa fosse, il mental coach, e non si sapeva se ce ne fosse bisogno, necessità o urgenza, non si sapeva neanche a che cosa servisse, il mental coach, che detto così poteva essere una caramella, una caramella alla menta, da succhiare prima durante dopo, tanto per, ché male non fa. Il nonno Cesarino mental coach, ma dai, ma pensa te, ma va là.
Il nonno Cesarino teneva per Pantani. Marco Pantani. E chi non teneva per Pantani? Anch’io tenevo per Pantani. Avevo otto anni quando vinse prima il Giro d’Italia e poi il Tour de France. Pantani che attaccava in salita, ché la salita è tutto o quasi, che è in salita che decolli, che sali, che voli, che è in salita che sputi l’anima e i polmoni, che sudi sette camicie ma ti asciughi e ti prosciughi, tutti, dal primo all’ultimo o dall’ultimo al primo, che è in salita che Pantani diceva vado forte per abbreviare la mia agonia. La più bella frase del ciclismo. La frase dove c’è tutto. La frase di tutte le frasi. Vado forte in salita per abbreviare, o accorciare, è la stessa cosa, per abbreviare la mia agonia.
Agonia – mi è stato detto – ha la stessa radice di agonismo, agonia come malattia dell’agonismo, come agonismo portato all’estremo, l’estrema fatica, l’estrema sofferenza, l’estremo sacrificio. Che più di così non si può. Perché è già più di quello che non si può. Quando si dice il centodieci per cento. Ecco, quel dieci per cento oltre il cento, oltre il limite, spostando il limite. Pantani ci andava, Pantani ci riusciva. Si trasfigurava. Sembrava Cristo in croce. Vinceva, in cima alla salita, con le braccia non su, non in alto, non al cielo, ma distese, orizzontali, come crocifisso. Vinceva con gli occhi chiusi. Aveva dato tutto. Agonizzava.
Il nonno Cesarino, prima di Pantani, forse teneva per Coppi o Bartali, non lo so, magari teneva per Coppi e per Bartali, io avrei tenuto per tutti e due, come certe volte mi capita di tenere per van der Poel e per Van Aert, per Alaphilippe e per Sagan, perché sono così forti, e così belli in bici, perché hanno tanta di quella classe, e di quella eleganza, e di quel talento, e di quella forza, che come fai a non tenere per loro? Poi il nonno Cesarino teneva per Gimondi o per Merckx, o per Gimondi e per Merckx, non lo so, e poi per Moser o per Saronni, ecco, lì, o si stava per Moser o si stava per Saronni, era impossibile tenere per tutti e due, io non lo so per chi teneva il nonno Cesarino, me lo ricordo quando teneva per Pantani, che era un po’ come tenere per il ciclismo. Pantani che scattava in salita, che si toglieva la bandana e la lanciava in mezzo alla strada, che si toglieva anche gli occhiali e li lanciava, anche quelli, in mezzo alla strada, un po’ come un torero in un’arena davanti al toro, lui e il toro, il torero che si spoglia e si dichiara, che sfida e che annuncia, la sfida, la battaglia, la guerra con il toro, o io o il toro, o io o i miei avversari, o io o la salita, o io o non io, o la vita o la morte. Pantani che impugnava il manubrio basso, non alto come fanno, come facevano, come avevano sempre fatto gli scalatori, ma basso, come fanno, come hanno sempre fatto e come sempre faranno i velocisti. E poi se ne andava. Pantani Pantani Pantani, urlava Adriano De Zan alla tv. Pantani, urlava la gente. Pantani, diceva il popolo. Pantani, sospirava il nonno. Pantani, gridavo io saltando sul divano davanti alla tv. Pantani. Top.
Sono andato a vederlo, Pantani. Ed è stato il nonno Cesarino a portarmi a vederlo. Era una tappa del Giro d’Italia, il Giro del 1999, la tappa che finiva al Santuario di Oropa. Me lo ricorderò sempre: Pantani, gli era saltata la catena, aveva messo i piedi a terra, aveva cambiato la bici, e i compagni – Podenzana, Velo, Zaina… – lo avevano aspettato, gli avversari no, se l’erano data a gambe. Mancavano otto chilometri e mezzo all’arrivo. Di salita. I compagni lo avevano aspettato, prima due, poi altri tre, si sono messi davanti e lo hanno tirato, finché ne avevano, poi hanno mollato, e allora ci ha pensato lui, da solo, recuperando, rimontando, superandoli tutti, a uno a uno, quarantanove corridori compresi i suoi compagni, la salita la gente le moto le scritte l’agonia, e poi vincendo, da solo, crocifisso, niente mani al cielo, ma inchiodate sul manubrio.
