«Ometto, ti vuoi muovere? Continua così e ci farai arrivare tardi.»
Il mio fratellino non mi ascoltava. Stringendo più forte il quaderno ricoperto di carta di giornale, e la scatola del pranzo con dentro il pane di mais e le salsicce all’olio, era tutto concentrato sulla strada polverosa. Era rimasto indietro rispetto a me e ai miei altri fratelli, Stacey e Christopher-John, nel tentativo di evitare che la polvere rossa del Mississippi si alzasse a ogni passo per poi ricadere sulle sue scarpe nere lustre e sui risvolti dei pantaloni di velluto a coste, e lo faceva alzando bene un piede dopo l’altro prima di posarlo a terra con grande cura. Sempre ordinatissimo, Ometto a sei anni non consentiva mai allo sporco, alle lacrime o alle macchie di sciupare le sue cose. Quel giorno non faceva eccezione.
«Continua così, facci arrivare tardi a scuola e vedrai la mamma come ti liscia» lo minacciai, strattonando esasperata il collettone del vestito della domenica, che la mamma mi aveva fatto mettere per il primo giorno di scuola: come se quell’evento fosse qualcosa di speciale. A me pareva che presentarsi a scuola in una mattina di ottobre piena di luce come se fosse agosto, fatta per correre lungo i freschi sentieri del bosco e per camminare scalzi dentro lo stagno nella foresta, fosse già abbastanza; il vestito della domenica era troppo. Nemmeno Christopher-John e Stacey erano contenti dei vestiti, né della scuola. Solo Ometto, che era all’inizio della sua carriera tra i banchi, trovava entrambe le cose affascinanti.
«Andate pure avanti a sporcarvi, voi, se vi va» replicò senza nemmeno alzare lo sguardo dai suoi passi precisi. «Io invece sto pulito.»
«Ci scommetto che sarà la mamma a ripulirti per bene se continui così» borbottai.
«Cassie, dai, lascialo stare» mi ammonì Stacey cupo, scalciando la strada irritato.
«Io dico solo che…»
Stacey mi scoccò uno sguardo torvo e io mi zittii. Ultimamente era acido in modo irritante. Se non avessi saputo il motivo mi sarei potuta dimenticare che a dodici anni era più grosso di me, e che avevo promesso alla mamma di arrivare a scuola pulita e come una signora. «Uff» mormorai alla fine, senza riuscire a trattenermi. «Non è colpa mia se quest’anno sei nella classe della mamma.»
Il cipiglio di Stacey si fece più severo. Si ficcò i pugni in tasca, ma non disse altro.
Christopher-John, che camminava tra me e Stacey, ci lanciò uno sguardo inquieto, ma non intervenne. Era un bambino basso e tondo di sette anni: non troppo interessato alle cose complicate, preferiva andare d’accordo con tutti. Però era sempre attento agli altri, e dopo aver passato la scatola del pranzo dalla mano destra alla sinistra, infilando la maniglia nel polso, e il quaderno macchiato dalla mano sinistra a sotto il braccio, si ficcò le mani rimaste libere in tasca e cercò di fare il muso come Stacey e una smorfia come la mia. Ma dopo qualche istante parve dimenticare di voler apparire seccato e si mise a fischiare tutto allegro. Poche cose riuscivano a renderlo infelice a lungo: non ci riusciva nemmeno il pensiero della scuola.
Io mi strattonai di nuovo il collettone e trascinai i piedi nella polvere, lasciando che si posasse sulle mie calzine e sulle scarpe come una granulosa neve rossa. Detestavo quel vestito. E quelle scarpe. Non potevo fare granché con un vestito addosso, e le scarpe imprigionavano i miei piedi amanti della libertà, abituati a sentire la terra calda contro la pelle.
«Cassie, piantala» sbottò Stacey mentre la polvere si alzava vorticando attorno ai miei piedi. Io lo guardai imbronciata, pronta a protestare. Il fischiettio di Christopher-John salì fino a diventare acuto, roco e nervoso, e a malincuore lasciai perdere e continuai a trascinarmi in un silenzio ostile. I miei fratelli si fecero silenziosi e meditabondi come me.
