PARTE 1
Dovevo fare l’ingegnere
CAPITOLO 1
LA BICI ROSSA CON L’AUTORADIO E I FENDINEBBIA
“Paolo, cosa vuoi fare da grande?”
“L’ingegnere. Con la macchina sportiva”.
Sono andato indietro con la memoria fino quasi a farmi venire mal di testa, ma per ogni volta che io ricordi ho sempre risposto così a questa domanda. Mai che abbia detto l’astronauta, il calciatore, il poliziotto o il pilota di aerei. No, io volevo fare l’ingegnere, volevo avere a che fare con i ‘marchingegni’, volevo capire come erano fatti e come funzionavano e poi, una volta diventato grande, costruirli e cambiare il modo di vivere delle persone. E a poco più di sessant’anni ammetto di non essermi discostato più di tanto dai sogni che avevo quando ero un bambino che smontava le radioline mentre guardava il mare di Bellaria.
Perché in effetti sono un ingegnere, lo sono diventato con un percorso un po’ più tortuoso del previsto, ho dirottato la mia passione dall’elettronica all’energia, e ho costruito un’azienda che ad oggi occupa stabilmente una ventina di persone.
Ma quando si scrive un libro per raccontare la propria storia, forse è bene cominciare dall’inizio. E l’inizio di questa storia, della mia passione per l’innovazione e per l’energia, la scienza e l’elettronica, sta nella genetica, o meglio nei geni di mio padre, che si chiamava Aldo, ed essendo il secondo di due figli, non aveva potuto studiare. Negli anni ’30, quando è nato lui, nelle famiglie ‘normali’ le cose funzionavano così: il figlio più grande studiava, il più piccolo andava a lavorare. E mio padre andò a fare il muratore. Una vita durissima per un ragazzino che tutte le mattine si svegliava col buio e camminava per quasi dieci chilometri per arrivare in cantiere da dove, dopo un’estenuante giornata di lavoro, faceva altri dieci chilometri per tornare a casa. Le soddisfazioni erano poche e la fatica tanta, così mio padre, che si era appena sposato, decise di emigrare in un paesino della Svizzera tedesca, Solothurn. Erano gli anni ’50, quelli del boom economico del Secondo Dopoguerra, e mio padre arrivò in quello che sarebbe stato per diverso tempo il suo nuovo Paese, con la voglia di lavorare e assicurare alla moglie una vita tranquilla, se non proprio benestante. Dopo pochi mesi trovò lavoro come capofabbrica e custode in un’azienda che produceva macchine tagliaerba e poté farsi raggiungere da mia madre, Tina, che a sua volta si impiegò in una lavanderia industriale.
Non so se la passione di mio padre per l’elettronica sia nata in Svizzera o se la coltivasse segretamente fin da quando era piccolo, ma so che me la trasmise al punto da farla diventare mia.
La vita che i miei genitori condussero a Solothurn era mediamente migliore di quella che si conduceva in Italia, anche se non navigavano nell’oro e mia madre mi racconta ancora delle mattinate buie in cui andava a piedi al lavoro incontrando solo una persona per strada. Solo una e sempre quella, ogni giorno per tutti gli anni in cui è vissuta lì. Non frequentava nessuno al di fuori delle colleghe e di suo marito e la nostalgia di casa, unita a qualche problema che mio padre ebbe col suo datore di lavoro, alla fine prevalsero e li fecero saltare sulla piccola moto che avevano acquistato e rientrare in Italia. Era il 1960 e mentre i miei genitori si prendevano tutta l’acqua possibile, arrivando zuppi a Sant’Arcangelo di Romagna, io viaggiavo con loro, pronto a nascere qualche mese dopo.
Il ritorno in patria della mia famiglia coincise anche con un nuovo lavoro: niente più cantieri o fabbriche per mio padre, niente più lavanderia per mia madre. Con quello che avevano risparmiato, infatti, decisero di aprire un’attività commerciale prima come ambulanti, poi come negozianti. Nel frattempo io crescevo curioso e stimolato da mio padre a capire come funzionassero le apparecchiature elettroniche. Tra i primi ricordi che ho, di me ragazzino, c’è l’entusiasmo che mi suscitava la pubblicità di un marchio che produceva tonno in scatola e che era ambientata in un negozio di elettrodomestici in cui un cliente, perso momentaneamente di vista dal commesso, smontava un apparecchio elettronico (forse un frullatore) e, davanti alle rimostranze del commesso che gli diceva: “Ma lo ha aperto!”, rispondeva, sicuro: “Io a scatola chiusa compro solo Arrigoni”.
