Legge e giustizia non sempre coincidono. Da qui nascono tante domande.
La prima delle quali, che sorge spontanea, è: LA LEGGE SERVE A QUALCOSA?
Gli antichi dicevano Ubi societas ibi ius, dove c’è una società c’è il diritto: ogni aggregazione umana, per assicurare una civile convivenza tra i membri che la compongono, non può prescindere dalla necessità di creare un complesso di norme idonee a disciplinare l’infinita serie di relazioni o rapporti che mettono in contatto gli uomini e le donne che vivono in società. La legge serve soprattutto a tutelare i più deboli, come i ragazzi: i più forti non ne hanno bisogno.
La seconda domanda è: PUÒ LA LEGGE DELLO STATO PORSI IN CONFLITTO CON IL SENSO DI GIUSTIZIA SCRITTO NELLA COSCIENZA DI OGNI UOMO?
Esiste un nucleo essenziale di valori etici che può dirsi universale perché presente in ogni società. Il problema è stato chiaramente percepito sin dall’antichità: si pensi alle pagine dell’Antigone di Sofocle (metà del V secolo a.C.). Al cospetto del re di Tebe, Creonte, Antigone invocava la superiorità della legge morale, eterna, che imponeva di dare sepoltura ai morti, su quella emanata dallo stesso re che vietava di dare sepoltura in città a coloro che contro il re avevano combattuto.
Il fatto che di tale conflitto si siano occupati, in ogni tempo, teatro, poesia e letteratura evidenzia che esso è drammaticamente presente nella sensibilità di ogni civiltà.
Il conflitto tra legge e giustizia come è stato affrontato nel tempo?
Il problema del conflitto fra diritto e giustizia si è posto in termini dirompenti nel continente europeo tra il XVII e il XVIII secolo per effetto del consolidamento, verificatosi quasi ovunque, dell’assolutismo regio, che finiva con l’assegnare in seno all’ordinamento giuridico una rilevanza sempre più massiccia alla volontà del sovrano.
Si delinearono rapidamente due opposti schieramenti: quello dei giusnaturalisti, che attribuivano un ruolo superiore al diritto naturale (il nucleo centrale è la legge morale scritta nella coscienza di ogni uomo), e quello dei positivisti, che tale superiorità negavano in vario modo, invocando l’esigenza della certezza del diritto che può essere assicurata unicamente da comandi chiari, precisi e specifici, ossia proprio quelli di cui erano intessute le norme positive, espressione della volontà sovrana.
E come è stato risolto da noi?
La nostra Costituzione, che è la nostra legge fondamentale, è intessuta di principi di diritto naturale e consacra l’affermazione dei diritti fondamentali dell’uomo, immodificabili da parte delle ordinarie maggioranze parlamentari: in quanto innati nella singola persona, non sono a disposizione del potere pubblico (articolo 138).
Nel nostro sistema giuridico vi sono poi leggi che costituiscono attuazione di norme di diritto naturale, oppure che fanno in vario modo riferimento a esse. Esempi? Nel nostro codice civile, si fa appello al concetto naturale di buona fede: le parti, nel corso delle trattative di un contratto, devono comportarsi secondo buona fede. Oppure il nostro codice civile menziona il concetto naturale di equità, cioè una nozione di giustizia sostanziale, fondata sul contemperamento degli interessi contrapposti delle parti come accade ad esempio in tema di risarcimento del danno.
Per avvicinare poi il più possibile legge, che per sua natura riguarda tutti, e giustizia del caso singolo, è fondamentale il ruolo dei giudici, i quali sono chiamati a calare la norma generale e astratta nel problema concreto che si deve risolvere.
Per non essere influenzati da nessuno, i giudici sono soggetti soltanto alla legge (articolo 101) e devono applicare la legge secondo coscienza.
