Eva era arrivata boccheggiante e accaldata al luogo dell’incontro, una piazzetta a poche centinaia di metri dal suo appartamento, ma, nonostante il ritardo, di lui ancora non c’era traccia.
Si appoggiò con la schiena al tronco di un albero, cercando di riprendere fiato e maledicendosi per la scelta demenziale di quella felpa, che si tolse subito, solo per scoprire una maglietta pezzata oltre ogni limite di decenza sociale.
Eva conosceva bene quella zona, ci passava spesso in bicicletta per andare al lavoro, ma non si era mai soffermata più di tanto a osservarla. Davanti scorreva un viale alberato abbastanza banale, poco trafficato. All’angolo, poco oltre, c’era una pasticceria con un’insegna dai colori psichedelici, e dal lato opposto una lavanderia a gettoni scassata.
Quello che però attirò la sua attenzione fu il piccolo ristorante lì di fronte, un grazioso locale con grandi vetrate da cui si poteva intravedere un arredamento ben curato, con poltroncine colorate e tavolini rotondi che le ricordavano i film francesi. Su ogni tavolo un vaso di fiori bianchi. I tavoli, per ciò che Eva riusciva a scorgere dall’esterno, sembravano tutti destinati al massimo a due persone.
Eva notò con piacere il nome del locale, scritto sopra l’ingresso con un corsivo elegante: Con Amore. Ebbe un fremito di gioia: il suo ragazzo non le aveva dato appuntamento in una piazzetta qualsiasi. Aveva voluto incontrarla lì, in quello che sembrava in tutto e per tutto un romantico ristorante per coppie.
Ora era chiaro! Anche lui doveva aver sentito la sua mancanza, nonostante le avesse mandato pochi messaggi e non le avesse fatto quasi nessuna telefonata durante quel lungo mese. Al telefono le era sembrato sempre un po’ distante, svogliato, un atteggiamento che insieme al condizionatore rotto aveva contribuito a farle passare diverse notti insonni. Sicuramente ora non vedeva l’ora di riabbracciarla e avrebbe implorato perdono per essere quasi sparito per quattro settimane. Le avrebbe fatto assaggiare tutte le specialità di quel posticino, le avrebbe detto che l’amava, ogni giorno di più. Forse aveva anche ingaggiato dei Mariachi, che all’arrivo del dessert sarebbero sbucati da sotto il tavolino, con tanto di violini e guitarrón, e avrebbero suonato un valzer messicano solo per lei, mentre lui le avrebbe porto prima una rosa, poi la mano per invitarla a ballare.
Venne riportata alla realtà dal suono dell’antifurto di qualche macchina in lontananza. Ma ormai era troppo tardi. Mariachi o meno, Eva era entusiasta del suo film mentale.
Da un lato era pronta ad accettare le scuse del suo uomo e godersi un pranzo intimo con lui, dall’altro si sentiva particolarmente intelligente per essere riuscita a scoprire il piano che lui aveva architettato con così tanta cura.
Era stato proprio scaltro. Le aveva mandato un indirizzo a metà strada tra i loro appartamenti, che poteva quindi sembrare una semplice scelta logica, e aveva risposto a monosillabi a ogni messaggio che lei gli aveva inviato. Bravo, davvero astuto… ci era quasi cascata.
Lui non era mai stato tipo da sorprese, in realtà, ma per Eva questo non faceva che aumentare il valore del gesto. Si poteva dire che non ci fosse niente che non sapeva di lui. A differenza di Eva, lui era una persona senza filtri, senza retropensieri, senza vergogna. Si improvvisava esperto di qualsiasi cosa e sembrava sempre sapere tutto, anche quando non era vero. All’estero parlava lingue che non conosceva, al lavoro dispensava consigli dall’alto del suo stage non pagato. Trasudava un’intelligenza selvaggia, istintiva. A tratti invece era semplicemente selvaggio, senza l’intelligenza. Come quella volta che al loro terzo appuntamento lui, dal nulla, le aveva detto «tirami il dito» con un sorriso beffardo, per poi esibirsi in un sonoro rutto. Per fortuna aveva davanti la ragazza giusta, perché Eva era scoppiata a ridere e aveva smesso diversi minuti dopo. Ma una volta sdoganati i venti gastrici, le sorprese erano perlopiù finite.
Lei aveva molte più remore a lasciarsi andare e, anche se non ne era pienamente consapevole, dopo quattro anni, in qualche modo, temeva ancora il suo giudizio. Era come camminare su un lago ghiacciato: fino a che punto l’avrebbe retta? Aveva paura che un passo falso sarebbe stato sufficiente a infrangere la lastra. Bastava una delle sue tallonate e avrebbe rischiato di sprofondare. Così era sempre stata cauta, per quanto possibile, nelle sue esternazioni. Aveva aspettato che lui le dicesse «ti amo» per primo, anche se quelle parole le ribollivano dentro da settimane. Aveva conosciuto i suoi genitori, prima di portarlo a casa dai propri. Quando andava in bagno a casa di lui, apriva tutti i rubinetti per coprire qualsiasi rumore sospetto. Piccole accortezze che le davano l’illusione di mantenere ancora un po’ di mistero in nome del romanticismo. Giusto un’illusione, perché Eva non era il tipo di donna che può ambire alla perfezione (vedi alla voce “soffocamento da oliva”), ma le piaceva pensare di avere ancora qualche asso segreto nella manica sudata della maglietta. Lui se li era già giocati tutti.