Ecco, in quella frase era sintetizzata tutta la mia passione di aprire e vedere come funzionavano gli oggetti elettronici, dalle radio rotte, che cercavo di rimontare correttamente per rimetterle in funzione, fino alla bambola parlante di mia sorella, che un giorno smise di parlare e io le restituii perfettamente funzionante per sua somma gioia ed eterna gratitudine.
A sostenermi e coinvolgermi nel costruire marchingegni strabilianti, era sempre mio padre, con cui, quando frequentavo ancora le scuole elementari, realizzai, utilizzando il motore di un girarrosto, un sistema di illuminazione che riproduceva perfettamente l’alternanza notte/giorno per il presepe di casa. Al mattino si illuminava come a giorno mentre, col calare del buio, ‘la luce del sole’ veniva progressivamente sostituita da quella della luna, mentre nelle casette dei pastori e dei pescatori si accendevano delle piccole lucine che simulavano quello che accade realmente in ogni casa al tramonto.
A questo mio entusiasmo per l’elettronica presto si accompagnò anche quello per le radio, nato grazie a una coppia di walkie talkie ricevuta in regalo dai miei genitori. Inizia così la mia nuova avventura, anche questa condivisa col babbo, di radioamatore. Una passione che, in verità, lui portò avanti più a lungo di quanto non feci io e che lo tenne occupato quando la malattia che gli era stata diagnosticata lo costrinse a lunghi periodi di immobilità.
Il massimo della gioia possibile per un ragazzino, però, lo raggiunsi in prima media, alla prima lezione di quella che, ovviamente, sarebbe diventata la mia materia preferita, quella che avrei imparato ad attendere con grandissime aspettative tutte le settimane: applicazioni tecniche. Per un bambino curioso e fissato con l’elettronica come ero io, quelle ore di lezione erano puro divertimento e quando il professore ci fece realizzare un circuito elettrico composto di pila, lampadina e interruttore credo di avere toccato il cielo con un dito. Letteralmente.
Però io, di fatto, anche se inconsapevolmente, ero proprio ingegnere dentro e dunque dovevo trovare un’applicazione nella vita quotidiana a quello che avevo imparato a lezione. Fu così che realizzai la prima, e probabilmente ultima, bici con fendinebbia e autoradio della storia delle due ruote.
Andò così: avevo questa bicicletta rossa che, come era normale a quei tempi, non aveva le luci, così, usando le nozioni che avevo imparato a lezione costruii due bei fanali, uno dei quali era da me indicato come fendinebbia, essendo di vetro giallo. Ora, al netto del fatto che la nebbia non la fendeva, resta che la mia bici aveva i suoi due piccoli fanali perfettamente funzionanti e, a un certo punto, pure l’autoradio… o meglio, una radio a transistor che le avevo attaccato con una staffa.
Praticamente mi sentivo Archimede, il mio personaggio preferito dei fumetti di Topolino, e mi ci sentii ancor più quando riuscii a costruire una replica di Edi, il suo ‘luminoso aiutante’.
Se non ero impegnato con i compiti o a costruire qualcosa, allora leggevo le riviste di elettronica per tenermi informato. La mia preferita si chiamava “Nuova Elettronica” ed era venduta assieme a dei kit di montaggio di oggetti semplici, come piccoli orologi. Insomma quella che fino dalla mia infanzia era stata un’infatuazione, si trasformò piano piano in un innamoramento molto serio che compresi mi avrebbe accompagnato per tutta la vita. A quel punto ero ormai sul finire della terza media, dovevo operare la prima scelta importante per il mio futuro, la scelta che avrebbe determinato chi sarei stato e che cosa avrei fatto da grande. Era arrivato il momento di decidere a che istituto superiore iscrivermi. Stavo diventando grande, volevo diventare un ingegnere, ero bravo in matematica e in applicazioni tecniche e avevo una passione per l’elettronica. Cosa avrei scelto?