Il nonno Cesarino è morto quando ero Under 23, quelli che lui chiamava ancora i dilettanti. Era il 2011. Ho disputato la Coppa San Geo, una classica che si corre dalle nostre parti, a Prevalle, nel Bresciano, volatona, terzo. Il giorno dopo ho corso il Gran premio De Nardi a Castello Roganzuolo, in provincia di Treviso, e ho vinto. Ho vinto per lui. Volevo che il nonno Cesarino mi vedesse correre fra i professionisti. Ci tenevo. Glielo dovevo. Ne sarebbe stato felice, orgoglioso, di più, fiero.
Non c’è corsa in cui non pensi al nonno Cesarino.
I nonni, quanto sono importanti nel ciclismo, per i corridori, nella storia dei corridori. C’è spesso, se non sempre, un nonno che porta alle corse, che racconta un campione, che regala una bici, che ti dice dai, che ti dice vai, che ti dice fa niente. Anche per Pantani. Suo nonno si chiamava Sotero. Strano nome. Anche il mio: Sonny. Ma in Romagna i nomi sono sempre stati strani: Scioperino, Primomaggio, Dilemma, Sperindio, Washington. Che al confronto Sotero è un nome quasi normale. Se il nonno Sotero è stato importante per Pantani, Pantani è stato importante per quella generazione di corridori nati negli anni Ottanta e nella prima metà degli anni Novanta. Come me. Avevamo Pantani negli occhi. Avevamo Pantani appeso in camera, su una foto, su un manifesto, su un ritaglio. Magro, pelato, con l’abbronzatura da contadino e le orecchie a sventola. Bellissimo.
Mi chiamo Sonny, come il detective di Miami Vice, James Crockett detto Sonny, l’attore era Don Johnson. Una serie tv poliziesca, traffico di armi e di droga, delitti e prostituzione, anni Ottanta. Mia madre ne andava matta, mio padre pure, e allora sono stato chiamato così. Meglio Sonny di Rico, Marty, Stan e Larry, gli altri protagonisti della serie tv. Insomma, mi è andata bene. Anche perché Sonny vale come un nome e allo stesso tempo come un soprannome, in Italia sono l’unico o quasi, adesso me lo sento come un privilegio. Dici Sonny e quello sono io.

2

«AND MAYBE WE’LL COME BACK TO EARTH»
(E FORSE TORNEREMO ALLA TERRA)
I velodromi sono dei templi. L’ho sentito dire da qualcuno, da qualche parte, forse alla tv, ed è proprio così. I velodromi sono i templi del ciclismo. Se il Colosseo era il tempio dei gladiatori, e adesso dei turisti, se l’Arena di Verona era un tempio del teatro, e adesso della lirica, il Vigorelli di Milano era il tempio del ciclismo. E prima del Vigorelli, il Prato della Valle a Padova, dove si tenevano le prime corse, con quelle biciclette che non erano ancora biciclette, una ruota enorme davanti e una piccola dietro. Vinceva chi riusciva a salire per primo sulla sella che stava in cima alla ruota più grande. Scherzo, non era così. La verità è che già allora vinceva chi arrivava per primo al traguardo.
Il velodromo di Roubaix è uno dei templi del ciclismo. Mi hanno detto che c’è chi, la prima volta che entra lì dentro, si fa il segno della croce. Come se entrasse in una chiesa, in una cattedrale. Invece è una pista di cemento. E del velodromo di Roubaix è già tutto scritto, anche su Wikipedia. Un anello non rotondo ma ellittico, lungo quattrocentonovantanove metri e settantacinque centimetri e largo sei metri, con un’inclinazione nelle curve fino al quindici virgola quattro per cento.