Fiammetta Palmieri
IL COMMENTO DI
Carlo Verdone
Da quando il mondo ha iniziato a popolarsi, i suoi abitanti (a partire dai nostri antenati per giungere fino a noi) si sono posti il problema delle regole che rendessero giusta la CONVIVENZA e civili i rapporti. Tutte le regole che sono state a mano a mano create dagli uomini sono diventate quelle che noi chiamiamo “le leggi” e che siamo tenuti a rispettare affinché si raggiunga una giustizia che non favorisca una persona e ne sfavorisca un’altra, che non favorisca un gruppo e ne sfavorisca un altro. Naturalmente esse devono mutare nel tempo, perché tutto invecchia; già i nostri antichi dicevano infatti che le leggi devono essere adattate all’evoluzione della società, e questo io lo condivido in pieno: la GIUSTIZIA è eterna, mentre le leggi sono transitorie.
Il rispetto delle leggi è il mezzo per arrivare alla giustizia; la giustizia è l’obiettivo che tutti noi dobbiamo perseguire, ognuno con il proprio carattere e il proprio talento, per avere una vita migliore, senza lasciarci sviare dal fatto che a volte vengono puniti i piccoli delitti e portati in trionfo quelli grandi.
Per questo motivo, pur essendo noi tutti lontani dalla perfezione, ognuno di noi deve sforzarsi di rispettarle, perché solo così si potrà ottenere e vivere una vita che abbia criteri di giustizia per “IL BENE COMUNE”, come diceva Cicerone. Chi si prodigherà per il bene comune sarà l’esempio massimo per i cittadini. E gli esempi ammirevoli insegnano talvolta più della lettura di una legge. Perché conducono all’educazione e al rispetto per il prossimo.
CARLO VERDONE
Uno dei più grandi attori del cinema italiano, è anche regista. Indimenticabili i protagonisti dei suoi film: da Un sacco bello a Borotalco, da Viaggi di nozze a Si vive una volta sola. Appassionato di musica. Tifa per la Roma.
L’alba del 476 d.C. segna convenzionalmente il CROLLO DELL’IMPERO ROMANO D’OCCIDENTE, una fine preannunciata da una forte riduzione delle nascite e da una robusta crisi economica e militare, a cui taluni imperatori avevano tentato di porre rimedio con l’emanazione di una serie di leges (costituzioni imperiali) e di iura (regole scritte negli editti pretori o dagli studiosi del diritto ai quali il principe riconosceva valore di norma giuridica).
Il diritto, dunque, venne in qualche modo utilizzato, seppur con insufficienti risultati, come strumento di contrasto al disordine e all’incertezza che imperversavano in quelle terre e in quella società che avevano invece conosciuto la magnificenza dell’antichità. Soltanto a Oriente, dove erano attive talune importanti scuole, il patrimonio giuridico romano continuò a essere preservato per tutto il VI secolo – e per molto tempo ancora –, specie grazie all’incisiva azione legislativa dell’imperatore Giustiniano, che attraverso ciò che più tardi sarà denominato CORPUS IURIS CIVILIS ebbe la pretesa di sostituire ogni precedente norma con un’unica, grande compilazione.
Ma con l’ascesa al potere delle POPOLAZIONI GERMANICHE anche il Corpus iuris civilis venne messo da parte, in favore delle consuetudini – tramandate prima oralmente e poi per iscritto –, ossia l’uso ripetuto nel tempo di comportamenti ritenuti giusti, utili, e perciò vincolanti. Rispetto alle norme giustinianee, emanazione di un potere autoritario e promotrici di diseguaglianze sociali funzionali alla stabilità di quell’ordinamento politico, tali consuetudini esprimevano l’identità del popolo che le generava muovendo dal basso, dai fatti quotidiani, e si rivolgevano tra l’altro a tutti gli uomini liberi.