Dunque bel colpo, quel ristorante. Ora era solo indecisa sul da farsi: fingere stupore e lasciare che pensasse di averla sorpresa, oppure farsi trovare già seduta al tavolo e vederlo impazzire d’amore per la sua fidanzata così geniale?
La risposta fu scontata: «Entro, certo che entro» sussurrò tra sé e sé, impaziente.
Un piccolo campanello annunciò il suo ingresso quando Eva aprì la porta del locale, richiamando subito l’attenzione di una cameriera.
«Buongiorno!» disse la ragazza mentre le si avvicinava con un sorriso smagliante. «La faccio accomodare? Sta aspettando qualcuno?»
Con un’espressione che credeva spavalda e sicura, ma che dall’esterno pareva più un sorrisetto da ebete, Eva si fece avanti: «Credo che ci sia già una prenotazione per due». Le scappò un ghigno di soddisfazione. «Provi a controllare a nome…» ma venne interrotta subito.
«Per oggi non abbiamo nessuna prenotazione ma non si preoccupi, ci sono molti tavoli liberi.»
Per un attimo Eva tentennò, ma subito si accorse che il ristorante era quasi vuoto, fatta eccezione per un’anziana seduta in un angolo, con un barboncino sulle gambe.
Evidentemente in quel posto non c’era alcun bisogno di prenotare, e lui doveva saperlo. Anzi probabilmente l’aveva scelto anche per quel motivo: il silenzio e la romantica intimità. Era perfetto.
«Bene, allora vorrei sedermi al tavolo migliore che avete! A breve mi raggiungerà un’altra persona» disse Eva con quanta più sicurezza riuscì a trovare.
La cameriera la accompagnò al tavolo di fianco alla vetrata che dava sulla strada, e le lasciò due menu prima di avviarsi verso la signora con il barboncino, che reclamava dell’olio piccante.
Eva guardò il viale attraverso il vetro, la strada era quasi deserta.
“Arriverà a momenti” pensò.
Passarono svariati minuti, durante i quali il suo iniziale entusiasmo scese abbastanza da permetterle di vedere con più chiarezza l’aspetto di quel luogo. Dopo aver ordinato una spremuta d’arancia, infatti, cominciò a notare alcuni dettagli: il menu, che era un semplice foglio giallognolo dall’aspetto consumato, presentava come “specialità del giorno” una banale cotoletta impanata, che probabilmente era la specialità del giorno dal 1986. Il soffitto aveva diverse crepe e in quasi ogni angolo c’erano ragnatele impregnate di vecchia polvere (anche quelle sembravano essere lì dal 1986). Il sorriso smagliante della ragazza che poco prima l’aveva fatta accomodare le pareva sempre più simile a una paralisi facciale e il tavolino era leggermente unto.
La sua convinzione stava svanendo alla velocità della luce.
Possibile che lui avesse scelto un locale così squallido per incontrarla?
Forse era lei ad aver sbagliato posto, non sarebbe stata una novità.
Prese il telefono per ricontrollare l’indirizzo, ma proprio in quell’istante arrivò un messaggio: “Scusa il ritardo, dove sei?”.
Era lui. Eva rivolse lo sguardo alla finestra e lo vide in piedi ad attenderla sul marciapiede. Era bellissimo, come al solito. O meglio, era bellissimo agli occhi di Eva. Era alto e asciutto come un lemure, leggermente incurvato in avanti. Una postura che a lei piaceva da morire, perché ci leggeva dentro un gesto di umiltà, come se lui cercasse di ridimensionare il suo corpo per i parametri del mondo. Eva amava tutto di lui: i ricci incasinati, gli occhi un po’ all’ingiù, le tenere fossette ai lati della bocca, la voglia a forma di Australia che aveva sul polpaccio sinistro e che aveva ispirato il loro primo viaggio insieme.
Eva si acquattò d’istinto sotto il tavolino. Con un’improvvisa scarica di lucidità diede una seconda rapida occhiata a quel locale tristissimo e un’altra a lui, lì fuori, in piedi di fianco alla sua auto con le quattro frecce inserite e la portiera ancora aperta, del tutto ignaro. Ora era sicura di essersi sbagliata, si era immaginata tutto come al solito.
Che stupida.
Che stupida, che stupida, che stupida!
Si schiacciò la fronte contro i palmi delle mani e si maledisse.
Lui non l’aveva vista. Era ancora in tempo per pagare la spremuta e uscire di soppiatto dal ristorante.
Prese la borsa e si avviò mezza accucciata verso la cassa, ma i suoi tentativi di non attirare l’attenzione si infransero subito con un urlo disperato che riecheggiò dalla porta: «BETTY!».