Davanti a noi la strada stretta maculata dal sole si snodava come un pigro serpente rosso, separando l’alto bordo della foresta di vecchi alberi tranquilli a sinistra dal campo di cotone che era sulla destra, fitto di steli giganti verdi e viola. Una staccionata irta di filo spinato correva lungo il campo e proseguiva a est per più di un quarto di miglio fino a incontrare il verde pascolo digradante che segnava la fine dei quattrocento acri della nostra famiglia. Una quercia vecchissima sulla china, che è ancora visibile oggi, era il confine ufficiale tra la terra dei Logan e l’inizio di una fitta foresta. Oltre lo steccato, vasti campi coltivati da una moltitudine di famiglie di mezzadri coprivano i due terzi di una piantagione di dieci miglia quadrate. Quella era la terra di Harland Granger.
Una volta anche la nostra terra era stata dei Granger, ma l’avevano venduta a uno Yankee durante la Ricostruzione in cambio di denaro per le tasse. Nel 1887, quando la terra era tornata in vendita, Nonno ne aveva comprato duecento acri, e nel 1918, dopo che i primi duecento erano stati ripagati, ne aveva comprati altrettanti. Era terra buona e ricca, per gran parte ancora foresta vergine, e una buona metà era già stata pagata. Ma c’era un prestito da rimborsare sui duecento acri comprati nel 1918 e c’erano le tasse su tutti i quattrocento, e negli ultimi tre anni dal cotone non erano arrivati abbastanza soldi per pagare tasse e debito, e viverci anche.
Ecco perché papà era andato a lavorare alla ferrovia.
Nel 1930 il prezzo del cotone crollò. E così, nella primavera del 1931, papà partì in cerca di lavoro. Arrivò fino a Memphis a nord e nella regione del Delta a sud. Si spinse fino a ovest, in Louisiana. Fu lì che trovò lavoro: posava i binari della ferrovia. Passò il resto dell’anno lontano da noi e tornò solo in pieno inverno, quando il terreno era gelato e spoglio. La primavera dopo, finita la semina, fece lo stesso. Era ormai il 1933 e papà era di nuovo in Louisiana a posare binari.
Una volta gli avevo chiesto perché doveva andar via, perché la terra era così importante. Mi prese la mano e disse, alla sua maniera tranquilla: «Guardati attorno, Cassie. Tutto questo è tuo. Non hai mai dovuto vivere sulla terra di nessun altro e finché sono vivo io e la famiglia sopravvive non ti toccherà farlo mai. È importante. Magari adesso non lo capisci, ma un giorno capirai. Allora vedrai».
Quando papà aveva detto così l’avevo guardato strano, perché sapevo che tutta la terra non era mia. Un po’ era di Stacey, di Christopher-John e di Ometto, per non parlare dei pezzi che erano di Nonna, della mamma e di zio Hammer, il fratello grande di papà che abitava a Chicago. Ma papà non divideva mai la terra dentro la sua testa; era terra dei Logan e basta. Era per la terra che lui passava tutta la lunga estate bollente a martellare acciaio; che la mamma insegnava e si occupava della fattoria; che Nonna, che ormai aveva sessant’anni, lavorava nei campi come se ne avesse venti e teneva la casa, e io e i maschi portavamo vestiti lisi lavati e rilavati fino a diventare del colore della risciacquatura dei piatti; però le tasse e il debito venivano sempre pagati. Papà diceva che un giorno avrei capito.
Chi lo sa.
Dove finivano i campi, e la foresta dei Granger rinfrescava tutti e due i lati della strada coprendola con i suoi lunghi rami, un ragazzo alto e ossuto sbucò all’improvviso da un sentiero e passò il braccio scarno attorno alle spalle di Stacey. Era T.J. Avery. Suo fratello piccolo, Claude, comparve un attimo dopo con un sorriso debole che sembrava gli facesse male a farlo. Erano tutti e due scalzi, e i loro vestiti della domenica, consunti e rattoppati, pendevano molli dai corpi magri. La famiglia Avery lavorava a mezzadria la terra dei Granger.