Per immaginarlo ci voleva un architetto. Veniva da Parigi, si chiamava Jacques Gréber, faceva parte del City Beautiful Movement. Custoditi nel velodromo come in una bambola russa, uno dentro l’altro, la pista di cemento, dentro la pista una corsia in terra battuta, dove si disputano gare di corsa, triathlon e ciclocross, dentro la corsia il prato e le porte di un campo da rugby, quello dell’RCR, il Rugby Club Roubaix. Sul lato dell’arrivo, una tribuna per duemila spettatori. Il velodromo è stato intitolato ad André Pétrieux. Non si sa esattamente chi fosse: se il padre o il figlio. Si chiamavano tutti e due così, stesso nome e cognome. Nel dubbio, gli abitanti di Roubaix pensano che il velodromo sia dedicato a entrambi.
Mi sono andato a leggere la storia del velodromo di Roubaix. Non che ami la storia, ma quella del ciclismo sì. E non che ami tutta la storia del ciclismo, ma quella della Parigi-Roubaix sì. André il padre era il titolare di un bar – Chez Pétrieux – aperto a un paio di chilometri dal velodromo, ed era anche uno dei fondatori del Vélo club Roubaix. André il figlio fu uno dei responsabili cittadini dello sport di Roubaix. Non mi risultano stadi o arene o velodromi dedicati ad altri baristi. Vigorelli, per esempio, era un industriale e poi un politico che da giovane aveva corso in bicicletta. Ma osti, cuochi e camerieri, soprattutto all’inizio del Novecento, erano i più qualificati a dare il via alle corse. Perché bar, trattorie e ristoranti erano i primi ad aprire e gli ultimi a chiudere. E siccome si partiva prima dell’alba e si arrivava dopo il tramonto, ecco qua.
Il primo Tour de France, nel 1903, scattò davanti al ristorante Au Réveil Matin di Montgeron, a una ventina di chilometri a sudest di Parigi, e la prima Milano-Sanremo, nel 1907, è partita davanti all’Osteria della Conca Fallata lungo il Naviglio. E speciali targhe celebrano quei pionieristici pronti-via di cerchioni e garretti, baffi a manubrio e tubolari a tracolla. Io non le ho mai viste, quelle targhe, perché noi corridori siamo sempre di corsa, però ogni volta mi dico che devo darci un’occhiata, poi quando sono lì non c’è mai tempo, siamo sempre di fretta e me ne dimentico. Un giorno giuro che lo farò, magari quando non correrò più e dunque andrò meno di corsa.
Ma prima del velodromo dedicato a uno dei due, o a tutti e due gli André Pétrieux, c’era un altro velodromo, a Roubaix, che si chiamava il Roubaisien, ed era quello originario. Era una specie di sogno, un sogno folle, il sogno di due ricchi imprenditori locali e appassionati velocipedisti, Théo Vienne e Maurice Perez. Non scopro niente, anche questo è tutto su Wikipedia. Si trattava di un altro anello, sempre in cemento, lungo trecentotrentatré-virgola-trentatré metri, le curve rialzate, la facciata ad arcate. Guardate i disegni e le foto, si trovano su internet, quel velodromo era bellissimo. Un velodromo bellissimo in una città brutta, industriale, industrie tessili, la chiamavano «la città dei mille camini», il cielo grigio di fumo anche d’estate. Per farla breve, mica tanto, si è lanciata questa corsa, che partiva da Parigi e finiva a Roubaix, duecentottanta chilometri, il giorno di Pasqua. Il primo pronti-via nel 1896.
Io sono nato nel 1990, quasi un secolo dopo la prima Parigi-Roubaix. Era il 17 maggio, la vigilia della partenza del Giro d’Italia, quello che Gianni Bugno – top – avrebbe vinto con la maglia rosa addosso dal primo all’ultimo giorno. Pensa te che impresa. Sono nato a Desenzano, perché a Casto l’ospedale non c’era e non c’è. Però ero di Casto e mi sento ancora di Casto. Casto sta nella Val Sabbia, tra il lago di Garda e il lago di Idro, lungo il fiume Chiese, nel bresciano, quattrocento e rotti metri di altitudine, duemila abitanti, forse meno, sempre meno, adesso saranno millecinquecento, la gente lascia quei posti e va a vivere in città. Succede a Casto, succede un po’ dovunque. È successo anche a me, ho lasciato Casto ma non sono andato a vivere in città, perché ho bisogno di aria, di terra e di cielo, però a Casto vado e vengo, non dico tutti i giorni, ma quasi, in macchina e in bici e qualche volta a piedi.