La signora con il barboncino, che aveva appena finito di pagare il pranzo, doveva aver allentato la presa sul guinzaglio del cane mentre, con uno sforzo fuori dalla sua portata, tirava verso di sé la pesante porta d’ingresso. L’animale, in uno scatto fulmineo, ne aveva approfittato per rincorrere un uomo in bicicletta.
La donna, presa dal panico, cominciò a correre, con evidente fatica, all’inseguimento del barboncino Betty la furia, strepitando lungo la strada.
Fu allora che il fidanzato di Eva, che fino ad allora era rimasto a fissare annoiato la punta delle sue All Star, alzò lo sguardo in direzione del ristorante, attirato dal chiasso.
Eva si schiacciò contro il bancone della cassa, nella vana speranza che la sua maglietta gialla fluo si mimetizzasse con il legno. Non funzionò, era come un semaforo nella notte. L’unica cosa che ottenne fu lo sguardo perplesso della ragazza in cassa.
Attraverso la porta d’ingresso, che era rimasta spalancata dopo la fuga della signora, si sentì chiaramente il rumore di una portiera che veniva richiusa, e poi un «Eva?». Sgamata in pieno.
Eva si ricompose, sorrise alla cameriera e si passò una mano sui vestiti come per stirarli, gesto che fece più che altro per asciugarsi le mani, che dopo l’arrivo del ragazzo avevano cominciato a sudare copiosamente.
Quando si voltò, con la nonchalance ostentata di un’attrice di Hollywood, lui aveva già attraversato la strada e ora era appoggiato allo stipite della porta del ristorante.
Le rivolse un sorriso forzato e un flebile «ciao».
Niente «amore», niente «baby», nessun abbraccio, nessun bacio, nessuna corsa romantica verso di lei e – anche se a questo punto era prevedibile – nessun Mariachi nascosto sotto il tavolino.
Eva si sentì mancare l’aria. Le ascelle passarono da pezzate a pezzatissime.
«Volevi pranzare?» le chiese invece lui con tono spento.
Se prima si sentiva una completa idiota – un feeling che purtroppo conosceva anche troppo bene – ora stava raggiungendo nuove vette di panico: era talmente imbarazzata che si trovò a desiderare di farsi esplodere in quel ristorante, non fosse stato un posto troppo brutto anche per morirci dentro. Non era solo l’idea di aver frainteso l’occasione, c’era un’energia strana nell’aria, che la investiva come un’onda anomala. Perché lui le stava parlando in quel modo, come a una promotrice di Greenpeace all’uscita della metro di cui non vedi l’ora di liberarti? Le sue parole dicevano una cosa, i suoi occhi e il tono della voce urlavano “sticazzi delle balene a rischio estinzione!”.
Non ricevendo risposta lui continuò: «Io ho già mangiato qualcosa in aeroporto, ma posso aspettarti se hai fame».
Di nuovo quella gentilezza formale, come un passante.
Eva riemerse dall’apnea.
«In realtà ho appena finito di mangiare, visto che eri in ritardo ne ho approfittato! Uff… sono pienissima.» Si passò entrambe le mani sulla pancia con un sorriso forzato, immaginandosi la spremuta ridere di lei dall’interno dello stomaco. Le parve la scusa perfetta, ma non aveva calcolato la presenza della ragazza dietro al bancone, che forse quella mattina si era alzata con il piede sbagliato, oppure soffriva di una grave forma di un morbo molto diffuso, la “Stronzite acuta”. Fatto sta che la cameriera decise di intervenire con prontezza e godersi il proseguimento di quella scena patetica, dicendo: «Mi spiace che l’abbiano lasciata sola, speriamo comunque di rivederla presto. Per la spremuta di arance fanno 4,50».
Eva stentò a crederci. Che infame! Dov’era finita la solidarietà femminile?
Le lanciò uno sguardo di fuoco prima di lasciarle una banconota da cinque euro sul ripiano. «Tenga pure il resto» disse a denti stretti, rimpiangendo per la seconda volta di non avere un candelotto di dinamite nella borsa.
Raggiunse il fidanzato con la coda fra le gambe e uscirono dal ristorante senza guardarsi negli occhi. Stava morendo di imbarazzo dopo il ridicolo siparietto del pranzo inventato, ma lui sembrava non essersi accorto di nulla. Era tipico di Eva arrovellarsi e rodersi il fegato per presunte figure di merda che al resto del mondo passavano del tutto inosservate.
«Be’, come stai?» le chiese lui continuando a guardarsi le scarpe come se ci fosse scritto sopra un copione da seguire.
«Bene, bene… Tu invece, hai passato una bella vacanza?» rispose Eva, che invece ora lo fissava con angoscia crescente come un cucciolo di cane, cercando una qualsiasi traccia d’affetto sul suo volto.
«Sì, molto bella» rispose lui, continuando a cercare di battere il record di “minor uso di sillabe mai usate in una conversazione”.
Non erano mai stati così a disagio l’uno con l’altra. Eva era abituata a sentirsi sbagliata, ma non con lui.
Erano sempre stati affiatati, fin da quando si erano conosciuti. Si completavano in un incastro magico e perfetto: lui amante dello sport, lei campionessa di cazzeggio su divano. Lui appass...