PARTE 2
LE PRIME DECISIONI IMPORTANTI
"L'istruzione e la formazione sono le armi più potenti che si possono utilizzare per cambiare il mondo"
Nelson Mandela
(Premio Nobel per la pace)
CAPITOLO 2
COSA VOGLIO FARE DA GRANDE? LA SCELTA DELLA SCUOLA
Una delle prime decisioni importanti nel corso della vita di una persona riguarda la scelta degli studi da fare, e per me non è stato diverso. Dare consigli sul percorso formativo di una persona può risultare arduo e, a volte, anche inopportuno, infatti chi può attuare questa scelta meglio dello studente stesso? Oggi esistono servizi di orientamento decisamente efficaci, ben gestiti e organizzati sia dalle scuole secondarie di secondo grado (scuole superiori) sia dalle Università. La scelta degli studi universitari comporta non solo una scelta culturale ma anche professionale. Diviene perciò essenziale rivolgersi verso un settore che piace, da cui ci si sente attratti, che affascina e magari per cui ci si sente naturalmente portati, poiché in tale ambito ci si muoverà per buona parte della vita, e solo in tal caso, qualsiasi difficoltà o sacrificio richiesto diverrà sopportabile. Inoltre, un’attività lavorativa deve rispondere a un’altra esigenza imprescindibile: deve essere fonte di una remunerazione soddisfacente.
Negli anni ‘70, quando toccò a me affrontare l’argomento, le cose erano diverse, il supporto verso gli studenti era indubbiamente più limitato. Ricordo con piacere un libro che ci hanno consegnato in terza media con il riepilogo delle varie scuole superiori.
Per me la scelta di un istituto tecnico è stata abbastanza ovvia. Non avevo praticamente preso in considerazione gli studi classici e l’unico confronto vero e proprio tra le possibilità che mi si aprivano era tra istituti professionali e istituti tecnici, optando infine per la seconda opzione, dato che l’Istituto Tecnico Industriale Statale mi ispirò maggiore fiducia per la presenza di materie di preparazione teorica come la matematica, che mi aveva sempre affascinato. Un’opportunità che avevo valutato era stata anche l’istituto tecnico aeronautico, scartato poi per l’eccessiva distanza da casa che avrebbe richiesto un trasferimento fuori città dal lunedì al venerdì e che comportava una spesa che non mi sentivo di far sostenere ai miei genitori e che, comunque, a livello emotivo non mi sentivo di affrontare neppure io. Optai quindi per l’Istituto Tecnico Industriale “Blaise Pascal” di Cesena.
Ricordo ancora oggi una delle prime lezioni del Prof. di italiano che ci spiegò: “Se avete pensato di andare all’ITI perché è una scuola tecnica, quindi pratica, perciò c’è meno da faticare… avete proprio sbagliato tutto!”. Devo dire che quella frase ha risuonato parecchio nella mia testa durante gli anni delle superiori e, ancora oggi, il concetto espresso da quell’insegnante si riaffaccia alla mia memoria. Il primo anno in effetti fu davvero duro, ma non tanto per le materie da studiare, quanto per tutte le condizioni di contorno.
Innanzitutto gli orari: la mattina il treno da Bellaria partiva alla 6.20, a Rimini il cambio e si arrivava a Cesena a bruciapelo per le 8. Le lezioni finivano alle 13 e a casa non si tornava mai prima delle 15. Il pomeriggio era veramente corto. Gli inverni erano duri, io abitavo a qualche chilometro dalla stazione e ci andavo in bici, sempre lei, la mia bici rossa con i fendinebbia, e ricordo ancora che un inverno, in occasione di una nevicata consistente, dovetti anche montare le catene, altrimenti in stazione non ci sarei arrivato tutto intero.
Ai problemi di ‘logistica’ si aggiungeva quello che oggi è noto come bullismo. Certo, allora non se ne parlava, ma c’era, eccome se c’era! Io che ero mingherlino ero spesso preso di mira, per cui mi dovevo guardare le spalle e stare attento a non essere mai solo. Per fortuna in quegli anni incontrai Maurizio, che al contrario di me era grande e grosso, e quando giravo con lui ero al sicuro. Il nostro legame nato allora è vivo ancora adesso: siamo stati e siamo ancora grandi amici!
Per fortuna, col passare degli anni, il problema del bullismo si è ridotto e le cose, incluso il mio rendimento a scuola, andavano sempre meglio. Durante il quarto anno come esercitazione di laboratorio costruii una TV che conservo ancora come ricordo. Adoravo l’analisi matematica e gli studi di funzione: mi riuscivano bene senza studiare e senza difficoltà. Ho terminato gli studi decorosamente, il giorno in cui ho concluso l’esame di maturità mi sentivo veramente un grande! Avevo però speso molta energia durante gli anni delle superiori e avevo il desiderio di iniziare a lavorare: decisi, quindi, di non proseguire con gli studi all’Università, anche se una vocina mi diceva: “Ma sei sicuro?”.