A Casto c’è la terra e c’è il ferro. La terra per gli orti, il ferro per l’industria. La mamma e il papà – la mamma, a proposito di nomi strani, si chiama Fiorelisa, il papà Federico – si sono conosciuti in fabbrica. Operai. Tutti e due. In una fabbrica di maniglie. Tutta la famiglia, tutta la storia della famiglia si è costruita sulle maniglie. Il nonno guidava un camion che trasportava le maniglie. Mio padre e mia madre lavoravano nella fabbrica delle maniglie. E anch’io ho lavorato per un po’ nella stessa fabbrica di maniglie. Dalla mattina alla sera, in fabbrica, quando il lavoro c’era. A casa, quando il lavoro non c’era. E di nuovo in fabbrica, quando il lavoro ricominciava. Crisi e non crisi. Perché sia il papà sia la mamma sono stati disoccupati. E da disoccupati, di soldi, in casa, non ne entravano. E si stringeva la cinghia. E tutto quello che non era per il mangiare e il dormire, era un di più. Bici compresa.
Mai stato un grande studente. Diciamo la verità: a scuola ero una bestia. E un discolo. I prof si ricordano di me perché passavo più tempo fuori che dentro. Non stavo mai fermo, ero dispettoso e insofferente. Non c’era materia dove brillassi, a parte educazione fisica, cioè motoria. Storia, geografia, italiano, matematica: non me ne fregava niente. Pensavo che nella vita tutte quelle materie, dalla storia alla geografia, non mi sarebbero mai servite. In questo bisogna dire che avevo, nella mia testa, fin da giovane, le idee chiare: avrei fatto il corridore. Glielo dicevo, ai professori: da grande diventerò un corridore. E loro mi rispondevano che sì, magari da grande sarei diventato un corridore, ma che intanto dovevo studiare. A ripensarci adesso, avevano ragione loro. Ma io non ne volevo sapere. Non li ascoltavo. Ero intrattabile.
Da piccolo, a dire la verità, volevo fare il pompiere. Poi, invece, il corridore. Storia, geografia, italiano, matematica le avrei imparate girando il mondo. Così uscivo dalla classe e andavo in bidelleria. Me lo ricorderò sempre: ho passato più tempo con le bidelle che con i professori. Perché erano molto più affettuose, non mi interrogavano e non mi davano voti, e mi offrivano un tè caldo. La bidelleria me la sentivo come se fosse la mia seconda casa, come se fosse la mia vera classe. Però devo anche dire che non sono mai stato rimandato e neanche bocciato. Forse perché i professori, alla fine dell’anno, desideravano solo che me ne andassi da lì, che me ne andassi via da loro, che me ne andassi da un’altra parte, fuori da un’altra classe e magari dentro un’altra bidelleria.
Mia madre però ci soffriva: quando tornava a casa dai colloqui con gli insegnanti, aveva le lacrime agli occhi. Non riusciva a capire come io preparassi lo zaino e andassi volentieri a scuola, ma senza studiare, senza fare i compiti, niente di niente, allo sbaraglio. Un disastro. Però c’era un professore – top – che credeva in me: Edoardo Mantovani, il prof di educazione fisica, cioè motoria. Agli altri insegnanti diceva che avrei fatto non solo il corridore, ma il corridore professionista. Ora il prof Mantovani ha una palestra di fitness, e ogni tanto passo da lui.
Grazie prof.

Indice dei contenuti

  1. Copertina
  2. Frontespizio
  3. CON IL CUORE NEL FANGO
  4. ½
  5. 1
  6. 2
  7. 3
  8. 4
  9. 5
  10. 6
  11. 7
  12. 8
  13. 9
  14. 10
  15. 11
  16. 12
  17. 13
  18. 14
  19. 15
  20. 16
  21. 17
  22. 18
  23. 19
  24. 20
  25. 21
  26. Inserto fotografico
  27. Copyright