Di una vera e propria rinascita della civiltà europea si può parlare unicamente tra l’XI e il XII secolo. I motori di tale mutamento furono diversi, ma agirono in stretta connessione: la fine delle grandi pestilenze e delle sanguinose guerre dovute allo sfacelo dell’impero carolingio ebbero come contraltare una positiva crescita demografica, a tutto vantaggio delle città, che si dotarono di originali strutture urbanistiche idonee ad accogliere il flusso di persone proveniente dalle campagne; il precedente paesaggio delle terre coltivate mutò aspetto grazie a nuove tecniche agrarie; l’economia fu ridestata dall’espansione di attività artigianali e commerciali, basate sulla circolazione della moneta, che contribuì all’affermazione di emergenti figure professionali, tra cui il mercante. Dinanzi a un simile mondo in movimento si pose il diritto, spinto da salutari fermenti culturali che fiorirono all’interno di SCUOLE GIURIDICHE, ANTESIGNANE DELLE ODIERNE UNIVERSITÀ. Messo in difficoltà dall’ampliarsi degli orizzonti economici e sociali, il particolarismo della consuetudine iniziò a mostrare i propri limiti. Nuove fonti, tra cui la legge e la scienza giuridica, seppero soddisfare meglio le richieste di principi, regole, categorie e schemi generali applicabili al di là degli angusti confini territoriali di una comunità. Da un lato, dunque, ricomparvero sulla scena bassomedievale le rigide norme-comando, ossia regole astratte che impongono o vietano un certo comportamento, mentre dall’altro si concretizzarono le speculazioni teoriche dei giuristi, i quali si adoperarono per raccogliere, selezionare e interpretare quel consistente materiale normativo che si era stratificato nelle epoche precedenti. Quest’opera di “sistemazione” fece peraltro rivivere anche il patrimonio giuridico giustinianeo, che a distanza di sei secoli fu considerato un’altra volta adatto – con i suoi vocaboli, con le sue formule, con i suoi modelli – a disciplinare il presente. Nel giro di qualche decennio la lex romana assurse al rango di diritto comune (ius commune), cioè di diritto vigente a titolo universale, benché non esclusivo.
Per registrare una cesura di portata paragonabile al rinascimento giuridico del basso Medioevo è necessario spingersi oltre le porte del Settecento, quando le idee illuministiche e le prime codificazioni sancirono il tramonto dello ius commune. Nel secolo di Montesquieu, Voltaire, Rousseau, Beccaria, Filangieri, si celebrava la ragione innata dell’uomo e tramite essa si propugnava un approccio più consapevole alla vita, alle istituzioni, alla cultura e alla natura. L’eredità della – oscura – tradizione medievale, anche dal punto di vista giuridico, si trasformò in un pesante fardello da cui liberarsi.
Gli ILLUMINISTI auspicavano l’intervento radicale dei sovrani, i quali attraverso nuove legislazioni avrebbero potuto cancellare d’un tratto tutte le norme inique e irrazionali. E, in effetti, nella seconda metà del XVIII secolo, l’appello alla potestà legislativa dei monarchi sfociò nella produzione di pregevoli raccolte normative dai connotati innovativi: basti pensare alla cosiddetta “Leopoldina”, una riforma promossa nel 1786 nel Granducato di Toscana che abolì la tortura e la pena di morte.
Ma fu la RIVOLUZIONE FRANCESE, e il processo di codificazione che da essa originò, a recidere davvero i legami con il diritto comune. Dopo i clamorosi rivolgimenti del 1789, in un clima di esaltazione delle libertà individuali e della proprietà privata, vennero cancellati i privilegi dei ceti – ossia i diritti particolari spettanti a taluni soggetti in virtù della semplice appartenenza a una determinata classe sociale – in favore di una visione egualitaria dell’ordinamento giuridico, basato sui diritti fondamentali dell’uomo e del cittadino.
Oltralpe, il raggiungimento dell’obiettivo di un diritto uniforme, razionale e insieme naturale, fondato sulla legge come unica fonte si ebbe tra il 1804 e il 1810 con la promulgazione dei CODICI DI NAPOLEONE, estesi in seguito ai domini francesi in Italia.
Per tutto l’Ottocento, e poi ancora nella prima metà del secolo successivo, l’esperienza codificatrice, cioè la promulgazione di appositi codici di diritto civile, penale, processuale e di commercio, venne alimentata un po’ ovunque in Europa. In Italia, ad esempio, dopo l’Unità furono elaborati ed entrarono in vigore i primi codici nazionali: testi legislativi che, sulla scorta dei modelli napoleonici, tesero a unificare sotto un unico, rassicurante, ordinamento i tanti volti che fino ad allora avevano convissuto...