Dei miei compagni di classe, solo due scelsero di continuare il proprio percorso scolastico, ma di questi solo uno si è laureato, oltre a me, alcuni anni più avanti.
Comunque, in quel momento pensavo: “Per fortuna ho scelto un scuola tecnica e posso già entrare nel mondo del lavoro!”. In effetti negli anni ‘80 un diploma di scuola superiore con un indirizzo di specializzazione in Elettronica e Telecomunicazioni era una preparazione adeguata per aspirare a un buon impiego.
E adesso?
Armato di tanto entusiasmo, con ancora una grande passione per le telecomunicazioni, pensai di tentare la via dei concorsi per alcune grandi aziende: quella che allora si chiamava SIP (Società per i Telefoni) ed ENEL (Ente Nazionale per l’Energia Elettrica). I due colossi italiani che rappresentavano uno status symbol ambitissimo, al punto che solo il fatto di entrare a lavorare in una di queste aziende significava avere risolto tutti i problemi della vita. In realtà non riuscii neppure a superare le selezioni per partecipare ai concorsi, solo per questioni burocratiche, ad esempio le date di presentazione della documentazione, moduli cartacei non conformi alla domanda e altre stupidaggini di questo genere. Nel frattempo, la mia fidanzata di allora, Marinella, che prima di essere la mia ragazza era stata una mia compagna di scuola alle medie e un’amica nella compagnia che frequentavo alle superiori, mi diceva che avrei dovuto rilevare l’attività dei miei genitori e che avremmo dovuto sposarci. Ero bombardato da un sacco di pensieri, da una parte il mio cuore voleva insistere nel cercare lavoro nel settore dell’elettronica, dall’altra capivo che sarebbe stata una scelta razionale portare avanti l’attività commerciale di famiglia, un negozio di pelletteria e una attività di ambulanti su diversi mercati della zona Cervia, Bellaria, Cattolica.
Alla fine io e la mia fidanzata decidemmo di mantenere la sola attività del negozio di pelletteria, dove anche lei avrebbe collaborato, mentre io continuavo a cercare la mia opportunità nel settore che tanto amavo. L’idea di chiudermi in un negozio tutto il giorno mi faceva davvero paura: mi piaceva stare in mezzo ai clienti, ma a lungo andare mi sentivo soffocare, avevo bisogno di uscire, viaggiare, scoprire luoghi e persone nuove… A tutto ciò si aggiungeva il fatto che dovevo ancora adempiere all’obbligo di leva e, finiti gli studi, aspettavo la chiamata alle armi.
E fu proprio in questa fase della mia vita che cominciarono una serie di errori davvero clamorosi, errori che condizionarono i miei successivi dieci - quindici anni. Il padre della mia fidanzata diceva che non mi sarei dovuto preoccupare per il militare, e che, vista la malattia di mio padre, avremmo dovuto chiedere l’esonero dal servizio di leva, mentre lui si sarebbe prodigato attraverso sue importanti conoscenze affinché accettassero la domanda. Ancora una volta il mio cuore avvertiva un sentimento contrario, io avrei voluto fare il militare e mi sarebbe piaciuto farlo in aeronautica, oppure in un reparto di paracadutismo. Però ero combattuto, avevo infatti anche un grande desiderio di costruire la mia famiglia, e così il volere della mia fidanzata e le pressioni di suo padre ebbero la meglio, e commisi nuovamente lo sbaglio di accettare un compromesso e rinunciare a perseguire il mio obiettivo. Decisi allora di sposarmi, mentre presentavo la richiesta di esonero dal servizio di leva e cominciavo a gestire il negozio assieme a lei, che vi si dedicava con passione e dedizione. Nel frattempo io cercavo la mia strada nel mondo dell’elettronica. Durante gli anni delle superiori avevo stretto un’amicizia importante con Carlo, che aveva una grande passione per l’elettronica ed era sempre stato molto in gamba, veramente portato per la progettazione di circuiti elettronici. Decidemmo così di unire le forze e tentare di fare qualcosa insieme.
Il primo risultato di questa scelta, che di fatto avrebbe orientato la mia vita, fu rendermi consapevole del fatto che la mia passione non era ancora in grado di mantenere economicamente una famiglia, perché di fatto dipendevo dall’attività del negozio. Allo stesso tempo sentivo, anche se in maniera ancora confusa, che per portare avanti i due progetti di vita che avevo, quello professionale e quello della costruzione della mia famiglia, stavo accettando di scendere a una serie di compromessi che disattendevano il mio istinto. Detto in altri termini, stavo tenendo il piede in due staffe e, come a...