«Be’» disse T.J., mettendosi allegro al passo con Stacey. «Ecco che comincia un nuovo anno di scuola.»
«Già» sospirò Stacey.
«Ah, fratello, non fare quella faccia mogia» disse T.J. tutto animato. «La tua mamma è una maestra brava. Se non lo so io.» Sicuro che lo sapeva. L’anno prima era nella classe della mamma ed era stato bocciato, e adesso ci tornava per un secondo giro.
«Cavolo! Puoi ben dirlo» commentò Stacey. «Tu mica devi passare tutto il giorno in classe con tua mamma.»
«Guardala dal lato buono» disse T.J. «Pensa ai vantaggi che hai. Scommetto che sai un mucchio di cose prima di noialtri…» Fece un sorriso furbo. «Tipo le domande dei compiti in classe.»
Stacey si scrollò il braccio di T.J. dalle spalle. «Se è questo che pensi, non conosci mia mamma.»
«Non c’è mica bisogno che ti arrabbi» ribatté T.J. senza fare una piega. «Dicevo per dire.» Rimase zitto un attimo, poi annunciò: «Ci scommetto che ve ne posso raccontare delle belle sull’incendio di stanotte».
«Incendio? Quale incendio?» chiese Stacey.
«Sul serio non sapete niente? L’incendio dai Berry. Pensavo che vostra nonna era andata stanotte a curarli.»
Ovvio, lo sapevamo che Nonna la notte prima era andata a trovare dei malati. Era brava con le medicine, e spesso la gente malata chiamava lei invece del dottore. Ma non sapevamo niente di nessun incendio, e io di sicuro non sapevo niente nemmeno dei Berry.
«Di che Berry parla, Stacey?» chiesi. «Io non ne conosco, di Berry.»
«Abitano lontano, dall’altra parte dello Smellings Creek. Vengono in chiesa a volte» disse Stacey con fare distratto. Poi si rivolse a T.J. «Mr Lanier è venuto tardissimo a prendere la nonna. Ha detto che Mr Berry stava male e aveva bisogno di lei per curarlo, ma non ha detto niente di nessun incendio.»
«Sicuro che sta male: è tutto scottato che quasi ci resta secco. Lui e i suoi due nipoti. E lo sapete chi è stato?»
«Chi?» chiedemmo in coro io e Stacey.
T.J. aveva sempre questo modo orribile di esasperarti tenendosi ben strette le cose che sapeva e mollandole solo un pezzetto alla volta. «Be’, siccome pare che non sapete niente» disse, «allora magari non vi racconto un bel niente, che magari vi fa male a quelle belle orecchiette che avete.»
«Ah, amico» dissi io, «non fare come al solito.» T.J. non mi piaceva granché e la sua abitudine di tirarla per le lunghe non aiutava.
«Dai, T.J.» disse Stacey, «spara.»
«Be’…» mormorò T.J., poi tacque, come se stesse decidendo se parlare o no.
Arrivammo al primo dei due incroci e svoltammo verso nord; un altro miglio e saremmo arrivati al secondo incrocio per svoltare di nuovo a est.
Alla fine T.J. disse: «Okay. Sentite, ’sta cosa dei Berry bruciati non è mica stata un incidente. Sono stati dei bianchi ad accenderli».
«V-vuoi dire accenderli come si fa con un pezzo di legno?» balbettò Christopher-John, gli occhi dilatati dall’incredulità.
«Ma perché?» chiese Stacey.
T.J. alzò le spalle. «Non lo so perché. So solo che l’hanno fatto e basta.»
«Come fai a saperlo?» chiesi io, sospettosa.
Lui fece un sorriso tronfio. «Perché tua mamma è passata mentre che andava a scuola e l’ha detto a mia mamma.»
«Davvero?»
«Sì, e dovevate vedere che faccia che aveva quando è uscita di casa.»
«Che faccia aveva?» chiese Ometto, abbastanza interessato da distogliere lo sguardo dalla strada.
T.J. si guardò into...